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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

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Storie di musica

Storie di musica

A dieci anni dalla pubblicazione su Il Giornale, AMAmusic riscopre la famosa raccolta di storie scritte da Cesare G. Romana sui personaggi chiave della storia della musica. Un racconto ogni 15 giorni.

 

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Venerdì, 21 Dicembre 2012 12:55

Storia di musica n. 21 - Sting

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Pungiglione incantato

Sting // Storia di musica n. 21 di Cesare G. RomanaQuando il trepestio dei piedi, sulle predelle dei banchi, segnalò l'impazienza della scolaresca, il maestrino smise di declamare e ripose nel cassetto Lo Hobbitt di Tolkien. Poi da sotto la cattedra trasse il basso e collegò il cavo con la presa, erano tempi artigianali. «Proviamo Singin' in the rain», ordinò, e da sotto ogni banco scaturì uno strumento: un umile ottavino e la cavernosa maestà d'una tuba, silhouette serpentine di sax, la snellezza retrattile d'un trombone, un flicorno petulante e due chitarre dall'accordatura precaria. Sulla quarta B le finestre irradiavano un lucore invernale e sorella Ruth, la preside, reputò inutile affacciarsi per dire, col suo tono burbero: «Non discuto i suoi metodi, professor Sumner, ma riduca il rumore: disturba le altre classi». L'episodio tornò alla mente di Sting dodici anni dopo, era l'87 e su Rio de Janeiro pioveva un acquoso dicembre. L'auto portò lui e Trudie nel cuore della foresta, la facciata gotica emerse tra il verde e parve annunciare una chiesa cristiana, più che un tempio sincretista: era, in realtà, entrambe le cose. Entrarono. Lo striscione, sopra l'altare, prometteva luz, paz, amor, i fedeli vestivano tuniche verdi trapunte di stelle, un prete intonò una nenia. Nei boccali il liquido - melmoso, marrone - aveva un ingrato sentore di petrolio: bevvero, e il sapore era ributtante quanto l'odore.

Martedì, 11 Settembre 2012 15:44

Storia di musica n. 20 - Pete Townshend

Scritto da

L'autodistruttivo

Pete Townshend - Storie di musica di Cesare G. Romana

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Forse non sarebbe mai diventato un musicista, senza quella faccia da cavallo sbilenco, gli occhi a capocchia di spillo e per contro un naso enorme, da Cyrano rock. E quella timidezza da donchisciotte stranito: tutto l'opposto d'un seduttore di folle, senonché fu proprio la bruttezza da dipinto di Bosch, e gli scherni di cui essa nutrì la sua infanzia a tramutare in rockstar Pete Townshend da Chiswick, Londra, classe '45.

Più che la vocazione o il Dna - nonno pianista, padre sassofonista, madre cantante - poté la rabbia, che un giorno sconvolse l'affabile normalità di Pete e gli fece urlare ai compagni di scuola: "Ridete, ridete: un giorno questo naso uscirà su tutti i giornali del mondo".
Così cominciò a industriarsi con una chitarra, poi con un banjo, una fisarmonica, un pianoforte, una batteria. A quindici anni era un'orchestra vivente, senza che questo bastasse a far presagire per lui un futuro da divo. Un po' per quella pigrizia attonita, da sognatore, un poi' per l'indole introflessa, da filosofo.
Che per appartarsi dal mondo, a otto anni, costruì su un terreno deserto un capanno di lamiera, per trascorrervi ore intrecciando in silenti viluppi sogni adolescenti, progetti vagabondi, nebbiose riflessioni sui destini del cosmo. E profili aurorali di donne: ben altro dalle accuse di pedofilia che lo avrebbero tormentato da adulto.
L'umidità trapunse il soffitto di stelle di ruggine, e quello fu per mille pomeriggi il suo firmamento: sdraiato sul terriccio scrutava quel fantasma di cielo, poi imbracciava la chitarra e ne strappava piccole nenie, risacche di accordi, bisticci di ritmo a sostegno d'una voce inevitabilmente nasale.

Giovedì, 23 Agosto 2012 16:40

Storia di musica n. 19 - Brian Wilson

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«Non sono proprio fatto per questi tempi»

Brian Wilson

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Per un’ora e mezza Brian Wilson lavorò di badile, tra convulsi di tosse, il sudore che stillava tra le rughe, il sole di California che bruciava dalle vetrate. Alla fine il pavimento era scomparso, annullato da un tappeto di sabbia, fina come cenere. Solo allora Brian aprì il pianoforte, sedette sullo sgabello, immerse i piedi scalzi in quell’improvvisato arenile e cominciò a suonare. «Niente mi ispira come la sabbia», aveva confidato al suo analista il più geniale e il più matto dei Beach Boys.

Erano gli anni Settanta e Wilson non era più il ragazzone un po’ obeso, il sorriso marchiato sul volto, i jeans bianchi e la maglietta a righe che aveva stregato il mondo dieci anni prima, con un motivetto, "Surfin’", tutto estate, coretti e flessuose chitarre. Ora Brian era uno scarno signore con molti più anni sul viso che sul passaporto, lo sguardo perpetuamente in allarme, la faccia tutta un solco. Troppi i pesi da reggere: l’infanzia con un padre frustrato e manesco, l’insostenibilità del successo, un’immagine pubblica spensierata e posticcia, che faceva a pugni coi lati oscuri del suo carattere. Poi le droghe, le paranoie, gli incontri sbagliati «nei quali mi rifugio come in una conchiglia», ad alimentare quel male di vivere che, nei momenti di chiarezza, lui sintetizzava così: «Non è che ho paura di qualcuno: ho paura di tutti». Anche dei «suoi» Beach Boys? «Eccome: invidiosi, figli di puttana, quando li vedo li picchierei. Ma sono più forti di me, mi farebbero a pezzi».

Mercoledì, 01 Agosto 2012 17:41

Storia di musica n. 18 - Bob Marley

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Bob Marley

L'onorevole Robert Nesta Marley

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Chi meglio di Bob Marley detto Mas Nesta, vate del riscatto dei neri, poteva celebrare l'indipendenza dello Zimbabwe, quel 18 aprile dell'80, con la danza dei suoi ritmi e la sua voce di salmista. Lo stadio di Salisbury era ricolmo, Marley s'inchinò al principe Carlo e al primo ministro Mugabe, e salì sul suo podio con una falcata da giaguaro. Ma come intonò «non voglio che la mia gente/ sia ingannata da mercenari/ sicché gli africani liberino lo Zimbabwe», la festa dell'acquistata libertà trovò in sé la propria antitesi: i poliziotti caricarono la folla, il fumo dei lacrimogeni inondò il Rufaro Stadium e a Mas Nesta toccò cantare con gli occhi gonfi il suo salmo gandhiano, «in ogni petto batte un cuore/ questa è la vera rivoluzione».

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