Il problema è che i ragazzi, forse consepavoli che alcuni brani non fossero d’eccelsa levatura, tendono a nascondere l’essenza della musicalità con finali dilatati, refrain ripetuti in modo estenuante, annacquando a dismisura il prodotto. Così, specialmente le mid-tempo tracks soffrono d’eccessiva prolissità, vedi Girl In The Dirty Shirt.
Pezzi come Stand By Me sono certamente molto piacevoli, ma perché ribadire dodici volte un ritornello già lungo di suo? Anche Magic Pie, la miglior espressione dell’album, s’è visto applicare una coda cacofonica d’oltre un minuto, colorazione pittoresca che poteva aver senso in un disco psichedelico o progressivo, non forse in un opera di rock nudo e crudo. Perché un difetto dei Be Here Now è anche questo: il suono appare troppo uniforme, governato da inizio a fine da chitarra elettrica (in genere distorta), con feedback sbattuti dentro ovunque e non sempre a ragion veduta. Poco spazio per tastiere, poste spesso in secondo e terzo piano o celate nel mix, per non parlare della totale o quasi assenza di pianoforte, fiati o percussioni. Dove l’armonia si veste di maggiore ampiezza, come nell’epica All Around The World o nella succitata Magic Pie, l’ascolto risulta subito più variegato e gradevole. La prima in particolare, tra ben tre cambi di tonalità, svariati coretti e ritornelli e strizzatine d’occhio a Sgt Pepper’s riesce a non annoiare in ben dodici minuti (ripresa inclusa). Un quarto di pezzo in meno e scattava il capolavoro.
C’e in genere una mancanza di brillantezza nel disco, evidenziata anche in piccoli particolari (perchè la parte mediana di Don’t Go Away riprende pari pari quella di Don’t Look Back In Anger?); la produzione e gli arrangiamenti privi di fantasia appiattiscono l’album rendendolo di fatto un pastone uniforme piuttosto ostico da digerire.
In un ambito del genere, il pezzo lento può risultare micidiale: ben vengano allora canzoni veloci ed ariose come “My big mouth” o I Hope I Think I Know, l’immediatezza salva qui e là Be Here Now dal disastro ma non dall’insipidità. Altrove (It’s Getting Better, Man), la musica scade in giri e cambi prevedibili, durando comunque almeno un paio di minuti di troppo; anche l’allegra Be Here Now non riesce ad offuscare l’idea di un’opera in cui gli Oasis sono esageratamente autoaccondiscendenti, perdendosi nella nebbia della sproporzione. Tanto per ribadire il concetto, il primo singolo, D’you Know What I Mean è materiale di valore che avrebbe certo giovato di maggior snellezza, per non parlare della nebulosa Fade In-Out(Curiosamente, nel disco successivo troverà spazio un brano, Go let it out, evidentemente "ispirato”, diciamo così a questa canzone. Eppure la versione di Standing On The Shoulder Of Giants suona più briosa e invitante, il che non è facile da spiegare).
In un simile contesto, anche la voce di Liam si rende monocorde oltre il dovuto e settanta minuti sono troppi per essere sempre piacevole all’ascolto (Per sé, Noel si ritaglia l’unico spazio da lead vocalist in Magic Pie, non a caso). La parte migliore del disco sono probabilmente i testi, il che non è un gran vanto per un musicista come Noel, tuttavia le liriche sono variegate, talvolta con toni trionfalistici (It’s Getting Better Man, Be Here Now, Magic Pie, All Around The World), in alcuni casi persino languide, come in Stand By Me o Don’t Go Away; tutto ciò non sembra però sufficiente a risollevare le sorti di un album troppo simile a sé stesso per essere attraente.
In sintesi, con questi brani gli Oasis giocano alla progressive band senza però corredare il materiale con le indispensabili (e spesso geniali) diversificazioni tecniche, o quantomeno l’essenziale gamma di arrangiamenti multicolori che ciò richiede.