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LA BOHÈMEMusica: Giacomo Puccini Luogo: Teatro Coccia, Novara
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Le quinte del teatro, negli attimi che precedono la messa in scena di un’opera, celano un microcosmo che si rifiuta di sottostare alle regole del tempo: personaggi in costume si aggirano tra gli angusti corridoi, scalini e ballatoi di legno scricchiolano sotto il passeggiare blando di un attore che ripassa la parte, vocalizzi sopranili filtrano ovattati da dietro le pareti. L’atmosfera che si respira tra il viavai di cantanti, orchestrali e maestranze, non sembra essere diversa da quella che impregnava quei locali alla fine dell’Ottocento, quando il Teatro Coccia venne inaugurato. Al di là del sipario, velluti, ceselli e inserti di oro zecchino attendono solo che il pubblico prenda posto, prima che il maestro Giuseppe Acquaviva inizi a far rivivere la Bohéme, per l’occasione nell’allestimento del Teatro Regio di Torino.
La tenda rossa svela alla sala una rivisitazione della storica scenografia firmata da Eugenio Guglielminetti: nelle intenzioni del grande scenografo, rendere adattabile l’impianto ad ogni palcoscenico grazie ad una pedana girevole sulla quale sono montati gli elementi che creano i tre ambienti dell’opera. Un cenno del direttore e siamo già nella soffitta parigina in cui Rodolfo e Marcello, scrittore e pittore squattrinati dediti alla vita bohemièn, si angustiano tanto per coltivare la propria arte quanto per raccimolare di che scaldarsi.
I due amici sono presto raggiunti da Schaunard, musicista, e Colline, filosofo: i serrati scambi di battute del primo quadro sono permeati, nonostante la situazione non proprio idilliaca, da spensieratezza e humor, che raggiungerà l’apice all’entrata in scena di Benoît, il padrone di casa beffato dai quattro tra le risa soffocate del pubblico.
Humor e versi scanzonati lasciano spazio al sentimento quando alla porta bussa Mimì, giovane fioraia in cerca di fuoco per riaccendere la candela. Rimasto solo, Rodolfo l’accoglie e il buio diventa il pretesto perchè le mani dei dui si sfiorino, dando il via a due delle arie più celebri del melodramma: Che gelida manina, se la lasci riscaldar, canta Rodolfo tracciando una sorta di autoritratto; Mi chiamo Mimì, risponde la neo-amata con lo stesso intento.
Il secondo quadro si apre sulla scena corale dell Caffè Momus: le voci di venditori ambulanti, bambini e artigiani si intrecciano e sovrappongono dando vita, assieme all’orchestra, ad un dipinto d’ambiente in cui anche il pubblico sembra coinvolto, tanto è forte l’impatto scenico. Quando men vo', la celebre romanza in tempo di valzer intonata da Musetta vale alla raffinata soprano uno scrosciare di applausi entusiasti.
La stupenda scenografia innevata del terzo atto fa da sfondo alla gelida decisione dei due amanti di lasciarsi: Mimì è malata di tisi e Rodolfo non ha i soldi per curarla; con la fine dell’inverno finitrà anche la loro storia d’amore.
La soffitta dell’inizio è la cornice in cui si svolge l’ultimo, tragico, atto. Rodolfo e Marcello ripensano ai loro amori ormai lontani quando Colline e Schaunard rientrano con un pasto prelibato: un’aringa. La situazione si trasforma in gioco e i quattro amici si lasciandno andare a scherzi e danze (minuetto, pavanella, quadriglia, fandango): è la quiete prima della tempesta. Ad un tratto dalla porta entra Musetta trascinando Mimì morente, coi capelli sciolti e il volto emaciato (Fin dal camerino, durante il trucco prima del quarto atto, inizio a calarmi nella parte: mentre mi avvicino alla soffitta in un certo senso sto già morendo ci cofesserà Elena Rossi alla fine dello spettacolo). Nel disperato tentativo di trovare i soldi per curarla, Musetta e Colline vanno ad impegnare rispettivamente gioielli e zimarra (Vecchia zimarra senti/ io resto al pian, tu ascendere/ al sacro monte or devi) ma il gesto sarà vano, Mimì è ormai alla fine.
I due innamorati hanno tempo per un ultimo duetto d’amore in cui rievocano la loro storia prima che la giovane protagonista spiri e il lamento straziato di Rodolfo faccia calare il sipario.
L'irrompere inatteso della tragedia, in contrasto con l'atmosfera scapigliata e, appunto, bohemienne del quadro ambientato nella soffitta parigina, ci offre un esempio del genio pucciniano della melodia e dell'orchestrazione: l'ampio respiro delle arie e i colori screziatissimi dell'orchestra, uniti all’interpretazione intensa e brillante dei cantanti, fanno sì che lo spettacolo coinvolga e commuova chiunque tra il pubblico, dai cultori fino ai bambini che, certo, non hanno molta dimestichezza col linguaggio operistico.
Incontriamo MimìMimì - ci ricorda Cesare G. Romana - è tra i personaggi di Bohème quello che meglio sintetizza le peculiarità della musica e della poetica pucciniane. Che in quest’opera tocca i vertici di compenetrazione tra atmosfere crepuscolari, umorismo, pathos spinto all’occorrenza fino al tragico, scanzonatezza, lirismo, pittura d’ambiente, romanticismo, comicità. Mimì è un’eroina tragica che esprime anchee i toni della commedia e del dramma borghese, e in questo senso rispecchia meglio degli altri personaggi l’indole particolarissima del repertorio pucciniano, che suole appunto spaziare dalla commedia alla tragedia all’interno di una stessa opera, mescolando in modo personalissimo spunti derivanti dall’Opéra comique e dall’Opéra lyrique francesi, dall’ultimissimo Verdi (Falstaff), dalla romanza da camera, dal romanticismo tedesco e austriaco, etc. Sempre però con un’autonomia inventiva e culturale che non si abbandona mai all’imitazione di modelli altrui. Dunque per interpretare Mimì occorre saper spaziare caratterialmente e localmente tra psicologie ben diverse, conoscendo il sorriso e la lacrima, il sospiro e l’ironia, l’innocenza e il disincanto. |
![]() Compito arduo, dato che l'impegno della soprano per arrivare al risultato che abbiamo potuto apprezzare al Teatro Coccia, non è stato da poco: «Mi sono ispirata soprattutto a Mirella Freni: ho ascoltato e riascoltato i suoi nastri fino a memorizzarne ogni dettaglio, sono arrivata a conoscere esattamente i punti in cui prende fiato in una strofa o nell'altra». Una simile dedizione non può che portare ad una resa eccellente. Per questo motivo anch noi ci auguriamo, come Elena Rossi, che questa rappresentazione possa essere tenuta in vita ancora a lungo e portata ed esportata nei teatri italiani e non. |
Mimì, Elena Rossi (soprano)
Musetta, Maya Dashuk (soprano)
Rodolfo, poeta, Niels Jørgen Riis (tenore)
Marcello, pittore, Domenico Balzani (baritono)
Schaunard, musicista, Francesco Paolo Vultaggio (baritono)
Colline, filosofo, Andrea Mastroni (basso)
Benoît, il padrone di casa / Alcindoro, consigliere di Stato, Luca Ludovici (baritono)
Parpignol, venditore ambulante, Mauro Scalzini (tenore)
Sergente dei doganieri, Gilles Armani (baritono)
Doganiere, Pier Marco Viñas (basso)
Il venditore di prugne di Tours, Filiberto Ricciardi (tenore)
Maestro concertatore e Direttore d’orchestra: Giuseppe Acquaviva
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro del Teatro Coccia, diretto dal Maestro Gianmario Cavallaro
Coro delle voci bianche dell’accademia di canto e musica da camera "M. Langhi", diretto dal Mestro Alberto Veggiotti
Regista: Vittorio Borrelli
Bozzetti e figurini: Eugenio Guglielminetti
Disegno luci: Jean Paul Carradori
Scene: Saverio Santoliquido e Claudia Boasso
Costumi: Laura Viglioni
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Produzione della Fondazione Teatro Coccia di Novara in collaborazione con la Fondazione Teatro Regio di Torino
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FRANCO BATTIATOwww.battiato.itLuogo: Teatro degli Arcimboldi, Milano
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Eppure il tour è lo stesso: Un Patriots To Arms ha portato per le città d’Italia un Battiato versione T-Shirt e scarpe da tennis, balzellante al grido di pump up the volume! E ora? Ora la scena si apre su quartetto d’archi e pianoforte a coda: si sa, Franco Battiato non è mai “lo stesso”. E se ripetersi non è proprio nelle sue corde, stupirci sì. Al Teatro degli Arcimboldi lo fa nel modo più sublime e al contempo disarmante, aprendo con L’addio.
«Si si, ho capito» ironizza subito per interrompere il frastuono degli applausi; «Ma quanto casino che fate» ribadirà prima dei bis. Chiaramente è una di quelle serate in cui bisogna restare in ascolto col fiato sospeso, perché la meraviglia del repertorio di Battiato potrebbe mostrarsi anche nei suoi lati più riposti. Dalla sedia il cantante ci delizia con una parentesi Fleur assieme a Brel, Endrigo, De Andrè: La Chanson des Vieux Amants, Te lo leggo negli occhi, Aria di Neve e Ma tu che vai, ma tu rimani, in cui si insinua la chitarra acustica di Davide Ferrario.
Con l'ensemble al completo è ora possibile spaziare attraverso generi e epoche, un andirivieni continuo tra gli anni 80 di No Time, no space, Un’altra vita e I treni di Tozeur , gli anni 90 di Cafè de La Paix e il nuovo millennio di Tra sesso e castità; poi ancora a ritroso con l'esoterismo de Il re del mondo.
Il momento più alto del concerto arriva con Segnali di vita, seguita da Lode all’inviolato e La cura: Davide Ferrario è sempre più scatenato e inappropriato, bravo quanto fastidioso nel suo agitarsi nevrotico e fuori luogo. Quindi Prospettiva Nevski, con i suoi arrangiamenti eterei, i suoi risvolti rock e alcuni tra i versi più significativi dell’intera discografia del cantante e compositore catanese, è seguita da uno strascico di applausi che non accenna ad afievolirsi.
La coppia Tutto l'universo obbedisce all'amore e La stagione dell’amore sono gli ultimi brani che consentono agli spettatori una fruizione canonica del concerto: sulle note di La danza, L’era del cinghiale bianco e Summer on a solitary beach è impossibile impedire il rituale accalcarsi dei fan sotto al palcoscenico (operazione parzialmente riuscita, in questo contesto, per via della buca dell’orchestra).
I bis sono ormai più che rodati: Magic Shop, L’Animale, Cucuruccuccù e Un patriots to arms; quindi Stranizza d’amuri e, ovviamente, Centro di gravità permanente.
Atmosfere evocative, trance elettronica e pulsazioni afrocubane in un rito sciamanico dall'espressività moderna, aperta alle contaminazioni e alla rilettura della tradizione. La coppia Fresu-Sosaoltrepassa i confini imposti da un mercato sempre più omologato, in una emozionale esplorazione creativa, sfruttando la tecnologia presente in entrambi i set-up dei musicisti.
Il repertorio proviene dal nuovo disco Alma, inciso dal duo per la neonata etichetta di Paolo Fresu (Tùk Music) dove, al trombettista sardo e al pianista cubano, si aggiunge in alcune tracce il violoncello del brasiliano Jaques Morelenbaum.
La musica riflette il carattere cosmopolita dei due artisti: l'anima jazz, propulsione primaria delle composizioni, si colora di influenze mediterranee, caraibiche e africane condite da un sapiente dosaggio dell'elettronica. I campionamenti ritmici e vocali si integrano ai suoni del piano elettrico, agli effetti ricercati applicati alla tromba e al flicorno affiancati dalle linee di pianoforte, regalando brani come l'ipnotica No Trance o S'Inguldu in apertura, che dal vivo perde la connotazione fusion. La title track del disco, dall'armonia impalpabile, muta lentamente in leggeri afflati afrocubani, mentre “Angustia” è un veicolo ritmico per le evoluzioni virtuosistiche del duo.
In scaletta anche l'unico brano non originale dell'incisione, la cover “Under African Skies” di Paul Simon, tratto dal pluripremiato Graceland.
Un combo coeso dalle dinamiche variabili, aperto all'improvvisazione estemporanea, in cui l'estro giocoso di Sosa è complementare alla vena istrionica di Fresu.
Il concerto, gratificato dai lunghi applausi del pubblico, è l'ultimo di una serie di date europee per presentare l'album; nel doppio bis un sentito omaggio a Lucio Dalla con la rilettura di Caruso, arricchito da una coda improvvisata, che Fresu presenta come uno dei brani che meglio ci rappresenta all'estero.
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