A dieci anni dal breakthrough planetario (No Parlez), che l’aveva affermato come interprete raffinato e suadente, Paul Young affronta il nuovo decennio con un’opera ambiziosa, per la quale raduna un parterre di sessionmen di tutto rispetto (Jeff Porcaro, Billy Preston, Paul Jackson Jr e Pino Palladino, solo per citarne alcuni, e Don Was alla consolle). A The Crossing arride effettivamente un certo successo, con due singoli indovinati che lo riportano in auge dopo qualche anno di penombra. Hope in a hopeless world è una torta al miele di buoni sentimenti (sulla tradizione di Love Of The Common People), ovvero disgrazie dell’umano esistere anestetizzate da snelle tastiere disco e ritmi allegrotti. Maggior fortuna per Now I Know What Made Otis Blue, a pieno merito visto che è il brano migliore e uno dei migliori in assoluto del suo repertorio, un intrigante esercizio soul pennellato per le impressionanti qualità vocali del nostro. E seppur non allo stesso livello, non mancano nel disco altri episodi convincenti. Il souldance di Down in Chinatown, permeato da trombe sommesse, o le atmosfere sofisticate di Half A Step Away, cintata da percussioni ovattate, ne costituiscono buon esempio.
Young alza ancora il tiro nella cupa The Heart Is A Lonely Hunter che s’avvale di un refrain ben costruito e non banale, (il che non è sempre automatico) e risulta il pezzo più incisivo firmato da lui stesso. E’ verso la fine del disco che la qualità tende a scemare. Lo speranzoso inno di Follow On (“Uomini soli con le dita sul futuro…") è banalotto e dolciastro, rivestito oltretutto da un arrangiamento pomposo che non fa che appesantire un insieme già poco digeribile. Discorso analogo per la blanda chiusura di It Will Be You, beato lamento guancia a guancia gia propinatoci in tutte le salse durante lunghi decenni di tradizione strappalacrime, con l’inevitabile, stereotipato solo di sax alla fine. In quest’ambito sono più azzeccati gli slow di Bring Me Home o Won’t Look Back, che sprigionano almeno un briciolo di vitalità, pur restando fedeli ai canoni stilistici del decennio precedente. E in fondo, il problema generale che affligge The Crossing è proprio questo: le atmosfere, le sonorità sono ancora sfacciatamente, fatalmente anni ottanta. E’ un album che manca di ricerca, di sperimentazione magari, affidandosi a canoni sicuri e ritriti, quelli sui quali il personaggio ha costruito il suo successo. Ma in quanto a rinnovamento e crescita, non c’è molto da dire.
In più è un lavoro eccessivamente incentrato sulla melodia (vedo già i sedicenni sospirare sui coretti di Love Has No Pride, il motivo più accattivante della raccolta). Paul deve aver scordato in qualche camerino la sua essenza rock, celebrata in passato da dischi come Other Voices, o vecchi successi come “I’m Gonna Tear Your Playhouse Down”. Un brano come Only game in town avrebbe certamente dato altra resa con un arrangiamento grintoso, magari distorto, piuttosto che ritrovarsi ingabbiato negli usuali, confortanti stereotipi di tocchetti di tastiera, note alte di sax e drumming elettronico.
Poco di nuovo, insomma, e il tutto porta in fin dei conti a considerare questa di The Crossing un’operazione trascurabile, utile certamente a riaccendere le luci della ribalta sul ragazzo di Manchester, ma non ad ampliarne la credibilità artistica quanto avrebbe meritato e forse ottenuto con un pizzico di coraggio in più.
Trovatisi di fronte ad una sostanziale disapprovazione per la loro ultima fatica, Heathen Chemistry, i ragazzi di Manchester impiegano tre anni per progettarne ed attuarne un seguito, e nella primavera del 2005 vede la luce il sesto album della band: Don't Believe The Truth. Preceduta e trainata da un singolo classicamente Oasis, la lenta, pesante Lyla, con quell'inizio che fa tanto Who, scelta come leading single dai discografici contro il parere dello stesso Noel, quest'opera contiene materiale in genere altrettanto buono e spesso migliore, che riacquisterà al gruppo il favore di pubblico e critica.
Malgrado lo strombazzato processo di democratizzazione in atto da qualche anno in seno all'inquieta compagine, è ancora una volta il lavoro del Gallagher anziano a profondere lustro e valore. Non a caso suoi sono i tre singoli estratti dall'album. Oltre a Lyla, ecco l'anatema di Mucky Fingers, potente ed elementare wall of sound di bass-guitar-n'drums- distilla elucubrazioni profonde ed insidiose (“Tu credi di meritare una spiegazione sul significato della vita...”). Diametralmente opposto il concetto espresso da The Importance Of Being Idle, dove, con voce lambente il falsetto, il nostro dichiara non esservi nulla di meglio nella vita di un letto accogliente sotto il cielo stellato. Beato fancazzismo, illustrato con un tango sognante ed insolito, invero di grande fascino. Part Of The Queue si risolve invece in una grintosa schitarrata in minore, con un cantato incisivo e iridiscente. Ma è l'ultimo brano Noel-made a meritare tutta l'attenzione. Let There Be Love, melodia di chiusura che si sprigiona dai solchi con andatura liturgica, per poi prendere forma autonoma nel bridge, interpretato dallo stesso autore, che culmina in un crescendo meditabondo e coinvolgente, furbescamente inserito nel bel mezzo di liriche che inneggiano ai buoni sentimenti, ossia quanto di più tipicamente Gallagher si possa immaginare.
Alcune, non tutte, tra le tracks restanti eguagliano il livello dei cinque pezzi di Noel. Citerei la opener, Turn Up The Sun, del bassista Andy Bell, che consta di un sofisticatoo stacco strumentale posto all'inzio e alla fine di un piacevole, corale pop-rock. Liam se ne esce con una manciatina di brani tra cui la più degna di nota è per distacco la scattante The Meaning Of Soul, stomp istantaneo che strizza l'occhio al garage. Quando il fratellino cerca di tracciare una propria strada artistica, ecco che raggiunge risultati anche lusinghieri, come nella melodica, riflessiva, apparentemente semplicistica Guess God Thinks I'm Abel, (che suona come una mano tesa per il Caino di famiglia).
Meno interessante risulta il suo materiale quando, al contrario, scimmiotta il chitarrista con robette fiacche, insipide come Love Like A Bomb. Gem Archer contribuisce la rockeggiante A Bell Will Ring, mentre Bell pennella anche Keep The Dream Alive, tutti brani piacevoli ma che se dimostravano qualcosa, era il fatto che i nuovi membri degli Oasis subivano, positivamente, l'influenza stilistica di Noel. Non che questo comprometta il livello generale dell'opera, la cui pubblicazione recuperò agli Oasis più di una simpatia, alienata dalle ultime vicende che ne avevano caratterizzato la storia, artistiche o meno. Ma nell'ambito della band s'era accesa una scintilla pericolosa, che avrebbe scatenato un incendio inestinguibile, quattro anni e un disco più tardi. Liam e gli altri forse pensavano, già all'epoca, di poter far a meno di Noel, della sua maggiore esperienza ed, evidentemente, delle sue maggiori abilità a livello di songwriting; fatto sta che Don't Believe The Truth segnava il miglior disco dei discoli di Manchester dai tempi di What's The Story, ormai dieci anni prima, e che, fino a prova contraria, le gerarchie avrebbero fatto bene a restare quelle che erano.
Eccola, inevitabile, imponente, impetuosa, dopo gli assestamenti e gli accenni di Robber Soul, la chiave di volta della produzione beatlesiana: risiede in questo disco dall'anonima copertina in bianco e nero, approdato nei negozi il 5 agosto del 1966. In trentacinque minuti di musica l'ampliamento e la ricerca stilistici portano a risultati tali da mettere d'accordo i critici più scettici e probabilmente mal disposti dagli echi della beatlemania, ancora al di là da sbiadire. Una crescita che si palesa sin dalle tracce più semplci, direi basilari dell'album: Taxman, She said she said, Dr. Robert e And your bird can sing sono vivaci, energiche espressioni rock, e quasi sempre dietro ad esse c'è l'anima vibrante di John Lennon, praticamente autore unico dei brani più movimentati di Revolver, pregni di immagini tanto colorate (per non dire allucinate..) quanto sgargiantemente vitali.
La vena lirica di Paul McCartney tocca in quest'occasione vette di nevi perenni, offrendo un contributo poetico che negli anni successivi avrebbe faticato persino solo ad approcciare. Le storie di strazianti solitudini di Eleanor Rigby e For no one sono letteratura eccelsa, accompagnate con la dovuta discrezione da impeccabili sezioni classiche. L'immagine della ragazza che raccoglie il riso in una chiesa vuota dopo un matrimonio, ed il delicato suono del corno che dissolve “lacrime senza amore piante per nessuno” certificano e suggellano un livello assoluto, e forse inimmaginabile solo un paio d'anni prima. Ennesimo punto di forza di Revolver è la definitiva consacrazione come autore di George Harrison, che sarà il primo a stupirsi d'aver ben tre sue composizioni sul disco. Oltre alla succitata Taxman, ritmato e sarcastico piagnisteo d'un ricco contribuente soggetto al vorace sistema di tassazione britannico, il ventitreenne baronetto propone I want to tell you, una sorta di blues veloce guidato dal piano, in uno stile che ispirerà anche la successiva Old brown shoe, nonché la karmica, fatalista Love you to, che sdoganerà definitivamente, dopo la breve comparsa su Norwegian wood, l'esotica presenza del sitar nel materiale dei fab four.
Il sentiero innovativo percorso da Revolver segna una nuova, significativa tappa nell'inno soul di Got to get you into my life, trionfo uptempo di fiati assortiti, cartuccia Motown sparata da un McCartney che aveva appena finito di rilassare l'ascoltatore con la regina delle love song, la melliflua, ruffiana ed intrigante Here there and everywhere. E ancora, altre brillanti tonalità di colore arricchiscono la tavolozza di Revolver: c'è la deliziosamente retrò Good day Sunshine, che non poteva essere che di Paul, così come solo John poteva scrivere una canzone come I'm only sleeping, affascinante laude all'ozio totale e senza condizioni, con quel sound cantilenante, surreale nel suo interrompersi a metà cammino per poi riprendere stancamente e lanciare all'ascoltatore perle di attualissima, rovinosa saggezza: “Running everywhere in such a speed - till they find there's no need...”
Poi? Fine delle sperimentazioni? Insomma. Potremmo aggiungere che l'ultima traccia di Revolver rappresenta il codice d'accesso alla Nuova Epoca: Psichedelia, Flower Power, Estate dell'amore. Il messaggio, forte e chiaro, è racchiuso nei tre minuti di Tomorrow Never Knows, che ne distilla le peculiarità con un incedere ipnotico, tanto impersonale quanto avvolgente: “Spegni la mente, rilassati, lasciati trascinare dalla corrente...non è morire.. arrenditi al vuoto...gioca il gioco dell'esistenza fino alla fine del principio...”. Tra lampi di rullante in controtempo, effetti sonori, nastri al contrario e quant'altro, l'ex Beatle sorridente John Lennon conduce i suoi tre amici e noi con loro al di là di ogni vetusto residuo yeh yeh.
Cosa dite? Non ho citato Yellow submarine? E' vero, ma i quattro erano ormai adulti e potevano anche permettersi una canzone per bambini, (tanto a cantarla è il più bambino di tutti), il che evidentemente nulla toglie o aggiunge ad uno delle quattro/cinque opere fondamentali della storia del rock.
Verità nascoste è l’opera che più compiutamente fotografa l’essenza rock-prog delle Orme. L’innesto fondamentale è quello di uno strumento, la chitarra, che, a differenza del precedente album, Smogmagica, non stravolge l’anima melodica del complesso, ma ne affina e completa la natura. Dove l’anno prima, la ruggente presenza di Tolo Marton aveva impresso un’impronta hard-rock al sound delle Orme, in Verità nascoste il nuovo chitarrista, Germano Serafin, che entrerà più stabilmente nella line-up, duetta paritariamente con le imprescindibili tastiere di Pagliuca allargando gli orizzonti musicali della band veneziana. Naturalmente il risultato è assolutamente convincente, probabilmente il lavoro migliore della loro intera discografia.
Insieme al concerto, l’opener del disco, è un esempio esaustivo dell’ equilibrio raggiunto: situazioni armoniche differenti, concatenate in sequenza, in cui chitarra e tastiera s’alternano alla barra di comando in una vera dichiarazione d’intenti. In ottobre riporta parzialmente alla cupezza di certi toni di inizio decennio, penso ad esempio a La porta chiusa, con Tony leader incontrastato e solo brevi ma acute puntualizzazioni solistiche di Serafin. In un ambito così rigoglioso di suoni, c’è spazio per l’oasi quieta della title track. Verità nascoste, è puro frammento di poesia, sostenuta dalla sola acustica ed ingentilita nella seconda parte dal flauto traverso ed un quartetto d’ archi, mentre le parole suonano vagamente nostalgiche per la purezza d’ un passato che non tornerà. Brano da parificare alle più elevate espressioni madrigali d’oltre manica. Un avvolgente riff in minore riporta tensioni palpabili nella successiva Vedi Amsterdam, pezzo con cui torna a fare capolino la denuncia sociale cui l’ex trio di Marghera non ha mai del tutto rinunciato, allontanando del tutto l’opera dalle atmosfere bucolico-pastorali, classiche del genere.
E il singolo prescelto per il lancio non si discosta dal trend generale: Regina al troubador non presenta la minima concessione alla commercialità (E nemmeno all’orecchiabilità, motivo per il quale era probabilmente stato escluso dall’album il singolo precedente, Canzone d’amore, prima traccia della band caratterizzata dalla presenza di Serafin), un testo oscuro quanto basta su un altro soggetto “difficile” e il tono basso di Pagliuca nel bridge, che se non è una primizia poco ci manca.
Non manca il tocco di allegra follia di Radiofelicità, confessioni di un radio maniaco che chiude agli altri il suo esclusivo mondo di magico ascolto, gonfio di effetti dissonanti. (Con una frase rivelatrice: “Non devi sforzarti di cercare di capire / se passo i miei giorni ad ascoltare il mondo”, d’attualità sconcertante trentacinque anni dopo). Tastiera ponderosa per la pressante, eccitata, I salmoni, il proclama ideale a sdoganare sogni, utopie, un coraggio celato dietro le mortificazioni di una realtà opprimente. E gli eccellenti stacchi disarmonici di basso e batteria (In questo album Michi dei Rossi raggiunge forse le più alte vette del proprio virtuosismo) rappresentano forse gli sporadici momenti di mesto ritorno alla realtà stessa.
Il grande ritorno da protagonista di Germano Serafin è colto dalla canzone di chiusura dell’ opera, Il gradino più stretto del cielo; un riff struggente ad aprire ed un sostenuto assolo a chiudere. (Quello stesso riff è piaciuto molto anche a Phil Collins, a giudicare dall’ascolto di Misunderstanding, edita quattro anni più tardi, che ne presenta uno di spiccata, curiosa somiglianza).
Verità nascoste rappresenta il momento più elevato dell’ intera produzione delle Orme, in quanto è l’unica occasione in cui interagiscono due fattori fondamentali: equilibrio stilistico e materiale impeccabile. Proprio a livello di tracks la fatica seguente, Storia o leggenda appare leggermente più debole, mentre nel biennio ’ 79-’80 vedranno la luce due celebri opere in cui musica da camera e folk si amalgamano in contaminazioni disorientanti e seducenti. Dopo quel periodo, l’età significativa delle Orme, sfiniti da crisi artistiche, defezioni e litigi, sbiadisce, è proprio il caso di dirlo, progressivamente.
Per la sua rentrèe nel music biz dopo quattro anni d’inattività, sulla quale si è parlato quasi sempre a sproposito, John sceglie una formula inattesa, cioè l’alternare il proprio materiale a quello della mogliettina orientale. E malgrado non sia semplice analizzare con obiettività un prodotto che vede la luce ventidue giorni prima dell’omicidio del suo autore, a parere di chi scrive si tratta d’ un disco brillante di luce propria, indipendentemente dai fatti dell’8 dicembre.
Le canzoni di Lennon sono intimiste ed emozionanti; l’ex-baronetto mostra, forse con un po’ di pudore, il suo lato sentimentale riuscendo, opportunamente, a non scivolare nella melassa. Si comincia con il singolo trainante, (Just like) starting over, un tuffo nelle atmosfere patinate delle dance hall anni ’50, che contiene la dichiarazione d’intenti espressa nel titolo, una bella pietra sopra, ripartire da capo, andarsene lontano. Cleanup time è invece un esercizio mid-tempo nel quale il concetto di rinascita si amplia affrontando il tema della rinuncia all’alcool e alle droghe, con rivelazioni sulla vita coniugale della coppia post-'75: “The queen is in the counting house/Counting out the money/The king is in the kitchen/Making bread and honey”.
Ad appesantire il clima idilliaco provvede il rock cupo di I’m losing you. Lennon affida a un sincopato lamento in minore, liricamente assai valevole, il timore di perdere Yoko, una volta riconquistatala con fatica a metà decennio. Sarà purtroppo lei a perdere lui. E’comunque l’unico momento tetro: il pezzo successivo, Beautiful boy è un’incantevole dedica a Sean, che vanta un middle eight d’alto spessore melodico e alcune frasi che è impossibile ascoltare senza un doloroso sentimento d’afflizione:“life is what happens to you/while you’re busy making other plans”.
Watching the wheels, il punto più notevole dell’intero lavoro è una sognante marcetta dominata dal pianoforte, con la quale John si rivolge al suo pubblico, razionalizzando con leggerezza di spirito la lunga assenza dalle scene. Musicalmente sarebbe stato il punto di partenza perfetto, per il suo futuro artistico. Livello mantenuto alto anche dalla successiva Woman, il brano di maggior successo di Double Fantasy, love song d’intensità maccartiana, colma d’elogi e onori diretti alla metà giapponese, che ha pochi uguali, nel genere, nell'intera produzione di Lennon. Sempre Yoko la destinataria inconfutabile dell'ultima sua traccia, un'allegra cantilena sostenuta dall'armonica a bocca, con invocazioni vagamente iettatorie, visto quanto sarebbe poi successo, ("Your spirit s' watching over me, Dear Yoko"...) e positività a mille.
Le espressioni della succitata Yoko sono pregne d'accenti new wave, il che la porta a cavalcare l'onda, se non addirittura a originarla (le opinioni divergono) di bands come B'52 o la Lovich. Tra di esse, la più accessibile è certamente il rock scattante, deciso di I'm moving on, che funziona quasi come da risposta ai fantasmi di I'm losing you, alla quale segue senza soluzione di continuità.
Kiss kiss kiss, col coitus ininterruptus da sol levante che ne occupa l'intero minuto finale e Give me something, nevrotiche e frastagliate, suonano in effetti più moderne (il che non è quasi mai sinonimo di migliori) rispetto alle proposte del marito. La meglio Ono la troviamo peraltro in Beautiful boys, ove si veste da donna del mistero e cesella una melodia fosca e intrigante, con più d'una frase evidentemente autobiografica ("Don't be afraid to go to hell and back").
I'm your angel è un valzerotto piuttosto abusato che par preso di peso da un musical dimenticato; meglio lo ska rallentato di Everyman has a woman who loves him. Chiude l'album un brano il cui titolo è tutto un programma, la corale, quadrata, Hard times are over, che riporta alla mente il Bowie di Young Americans. In essa, l'autrice dichiara che i tempi duri erano finiti, almeno per un pò. Esattamente per 22 giorni.
Al netto d'ogni emozionalità, un'opera ragguardevole, questa dei coniugi Lennon; per John sarebbe stato un nuovo inizio, il destino ha voluto diversamente. Lo sfruttamento comincerà presto e durerà almeno un trentennio: da John Lennon collection del 1982 a (per ora) Double Fantasy Stripped (!) nel 2010.
Fino a pochi anni prima, sulla copertina dei loro dischi, i Queen imprimevano con orgoglio la scritta: ""And no synthesizers"". E se qualcosa era cambiato dalla pubblicazione di The Game, più di qualcosa stava evidentemente cambiando quando, una bella mattina dell'aprile 1982, i negozi si trovarono inondati dalla nuova fatica dei quattro.
Hot Space fu un colpo per i seguaci del gruppo ma anche per l'ascoltatore neutrale, in quando proprio sul sintetizzatore era largamente impostato. Il nuovo album propone, per tutto il primo lato e più sporadicamente nel secondo, venature funky e ritmi prettamente dance. Con premesse simili il rischio di un tuffo nella palta era straordinariamente alto, in quanto, se il cambiamento stilistico fosse rimasto fine a sé stesso, né critici né pubblico avrebbero avuto pietà della band. Ma la prerogativa di Hot Space è proprio quella, per fortuna, di saper adattare l'elettronica al proprio sound più classico, creando una sorta di «hardn'rhytym» che porta a risultati (quasi sempre) efficaci.
Le espressioni più significative di questo new trendy abitano una di fianco all'altra e rispondono al nome di Dancer (di May) e Back Chat (di Deacon), ed il messaggio è trasparente: se proprio bisogna andare in discoteca, ci si va armati sino ai denti, con l'elettrica distorta a furoreggiare da inizio a fine. Il più attratto dal nuovo giocattolo stilistico pare essere, manco a dirlo, Freddie Mercury. Ma se Staying Power, modulata su toni bassi e smorzati, suona piacevole ed elegante, Body Language, che oltretutto i quattro ebbero la brutta idea di pubblicare come lead single, è roba davvero difficilmente digeribile, ricolma di gemiti e urletti ed adornata di un testo vuoto e insulso, quello si, ingrediente abituale delle dance halls di tutto il mondo. L' ingegnosa linea di basso che sostiene (è proprio il caso di dirlo) il brano non basta a risollevarne le sorti. E' anche vero che trattasi dell'unico, vero errore di Hot space, commesso probabilmente per il gusto dell' eccesso, che s'addiceva particolarmente al leader. Le canzoni di Roger Taylor sono accomunate da una ritmica incalzante e messaggi ottimisti: se Action This Day; con la chitarra all'unisono con il levare, è un deterrente alla staticità di una soffocante esistenza metropolitana, Calling All Girls è l'allegro, sbarazzino richiamo a Play The Game» (of love, naturalmente) e diventa il primo pezzo del batterista a vincersi il lato A di un singolo.
Come accennato, il secondo lato dell'album rientra nei canoni più tradizionalmente Queen, e gli spasimi ""discorock"" assumono un profilo più dimesso. A dimostrazione, ecco la seconda prova di Brian May, forse il meno toccato dall'innovazione, che sprigiona la sua classica potenza heavy nella mordace Put Out The Fire. C'è tempo, a questo punto di Hot space, per un paio di momenti lirici davvero coinvolgenti: Life Is Real è la quintessenza del Mercury riflessivo, che omaggia John Lennon con una delle sue melodie più tenere ed emozionanti (e per non lasciare dubbi circa il destinatario della dedica, apre il pezzo con gli stessi tre tocchi di triangolo che iniziavano Starting over, l'ultima canzone incisa da John). Sbigottimento, angoscia, bisogno di certezze: tocca a Las palabras de amor, il Brian più intimo, riportare aspettative, speranza, con un brano acceso di coralità fiduciose (E il ritornello in spagnolo, per ruffianare il mercato sudamericano). La succitata Calling All Girls e Cool cat, un'inusuale collaborazione Mercury-Deacon lento funky che dà libero sfogo ai falsetti selvaggi del signor Bulsara, preparano il campo all'ultima traccia del lavoro, che merita tutta l'attenzione. Under Pressure, prima (ed ultima) collaborazione con David Bowie, è un'efficace pennellata glam-rock contro le nevrosi e le insanie della vita odierna, a discapito di rapporti sinceri e duraturi; messaggio in linea con il positive thinking dell'intero album che frutterà ai quattro (cinque per una volta) il secondo singolo più venduto in assoluto dopo Another One Bites The Dust. E chiude in crescendo questo disco coraggioso ed innovativo, talvolta esagerato, bistrattato (non poteva essere altrimenti) all'epoca e rivalutato negli anni, che influenzerà in misura variabile la restante produzione Queen del decennio in corso.
Il dato più significativo rapportabile a quest'undicesima prova da solista di Harrison, che vede la luce cinque anni dopo il leggero Gone Troppo, è che, come risulta chiaro fin dal titolo, George fa finalmente pace con sé stesso e il suo passato. E crea musica definitivamente scevra da solenni attestazioni filosofico-religiose, che farcivano, non sempre in modo del tutto opportuno, i solchi dei suoi dischi della prima metà degli anni settanta, ma anche da livorosi riferimenti alla golden age di vent'anni prima.
Le intenzioni sono chiare sin dal blues d'apertura, la claptoniana Cloud 9, sodo e coprente omaggio a Lennon, di cui prende in prestito una delle espressioni preferite, che diverrà uno dei caposaldi della tourneé giapponese di qualche stagione più avanti. L'amore, dunque, la gioia; ecco le muse ispiratrici di Cloud 9. Grazie anche all' aiuto di Jeff Lynne (Electric Light Orchestra), amico e coautore dei due brani, il nostro fornisce esempi davvero belli in This Is Love and When We Was Fab, specialmente nella seconda, un affettuoso tributo alla beatle-era che riesce a non cadere mai nel patetico. Tra i fumi di un primitivo sogno psichedelico, un pizzico di flower-power e l'inconfondibile tocco di Mr. Starkey alla batteria, il muro tra il signor Harrison e il cucciolo George viene definitivamente sbriciolato. La disperazione è un qualcosa d'intangibile, che non abita (più) qui. Ulteriore dimostrazione la presenza a fine album della vecchia hit di Rudi Clark, Got My Mind Set On You, un twist seducente che risale ai tempi di Amburgo, che completa il restauro d'immagine del ragazzo (e gli restituisce una hit mondiale sei anni dopo All Those Years Ago. N.1 in America e Canada e 2 in patria). Ma anche Fish On The Sand, Wreck Of The Hesperus e sopratutto il rock possente di That's What It Takes sono fresche e coinvolgenti.
Momenti di riflessione, in ogni caso, non ne mancano. Il lirismo di Just For Today è manifesto di una nuova, saggia semplicità . E Someplace Else, in versione riveduta e corretta (e migliorata) rispetto alla soundtrack di Shangai Surprise, si candida ad essere una delle espressioni melodiche più riuscite del suo intero catalogo solista. Palma del brano migliore alla straordinaria Devil's Radio, fremente rock da strada che si risolve in un attacco frontale al gossip e al male derivante da certe disinvolte insinuazioni, con più di un riferimento a un certo insistito eclissarsi di Harrison dalle luci dello star system («You wonder why I don't hang »˜round much, I wonder how you can't see..»), risalente ad esempio agli anni delle sue controversie giudiziarie della metà del decennio precedente. Un pezzo che non avrebbe mal figurato in nessun' opera del George migliore (1968- 1971), sia coi tre soci che in autonomia.
L'eterea, soffice Breath Away From Heaven completa un quadro idilliaco, nel punto in cui inopinatamente è l'intera carriera solistica dell'ex beatle a chiudersi. Negli anni novanta per lui ci sarà ampio spazio per collaborazioni di successo (L'avventura dei Traveling Wilburys e la riunione con Paul e Ringo per Anthology), ma a livello solistico non riuscirà a portare a termine il lavoro per Brainwashed, i cui ritocchi saranno a cura dei suoi collaboratori e del figlio Dhani Anche alla luce di quest'ultimo lavoro, che uscirà postumo nel novembre del 2002, Cloud 9 resta comunque il miglio disco di George dai tempi di All Things Must Pass. Con la sostanziale differenza che in quell'occasione il capolavoro scaturiva dall'amarezza, dalla disillusione, dal fatalismo. Qui siamo invece di fronte a toni rinfrancati, positivi, divertiti addirittura, e il materiale resta costantemente pressoché privo di sbavature. Una prova che svela una maturità ormai metabolizzata, senza più risentimenti, giustamente premiata da critica e pubblico.
La pubblicazione di questo quarto disco del cantautore rietino ebbe un merito storico indiscutibile. Quello di chiarire al italian music business che non impersonava una macchina sforna 45 giri di successo, magari per vincere Sanremo o il disco per l'estate, bensì un musicista in piena regola, autore delle musiche, eccellente chitarrista, audace arrangiatore ed estroso cantante. E' quanto emerge in modo assolutamente inequivocabile dall'ascolto di Amore non amore, tanto che la casa discografica ne rimanderà per mesi la pubblicazione nel ridicolo timore di rovinarsi la gallina delle uova d'oro.
Manifesto e brano guida di questo lavoro è il pezzo d'apertura, i sette minuti e mezzo di Dio mio no, dominati dalla chitarra ritmica di Battisti ed arricchiti da svariate parti di solista e di organo, il tutto a giocare su un riff basato su un unico accordo di settima, non esattamente il giro di do che dominava le hit nelle estati del boom economico. E il tema innovativo del testo di Mogol, il ribaltamento dei ruoli tra il macho cacciatore e la povera preda indifesa, (che verrà parzialmente reintrodotto nella successiva Il leone e la gallina), con urla e schiamazzi vari di univoca interpretazione portಠall'inevitabile e ipocrita messa al bando da parte della Rai, sdoganando Battisti da una falsante immagine acqua e sapone che i precedenti singoli della sua discografica avevano suo malgrado modellato. Ritmo e vivacità sono caratteristiche preminenti anche per le altre canzoni «cantate» del disco. Se la mia pelle vuoi è uno scatenato rock'n'roll alla Little Richard, agitato, trascinante, l'urlo di dolore per un uomo costretto in casa da una lei pigra, pantofolaia o!altro. Per contro c'è Una, dove il protagonista s'interroga sbigottito sulla sua misteriosa passione nei confronti di una ragazza totalmente priva di attrattive. Nel far questo Battisti e suoi sciorinano in tre atrofizzanti minuti e mezzo l' abc del blues, con il basso stavolta a dirigere i giochi e davvero nulla da invidiare agli storici maestri d'oltreoceano.
E come in una fremente session dal vivo, Battisti incita durante le canzoni i propri strumentisti agli assoli (e mica chissà chi, Baldan, Mussida, Radius e Premoli, solo per citarne alcuni). Sono tracce fresche ed eccitanti, sarcastiche e dissacranti. Lucio nostro si concede un solo momento tutto per sé, nel folk appena mosso di Supermarket, con sé stesso, o meglio il suo piede, a conferire ritmo come Mc Cartney in Blackbird. Sound scarno, approssimativo, appena accennato, insomma non è necessario far sempre casino per far arte. Ha qui termine la parte di Amore.
Vi sono infatti altri quattro pezzi, tutti strumentali, il cui testo è costituito dal solo titolo, peraltro chilometrico e chiarificatore (ad opera sempre di Mogol).
La solitudine è la protagonista di «7 agosto di pomeriggio. Fra le lamiere roventi di un cimitero di automobili solo io, silenzioso eppure straordinariamente vivo», espressione di gentile psichedelia con eteree dissonanze ad accompagnare la figura del «solitario» in balia del senso di abbandono di un'arida, desertica estate, con poderose parti di piano e chitarra e un lieve tocco di archi sul finale. In ""Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore, 35 morti ai confini di Israele e Giordania"", il gioco si basa su un singolo riff, prima riprodotto dalla sola chitarra e poi via via da tutti gli altri strumenti. Viene ipnoticamente reiterato per sei minuti di brano, così come sotto ipnosi sembra lo spettatore, che impassibile gusta il liquore davanti alle immagini del massacro alla frontiera dei due Stati.
Per non farci mancar nulla, ecco inquinamento e maltrattamento dell'ambiente, scelleratezze umane «celebrate» dagli arpeggi chitarristici di «Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma dei detersivi», con una deliziosa digressione «free-jazz» nella seconda parte. Ma il più coinvolgente tra questi brani non interpretati è perಠil breve spettro di luce di «Davanti a un distributore automatico di fiori dell'aeroporto di Bruxelles anch'io chiuso in una bolla di vetro», dove un pianoforte barocco, alimentato poi da archi e organo, rilascia un alone di nostalgico rammarico di fronte alla drammatica incomunicabilità tra gli umani, ognuno dei quali è recintato nella propria bolla di vetro. Melodia di una bellezza struggente. Con ognuno di questi quattro pezzi di musica, le didascalie di Mogol si sposano superbamente, creando un perfetto quadro di «non amore», a controbilanciare la leggera esuberanza delle tracce cantate.
Questo disco resta un incantevole esempio della genialità e versatilità stilistica di Battisti, che con perfetta scelta di tempo s'inserisce, (anzi contribuisce ad inaugurare) nella golden season del progressive italiano. In quest'ambito, tre anni dopo concepirà e pubblicherà il suo capolavoro, il commercialmente inascoltabile ""Anima Latina"".
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