Teoricamente, non esiste una ragione al mondo per cui dovreste spendere non so quanto per portarvi a casa 28 (!) minuti di insulse canzoncine d’amore, perché quelle sono. Praticamente però, perdereste la possibilità di impadronirvi di un album fantastico. Un’opera che riesce a fondere Beatles, Beach Boys e Green Day ed a trarne un prodotto fresco, eccitante, imperdibile. Questa è una delle rare occasioni in cui disimpegno e qualità vanno a braccetto per ogni solco del vinile che si usava una volta. Le musiche sono tremendamente accattivanti, ascoltate Don’t Let Go o Simple Pages ed impegnatevi allo spasimo per farvele uscire di testa: non sarà facile. L’atmosfera sixties, ossia fintamente innocente e languida, è rappresentata in modo costantemente efficace, sia che balliate cheek to cheek sulle spiagge californiane di Island In The Sun o vi commuoviate di fronte al protagonista un po’ naif di Smile. Dove la distorsione punk prende il sopravvento, ossia nella scabrosissima Hash Pipe, della quale vi invito a non tradurre il testo, coraggiosamente presentata come primo singolo dopo quattro anni d’assenza, o nella rude ed altrettanto spinta “Crab”, non è altro che un tocco di Ramones che condisce il disco della giusta arroganza, d’altronde da sempre l’eroe cattivo è più affascinante del buono. Vi consiglierei anche un’adeguata collocazione temporale per l’ascolto: e’ un disco da suonare al mattino presto ad altissimo volume, per sfondar via la notte ed i suoi noiosi silenti interrogativi sui massimi sistemi, è un disco terapeutico. Ti fanno incazzare al lavoro? Metti su Photograph, magari cercando di intonare i coretti di sottofondo, e in due minuti sei a posto, altro che pausa caffè. L’ inventiva del songwriting di Cuomo, autore unico dell’album, lo porta a sciorinare una gamma completa di armonie, giri, vocalità, variazioni in pieno flower-power senza scadere mai in tensioni o negatività.
Inopinatamente, in una terra dominata dall’ hip/trip-hop, techno ed altre non-musiche, un disco del genere diventa un successo clamoroso, portando per la prima volta gli Weezer nella top 10-album di Billboard ed esponendo i tre singoli (dopo Hash Pipe sarà la volta di Island In The Sun e Photograph) ad un insistito e costante airplay su entrambi i lati dell’altlantico. Naturalmente la produzione di Ric Ocasek, che non a caso ha guidato per anni lo sfrontato rockabilly dei Cars, ha un peso non indifferente sulla riuscita dell’album, ma i meriti della band sono innegabili, principalmente quello di non essersi abbattuti dopo le (iniziali) reazioni negative all’incompreso Pinkerton. Sono tornati con un disco di rock puro ed essenziale, senza fronzoli; un’unica, potente suite che vi incollerà allo stereo o all’MP3 o come diavolo si dice adesso. Si tratta di una mezz’oretta appena, ma state certi che si tratta di una delle mezz’ore più gioiose che possiate trascorrere. Indispensabile infatti il rimarcare come l’ineffabile sense of humor dei nostri tenga lontano i pezzi da qualsiasi rischio di esposizione alla melassa; tra le righe si coglie sempre qualche irreverente tocco di goliardia. E una volta che avrete finito di solidarizzare con Rivers e soci per le improbabili pene d’amore di Oh Girlfriend, resistete alla tentazione di ripartire da capo. La magia si coglie una volta sola, la riscoprirete più tardi.