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Venerdì, 13 Aprile 2012 07:33

Storia di musica n. 12 - Jaco Pastorius

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Jaco Pastorius - Storie di Musica

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Il viso scarno, con l’ardore degli occhi e le labbra enormi, aveva una sua contrastata bellezza: con un’idea di carnalità, che stregava le donne, e un che di ascetico, che intrigava tutti. Rammentava, dissero, quello di Akenhaton, il faraone eretico e poeta. Del resto eretico, Jaco Pastorius, lo fu la sua parte: per come d’uno strumento gregario, il basso, fece un protagonista assoluto; per come smantellò le convenzioni del jazz con iniezioni di punk, psichedelia, Bach, funk, rhythm and blues; per come dalle quattro corde del suo strumento trasse di tutto: il sospiro d’un violoncello, i pigolii d’un violino, la levità d’una chitarra, i singulti d’un sax. E come spesso è capitato agli eretici, non morì di vecchiaia, né nel suo letto.

John Francis Pastorius nacque nel ’51 a Norristown, in Pennsylvania. Il padre, batterista jazz, gli insegnò ad usare bacchette e rullante, il suo sogno, in realtà, era diventare campione di baseball ma una pallonata, a 13 anni, lo sventò per sempre, fratturandogli un polso. Non restava che la musica e Jaco, da autodidatta, imparò a suonare il basso elettrico, la chitarra, il pianoforte, il sassofono. Due anni dopo i suoi si lasciarono: assistere impotente alla fine della sua famiglia aprì una ferita che non si sarebbe mai chiusa e due matrimoni falliti, divenuto adulto, l’avrebbero resa più dolente.

Per anni lo aiutò ad occultarla quel suo orgoglio di perdente che non voleva perdere, imparato sui campi di foot-ball e di baseball . Seguì il padre a Fort Laudendale, in Florida, a Miami imparò i ritmi ipnotici dei Caraibi, quei suoni gonfi di sole. Suonò in vari gruppi, col suo basso cui aveva tolto i tasti, spalmandolo di vernice impermeabile per barche: donde quel suono unico, carnoso, adatto ai fiati lunghi della melodia più che alla secchezza del ritmo. Transitò  nei Bakers Kozen, con Paul Metheny, e nei C.C. Riders, il cui leader gli disse: «Sei un meraviglioso, fottuto bassista, hai anima, suoni da ingordo, per notti intere». Poi conobbe Joe Zawinul, lo Zawa-head - capo - dei Weather Report. Gli si presentò col suo vestito stazzonato e i capelli aggrovigliati come serpi, disse: «Sono John Francis Pastorius III, il più grande bassista del mondo». E Zawinul: «Porta il tuo culo fuori di qui». «Ma ho preparato un nastro, almeno lo ascolti». Zawinul ascoltò: «C’è un sacco di strumenti, perché non hai usato anche il basso?». «Ho usato solo quello».

Nacque un’amicizia, e più avanti Jaco entrò nei Weather Report. Per loro scrisse Teen town, su un club di Fort Laudendale dove, da ragazzo, suonava per i coetanei. Le  sue esibizioni sul palco - «fiammeggianti», le definirono i critici - dilatarono la popolarità della band. Zawinul racconta: «Mi ricordava quand’ero un ragazzaccio invadente, mi presentai a Cannonball Adderley e gli dissi: “Sono il più cattivo“. Jaco aveva addosso una specie di magia, la stessa di Jimi Hendrix».

Quattro anni, e intanto la vecchia ferita continuava a dolere. Inasprita dalla fine del matrimonio con Ingrid, che gli aveva dato due gemelli, Julius e Felix. «Quando doveva suonare in città - racconta l’ex moglie - lo capivi dall’attesa eccitata che si spandeva nell’aria: che so, un’energia misteriosa, una specie di ronzio. Bastava informarsi su quando avrebbe suonato, e dove». Si conobbero, vissero insieme, «lui amava falciare l’erba del prato, riparare l’impianto elettrico, ridipingere le pareti. Con i figli era perfetto, li faceva sentire speciali, gli insegnava i suoi giochi di prestigio imparati in tournée con Joni Mitchell. Ricordo i campeggi, le gite in barca, le serate sulla spiaggia. E quando si esercitava a suonare: ore e ore, ogni volta rappresentando lo spettacolo della sua vita». Così nacquero Mr GoneHeavy weather, Punk jazzRiver people, Three views of a secret, ogni titolo un destino.

Ma la fine della sua famiglia d’origine gli aveva inoculato, a quest’uomo assetato di famiglia, i germi del nomadismo. Nel momento in cui vide in Zawinul la controfigura d’un padre, lo prese una voglia selvaggia d’andarsene. Disse a Zawinul: «Voglio guardare il mondo attraverso i miei occhi». E fondò i Word of Mouth. Ma la vecchia ferita, dal subconscio, non s’acqueta, anzi preme per salire alla luce. Il primo album solista di Jaco s’apre con un titolo premonitore, Chrisis: una corsa a rompicollo verso il baratro, tutti gli strumenti sobillati dal galoppante basso continuo di Jaco. E poi la melanconia raggelata di Views of a secret, a contrasto col solare miraggio di Liberty City. E la "Fantasia cromatica" di Bach reinventata come un poema spettrale, il beatlesiano Blackbird col basso elettrico che canta come un contrabbasso, l’arredo urbano di Word of mouth, John and Marie elegia metafisica, oltre la vita. Fin troppo ispirato, per i tempi che corrono: figuratevi Chagall a fare il designer in una fabbrica di computer. «Pastorius era buono, gentile - dice un amico -, portava il cuore sulla camicia: inerme, insomma. Specie nei confronti dell’industria musicale, che lo avrebbe masticato e poi sputato via». Il disco è comunque un successo, la fama di Pastorius sfiora le stelle. Lo chiamano «il Duke Ellington della nuova generazione», «il futuro Miles Davis». Joni Mitchell, che lo ha al suo fianco in Hejira, vede in lui «la faccia dell’uomo sulla luna», la vertigine dei suoi assolo lo mostra egualmente connesso - dirà Metheny - col cielo e la terra.

Ma naufragò anche una nuova unione, quella con Tracy. E l’antica ferita ne trasse pretesto per salire alla luce, suppurò. Un medico la definì «depressione maniacale bipolare», male oscuro per il quale, allora, non c’erano cure. Jaco ne inventa una: alcol e cocaina. Il resto è notti su notti senza dormire, i morsi della paranoia, l’autodistruzione inseguita con cocciuto puntiglio. Senza la vicinanza paterna di Zawinul il male monta, «l’uomo sulla luna» diventa un oltraggioso attaccabrighe, le sue stramberie fanno titolo. Un tour giapponese, nell’82, fu un interminabile incubo. Lo arrestarono che girava nudo, su una moto, per le vie di Tokyo, sul palco pareva voler sabotare la sua band: se era sobrio ritrovava, d’incanto, la vecchia magia, se era ubriaco arrivava in scena con la faccia impiastricciata coi pennarelli, si lanciava in corse folli, troncava un assolo e usciva, poi rientrava e suonava sequenze insensate, insultava la platea, faceva a cazzotti con i suoi musicisti.

Nell’83, a Rimini, precipita dal balcone d’un hotel: sei metri di volo, un polso e tre costole rotte. A un festival provoca un tumulto e lo trascinano giù dal palco, rimpatriato passa sei settimane al reparto psichiatrico del Bellevue Hospital: forte depressione con atteggiamenti paranoidi, dice la prognosi. Dimesso, gira scalzo per le vie di New York, insultando i passanti. E continua a «curarsi» con bourbon e droghe. Finché di nitido, nella sua mente, resta solo la voglia di distruggersi. Dice Othello Molineaux, musicista della sua band: «Aiutarlo non fu possibile: era un guscio vuoto, lo spirito se n’era andato. L’anima che lo aveva protetto per anni, nei momenti di desolazione e nelle notti insonni, non c’era più: lasciò che lo abbandonasse».

Tornò a Fort Lauderdale ridotto a uno spiritato fantasma. L’eretico sconfitto aveva decretato da solo il proprio autodafé. Una sera del settembre ’87 saltò sul palco dove suonava Carlos Santana, interruppe il concerto con lazzi e grida, fu malmenato e cacciato. Vagò fino alle quattro di notte per le vie suburbane, si fermò davanti a un club malfamato, forse cercava droga, forse una donna. Ma l’ingresso era riservato ai soci: il portiere chiamò il buttafuori, il buttafuori chiamò il proprietario. Costui, un omaccione, atterrò l’intruso a colpi di karate: la polizia trovò Jaco bocconi sul marciapiede, il cranio sfondato. Ricoverato, impiegò nove giorni a passare dal buio relativo del coma a quello assoluto della morte. Aveva trentacinque anni.

Letto 3132 volte Ultima modifica il Giovedì, 03 Gennaio 2013 13:30
Cesare G. Romana

Cesare G. Romana Genovese doc, amico intimo di Fabrizio De André e suo compagno di strada, è il decano dei giornalisti musicali italiani. Critico de “Il Giornale”, è autore di un fortunato libro su Gino Paoli, e, per Arcana, di Quanta strada nei miei sandali. In viaggio con Paolo Conte e Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con De André.

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