Cesare G. Romana Genovese doc, amico intimo di Fabrizio De André e suo compagno di strada, è il decano dei giornalisti musicali italiani. Critico de “Il Giornale”, è autore di un fortunato libro su Gino Paoli, e, per Arcana, di Quanta strada nei miei sandali. In viaggio con Paolo Conte e Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con De André.
Ciao Cesare, vogliamo ricordarti cosìLui si diceva, autocritico fino all’assillo, “compositore di un-pa un-pa, afflitto da balbuzie melodica”. Ché non seppe mai, Fabrizio De André, di essere il gran musicista che illustri sodali, da Piovani a De Gregori, da Pagani a Milesi, onoravano in lui. «Oggi ecco la prova – dice Dori Ghezzi – che non era soltanto un poeta maiuscolo, se dalle sue musiche scaturisce un disco come questo». E indica Sogno n° 1, preziosa raccolta di canzoni di De André, dove è la gloriosa London Symphony Orchestra ad accompagnarne la voce, e sono gli arrangiamenti d’un grande Geoff Westley, registrati negli studi beatlesiani di Abbey Road, a tramutarne le melodie in affreschi sinfonici.
Si parte con Preghiera in gennaio, era un uggioso gennaio del ’67 quando a Ricaldone d’Acqui seguimmo la bara di Luigi Tenco, e Fabrizio quel brano l’aveva appena scritto. Oggi smaltito il dolore e illanguidito il ricordo il brano appare come svincolato dall’asprezza della cronaca, dunque nuovo: un inno solidale, il canto dei suicidi «che all’odio e all’ignoranza/ preferirono la morte» e che rialimenta la voce magica di De André, adagiata su un dolce intrico d’archi e fiati a sostituire l’organo onirico di Gian Piero Reverberi. Cui quarantaquattro anni dopo Westley avvicenda, appunto, reverberi metafisici, controcanti soavi, impennate cocenti, un viaggiare oltre la storia nei retroterra dello spirito.
Poi «luce luce lontana/ che si accende e si spegne/ quale sarà la mano/ che illumina le stelle»: ed ecco il ritmo elastico di Ho visto Nina volare, non c’è batteria, provvedono violoncelli e contrabbassi a scandire la melodia ampia, scritta con Ivano Fossati coautore ispiratissimo. E appare perfino brusco il passaggio da qui alle trasparenze impressioniste di Hotel Supramonte, riletta parrebbe da un Ravel prigioniero sui monti barbaricini intanto che la voce scava nel tumulto dell’anima e vi innesta il nerbo della ragione. E così sia in un caleidoscopio di colori e umori, di più, in una serrata dialettica di emozioni e lucidità: quell’implacabile lucidità di Fabrizio che – diceva Fossati – «fa quasi paura». E’ come se Geoff Westley riarrangiandolo smascherasse l’emozione sottesa di un brano tra i più lancinanti di De André, quell’emozione che lui sopra tutto temeva, senza riuscire a nasconderla.
Ecco perché questo Sogno n° 1 è un album all’apparenza discosto dallo stile, direi dal metodo di Fabrizio, di fatto contiguo alla sua vocazione più profonda, sebbene segreta. E dunque, in fondo, gli sarebbe piaciuto: perché, pur dissociandosene per antico vezzo, vi si sarebbe riletto. Ad onta di certe magniloquenze, di certi calligrafismi insistiti, forse impliciti alla forma sinfonica e, chissà, inevitabili. Ma è il dazio imposto alla passione con cui Westley si è speso in questa fatica commovente. Variamente apprezzabile, diciamolo, e tuttavia intrigante: come nella sbarazzina vivezza con cui viene riletto il Valzer per un amore, brano in sé non memorabile cui nulla aggiunge il canto non intonatissimo di Vinicio Capossela, e molto la nuova orchestrazione. O in Anime salve, rifatta col concorso introspettivo, assorto, lirico di Franco Battiato, sicché questa canzone che esalta la solitudine si tramuta in duetto, fruttuosa incongruenza.
Ma il vertice massimo eccolo in Laudate hominem, il coro conclusivo di La buona novella. Di cui Westley, la London Symphony e il coro diretto da Antonio Greco ricreano gli echi stravinskiani inventati nel ’70 da Reverberi, la fermezza ribollente delle voci e degli ottoni, la declinazione umanistica fatta musica. Aspetto importante, quest’ultimo: che nel rivestire a nuovo le melodie di De André Geoff Westley è arrivato anche al cuore dei testi, ne ha stanato la poesia acre e l’intrinseco umanesimo, e dunque la complicità col canto di Fabrizio, qui mai prevalente sull’orchestra e mai succube di essa, è stata totale.
Lui si diceva, autocritico fino all’assillo, “compositore di un-pa un-pa, afflitto da balbuzie melodica”. Ché non seppe mai, Fabrizio De André, di essere il gran musicista che illustri sodali, da Piovani a De Gregori, da Pagani a Milesi, onoravano in lui. «Oggi ecco la prova – dice Dori Ghezzi – che non era soltanto un poeta maiuscolo, se dalle sue musiche scaturisce un disco come questo». E indica Sogno n° 1, preziosa raccolta di canzoni di De André, dove è la gloriosa London Symphony Orchestra ad accompagnarne la voce, e sono gli arrangiamenti d’un grande Geoff Westley, registrati negli studi beatlesiani di Abbey Road, a tramutarne le melodie in affreschi sinfonici.
Quando il trepestio dei piedi, sulle predelle dei banchi, segnalò l'impazienza della scolaresca, il maestrino smise di declamare e ripose nel cassetto Lo Hobbitt di Tolkien. Poi da sotto la cattedra trasse il basso e collegò il cavo con la presa, erano tempi artigianali. «Proviamo Singin' in the rain», ordinò, e da sotto ogni banco scaturì uno strumento: un umile ottavino e la cavernosa maestà d'una tuba, silhouette serpentine di sax, la snellezza retrattile d'un trombone, un flicorno petulante e due chitarre dall'accordatura precaria. Sulla quarta B le finestre irradiavano un lucore invernale e sorella Ruth, la preside, reputò inutile affacciarsi per dire, col suo tono burbero: «Non discuto i suoi metodi, professor Sumner, ma riduca il rumore: disturba le altre classi». L'episodio tornò alla mente di Sting dodici anni dopo, era l'87 e su Rio de Janeiro pioveva un acquoso dicembre. L'auto portò lui e Trudie nel cuore della foresta, la facciata gotica emerse tra il verde e parve annunciare una chiesa cristiana, più che un tempio sincretista: era, in realtà, entrambe le cose. Entrarono. Lo striscione, sopra l'altare, prometteva luz, paz, amor, i fedeli vestivano tuniche verdi trapunte di stelle, un prete intonò una nenia. Nei boccali il liquido - melmoso, marrone - aveva un ingrato sentore di petrolio: bevvero, e il sapore era ributtante quanto l'odore.
Forse non sarebbe mai diventato un musicista, senza quella faccia da cavallo sbilenco, gli occhi a capocchia di spillo e per contro un naso enorme, da Cyrano rock. E quella timidezza da donchisciotte stranito: tutto l'opposto d'un seduttore di folle, senonché fu proprio la bruttezza da dipinto di Bosch, e gli scherni di cui essa nutrì la sua infanzia a tramutare in rockstar Pete Townshend da Chiswick, Londra, classe '45.
Più che la vocazione o il Dna - nonno pianista, padre sassofonista, madre cantante - poté la rabbia, che un giorno sconvolse l'affabile normalità di Pete e gli fece urlare ai compagni di scuola: "Ridete, ridete: un giorno questo naso uscirà su tutti i giornali del mondo".
Così cominciò a industriarsi con una chitarra, poi con un banjo, una fisarmonica, un pianoforte, una batteria. A quindici anni era un'orchestra vivente, senza che questo bastasse a far presagire per lui un futuro da divo. Un po' per quella pigrizia attonita, da sognatore, un poi' per l'indole introflessa, da filosofo.
Che per appartarsi dal mondo, a otto anni, costruì su un terreno deserto un capanno di lamiera, per trascorrervi ore intrecciando in silenti viluppi sogni adolescenti, progetti vagabondi, nebbiose riflessioni sui destini del cosmo. E profili aurorali di donne: ben altro dalle accuse di pedofilia che lo avrebbero tormentato da adulto.
L'umidità trapunse il soffitto di stelle di ruggine, e quello fu per mille pomeriggi il suo firmamento: sdraiato sul terriccio scrutava quel fantasma di cielo, poi imbracciava la chitarra e ne strappava piccole nenie, risacche di accordi, bisticci di ritmo a sostegno d'una voce inevitabilmente nasale.
Per un’ora e mezza Brian Wilson lavorò di badile, tra convulsi di tosse, il sudore che stillava tra le rughe, il sole di California che bruciava dalle vetrate. Alla fine il pavimento era scomparso, annullato da un tappeto di sabbia, fina come cenere. Solo allora Brian aprì il pianoforte, sedette sullo sgabello, immerse i piedi scalzi in quell’improvvisato arenile e cominciò a suonare. «Niente mi ispira come la sabbia», aveva confidato al suo analista il più geniale e il più matto dei Beach Boys.
Erano gli anni Settanta e Wilson non era più il ragazzone un po’ obeso, il sorriso marchiato sul volto, i jeans bianchi e la maglietta a righe che aveva stregato il mondo dieci anni prima, con un motivetto, "Surfin’", tutto estate, coretti e flessuose chitarre. Ora Brian era uno scarno signore con molti più anni sul viso che sul passaporto, lo sguardo perpetuamente in allarme, la faccia tutta un solco. Troppi i pesi da reggere: l’infanzia con un padre frustrato e manesco, l’insostenibilità del successo, un’immagine pubblica spensierata e posticcia, che faceva a pugni coi lati oscuri del suo carattere. Poi le droghe, le paranoie, gli incontri sbagliati «nei quali mi rifugio come in una conchiglia», ad alimentare quel male di vivere che, nei momenti di chiarezza, lui sintetizzava così: «Non è che ho paura di qualcuno: ho paura di tutti». Anche dei «suoi» Beach Boys? «Eccome: invidiosi, figli di puttana, quando li vedo li picchierei. Ma sono più forti di me, mi farebbero a pezzi».
Chi meglio di Bob Marley detto Mas Nesta, vate del riscatto dei neri, poteva celebrare l'indipendenza dello Zimbabwe, quel 18 aprile dell'80, con la danza dei suoi ritmi e la sua voce di salmista. Lo stadio di Salisbury era ricolmo, Marley s'inchinò al principe Carlo e al primo ministro Mugabe, e salì sul suo podio con una falcata da giaguaro. Ma come intonò «non voglio che la mia gente/ sia ingannata da mercenari/ sicché gli africani liberino lo Zimbabwe», la festa dell'acquistata libertà trovò in sé la propria antitesi: i poliziotti caricarono la folla, il fumo dei lacrimogeni inondò il Rufaro Stadium e a Mas Nesta toccò cantare con gli occhi gonfi il suo salmo gandhiano, «in ogni petto batte un cuore/ questa è la vera rivoluzione».
La paura è un serpente lungo e diaccio, s'insinua tra i nervi e divora il cuore. Thom Yorke ci convive fin da bambino, quando ancora non sapeva che, un giorno, avrebbe fondato i Radiohead per sottrarsi al morso della solitudine, e dell'afasia. Aveva sette anni, Thomas Edward Yorke, quando i suoi si trasferirono ad Oxford e gli incubi cominciarono a visitare i suoi sonni. Sovvertendo un'infanzia altrimenti tranquilla: famiglia di benestanti, comuni affetti. Solo disagio la scuola, «un purgatorio che riassume tutto il peggio della borghesia inglese, snobismo, intolleranza, idiozia reazionaria». Ovvero: «Vestito da vescovo mi terrorizzi ancora/preside bastardo/bambini addestrati ad uccidere/a sbranarsi sui campi da gioco/vestiti da vescovi». Anche l'amore svela, a Thom adolescente, il suo volto più cupo: «Vidi Romeo e Giulietta, di Zeffirelli, m'innamorai di Olivia Hussey e non mi spiegavo perché, anziché uccidersi, i due non fossero fuggiti insieme. Poi m'invaghii d'una coetanea, fu una liaison tempestosa, ricordava Liz Taylor e Richard Burton in Chi ha paura di Virginia Wolf?». Così anche l'amore divenne paura. Di giorno Yorke leggeva Orwell e Noam Chomsky, esplorava Bacon il filosofo e le livide epifanie di Bacon il pittore. La notte sognava: di svegliarsi e divorare limoni la cui asprezza gli feriva le viscere, o di generare figli per farne a pezzi i corpicini neonati. L'insonnia fu il suo rifugio, nelle notti sbiancate dal terrore d'incappare in quei sogni. A causa del sonno negato un'emiparesi gli tramutò la palpebra sinistra, avrebbe detto Sherwood Anderson, in «una persiana rotta», interventi ripetuti lo martoriarono senza guarirlo. Subentrarono l'ipocondria, il bisogno d'isolamento, la paura di poteri torvi «che s'insinuano in te e ti abitano dentro, come in 1984». In un tema scolastico allarmò i professori parlando d'alieni «che vivono sottoterra, hanno enormi cervelli e occhi neri che ci filmano, come videocamere».
Fece il dee jay, il commesso in un negozio di musica - e a lungo sognò d'infrangerne le vetrine al volante d'un'auto - poi l'inserviente in un ospedale psichiatrico, «che praticava l'assistenza a domicilio: il che significava, per i medici, abbandonare i pazienti all'incuria, alla miseria e alla violenza, per i malati elemosinare, rubare, finire in galera nel disinteresse di tutti».
Aveva diciott'anni quando s'iscrisse all'università di Exeter. Ai docenti si presentò un ragazzo denutrito, «sordo quasi come Beethoven», il ciuffo afflitto alla Kurt Cobain. Abitava in una cantina senza luce e senza gas, vagheggiava una casa vivibile come un Eldorado remoto. Con un altro studente, Colin Greenwood, creò un gruppo rock e lo battezzò con la formula chimica del tritolo, Tnt. Una jam session scolastica li impegnò a suonare Dear Prudence per ventiquattr'ore di fila, Yorke stregò con movenze da marionetta e voce da crooner, inasprita dalla rabbia dei punk. Il gruppo si sciolse e ne nacquero gli On A Friday, poi Radiohead. Entrò a farne parte anche Johnny, fratello di Colin: suonatore di viola in orchestre sinfoniche, vagheggiava il «riff atonale definitivo», diramò e-mail invitando «chiunque conosca un accordo inusuale» a mandarglielo, «ne esistono dodici ma si fa presto a stufarsene».
Il brano d'esordio, Creep, nacque da un naufragio d'amore e fu, secondo il suo autore, «un monumento alla miseria, la rivendicazione della non esistenza come fine ultimo». Fu ignorato - «troppo deprimente» - dalle radio britanniche e spopolò tra quelle dei college americani. Yorke vi stipò tutti gli spettri del suo immaginario ferito: il disagio di fronte al mondo, la solitudine, la voglia frustrata di normalità. E la paura d'esistere: cosmica come L'urlo di Munch, avida come l'«abisso ronzante» di Paul Celan, scampato ad un lager nazista e finito in un gorgo della Senna. I Radiohead volarono in America, lui fu attratto «dalla follia generalizzata che la rende così divertente: giri in limousine, li guardi e non riesci a prenderli sul serio, qui sta lo spasso». Il successo, oltreatlantico, fu immediato, centinaia d'adolescenti affollarono i club per cantare in coro «starei meglio da morto», ma non offrì scudi alle fobie di Thom Yorke. «Premere il pulsante dell'autodistruzione facendo più rumore possibile», fu il suo slogan desolato e vincente. Il potere mediatico che gliene venne non allentò il suo odio per il potere, «il Grande Fratello - decretò - non è sopra, ma dentro di noi».
In una coffee house di Dallas, fuor dall'uscio bivaccavano neri senza casa e poliziotti mandati a scacciarli, una donna gli s'accostò: nei suoi occhi stravolti dall'entusiasmo, e forse dall'amore, Thom lesse una fame omicida, scappò, la rivide a un concerto e individuò in lei l'ombra di Banquo. In un bar di Los Angeles, dove l'aveva trascinato l'insonnia, un gruppo di fan gli si fece attorno: gli sembrò che volessero ridurre il suo corpo in brandelli, fuggì. «Nulla mi terrorizza quanto il terrore», ammise più avanti, citando involontariamente Montaigne. Nel '93 uscì Pablo Honey, l'album d'esordio, Thom lo definì «musica mesta per gente mesta». Un nuovo tour confermò il successo, e accrebbe le sue paure: «Siamo una macchina da pubblicità, in balia dell'industria: esistiamo, ma solo finché loro non staccano la spina». Trovò nella band il suo unico rifugio: «Sono un idiota triste - confidò -, la mia vita fuori del gruppo è inesistente».
Occorse mettersi all'opera, per un nuovo album. I testi di The Bends furono scritti in stato d'ebbrezza, nel retro d'un autobus. I vee jay di Mtv lo diffusero in tutto l'Occidente, senonché «parlare con loro viene, nella lista dei miei piaceri, subito dopo le verruche». La stampa incoronò i Radiohead come «i nuovi U2», i R.E.M. li vollero al loro fianco, in tournée, gli Oasis, invidiosi, li definirono «cinque studenti del cacchio». Partì l'avventura di Ok Computer. Le registrazioni cominciarono in un deposito di mele, in mezzo ai prati di Oxford. «C'era luce, alcol e cibo, ma niente bagno o cucina: se volevi farti una doccia, ti toccavano sette miglia a piedi». Si trasferirono a Bath, al centro d'una vallata solitaria, nel maniero del quindicesimo secolo che aveva ospitato generali, duchi e arcivescovi, e ora apparteneva all'attrice Jane Seymour. Sistemarono il mixer nella biblioteca in stile Tudor, lo studio nel salone da ballo, riempirono gli scaffali di libri e di rum le cantine. L'immenso giardino rammentava quello di Wonderland, dove re e regina giocano a cricquet usando i fenicotteri a mo' di mazze. La sera, il silenzio stellato cedeva al gemito delle volpi, di giorno accadevano inquietanti prodigi: i nastri si fermavano, ripartivano, si riavvolgevano senza che nessuno premesse i pulsanti. Tutto era paura allo stato puro, ancora una volta, e da qui sgorgò Paranoid Android, «gli yuppies che si organizzano/il panico, il vomito/quando sarò re finirai al muro». La tecnologia mostrò così, ai cinque musicisti, il suo volto più arcano e tirannico, Yorke cantò d'androidi tristi come uomini veri, la critica discettò di vette angeliche e abissi demoniaci, paura di volare, fobia patologica per un mondo di computer e plastica. E Yorke cedette a una nuova ossessione. Prese a collezionare oggetti di plastica, lì seppellì ad uno ad uno e dedusse: «Non si decompongono, sono eterni e per questo ci dominano. Di mortale c'è solo la nostra anima». Arrivò il Duemila, Yorke lo inaugurò lavorando a un fumetto, protagonista un mostro geneticamente modificato, che si nutre di bambini vivi. Poi toccò a Kid A, nuovo album. Sul libretto un'immagine di Tony Blair, gli occhi satanici, i denti aguzzi e una scritta: «Ci porterà via i soldi, porterà via i vostri bambini, distruggerà le vostre case».
«S'avvicina l'èra glaciale, scagliami nel fuoco», implorava la voce di Thom in Idioteque, qualcuno parlò di «fantasma che canta». L'anno dopo Rachel, la sua compagna, diede alla luce il loro unico figlio. Gli fu imposto il nome di Noah, «perché, al pari di Noè, progetti l'Arca, per traghettare gli innocenti in un mondo sereno, sulla Luna». La serenità familiare arginò la solitudine ma non debellò i fantasmi: quando Noah s'addormentava, il padre girava per ore, guidando rasente i campi. I fari azzurri frugavano tra i cespugli «e mi sembra di vivere un sogno, ma ho idea che qualcosa di minaccioso m'attenda».
Né il successo del nuovo album, e dei successivi, attutì il senso d'estraneità che divideva Thom Yorke dal mondo e dalla fama. «Mi sento equiparato a quella scimmietta di Michael Jackson - disse in un'intervista, citando Saul Bellow -, o alla sua valletta in guèpiêre, Madonna». E poi: «Lo strapotere dei computer ti dà un senso d'impotenza». E ancora: «Guardo chi mi parla e mi chiedo come dev'essere il suo teschio, guardo il diavolo e penso: qualunque cosa io faccia, sarà lui a ridere per ultimo». E infine: "L'ultimo messaggio di Dio, dopo la creazione, fu: ci scusiamo per i disagi arrecati».
Quella sera dell'88 che conobbi Roger Nelson, principe di Minneapolis, il Bois de Boulogne illanguidiva nel plenilunio parigino e nell'umidità novembrina. La limousine arrivò sul viale dove i trans magrebini esponevano al gelo i petti ricolmi e lui, dunque Prince, scese in una nube di visone: ché così lo si immaginava e tale apparve. Il party in suo onore era in un restaurant vicino, dopo un concerto a Bercy il cui titolo, Lovesexy, rendeva giustizia ai temi prediletti dal suo autore. L'elfo entrò, gettò la pelliccia e salutò tutti, camerieri cronisti e vip, col cortese distacco d'un re. Vestiva di seta, altissimi i tacchi, il bellissimo volto esaltato dal trucco. Spiazzò l'arrembaggio dei cronisti con risposte che erano musica pura: un sussurro melodioso, un carezzevole fruscio di vaghezze. C'era in un angolo un pianoforte: lo guatò, gli sorrise come chi sa che anche gli oggetti hanno un'anima, e lui l'aveva vista fluttuare nel bianconero dei tasti.
L'incontro non dissipò il mistero che avvolgeva i moventi del suo genio e le sue sapienti incongruenze: come un utero e insieme un salvacondotto verso il successo. Poche e incerte le tappe della sua biografia: nato nel 1958, o forse nel 1960, a Minneapolis, figlio di due jazzisti, infanzia serena. Nella zona nord di questa metropoli definita "un Eden soporifero, un buco del Midwest in mezzo al nulla", abitano i pochi neri della città: più che un ghetto, un accrocco lindo di case e strade, per famiglie non abbastanza numerose da far paura. Anche se per i musicisti di colore è difficile trovar lavoro, ed è la stessa polizia a dissuadere i gestori dall'ingaggiarli. Prince ne deduce quale sarà la sua missione: imporre la musica nera ai bianchi, scavalcando razze e frontiere.
La famiglia Nelson, intanto, si sfascia, mamma Mattie si risposa e tra il figliastro e il patrigno l'antipatia è immediata. Prince ha dodici anni quando si porta in camera la prima amichetta: scoperto e cacciato da casa, lo accoglie Bernadette Anderson, divorziata, sei figli. Con i nuovi fratelli Roger inventa torridi amori di gruppo, con sottofondi funk e ragazze pendenti dal soffitto. Odia tutte le intemperanze, le droghe, l'alcol, salvo quelle sue fregole di puledro con ardori da stallone. Alla scuola di Jim Hamilton, pianista di Ray Charles, lo definiscono allievo entusiasta ma non eccelso: ma sa tutto su contratti e diritti d'autore, su come trattare coi sindacati o vendere un demo. A tredici anni il piccolo principe suona già pianoforte, chitarra, batteria, violoncello, violino, basso e arpa. Sogna un futuro da calciatore, sul campo è veemente e inafferrabile ma la statura, un metro e cinquantatré, non è quella d'un campione. Resta la musica: manuale di resistenza e salvacondotto verso la gloria. «Mi lavo i denti e sento lo spazzolino vibrare - racconta -. Allora capisco che correre al pianoforte». Così fonda i Grand Central, poi ribattezzati Champagne: provano in solai, in scantinati casuali, in asfittici retrobottega, si esibiscono gratis in concerti aleatori, lui passa nottate sul letto a scrivere, riscrivere, registrare, cancellare.
Da musicista s'impone una disciplina d'acciaio, da futura star comincia a tessere la cortina di mistero che ne alimenterà il mito: «Devo essere controverso e sfuggente - teorizza - se voglio che la gente compri i miei dischi».
E all'altrui curiosità oppone reticenze o fandonie: «La mia musica viene dal ghetto, sono il primo di nove figli, cresciuti tra miseria e zuppe d'avena». E ancora: «Non sono di nessuna razza, le riassumo tutte. Ho una sola ambizione, la senilità, e ci sono vicino». Non ha ancora vent'anni.
Va a New York, fa un provino, fallisce. Ma l'arrendevolezza non è tra le sue virtù: alla fine tre major se lo contendono, lui ne sceglie una e per l'album d'esordio ottiene centomila dollari, che è una cifra da superstar. For you, il primo disco, è il viaggio d'un ventenne nell'iperspazio e nell'ipersesso, nei crediti appare «un ringraziamento speciale a Dio», è epoca di disco music ma anche di talenti centrifughi - Kate Bush, Talking Heads, Ian Dury - e lui pilucca qua e là, preso dalla sua utopia interrazziale. Nei primi album racconta storie d'incesto, terrorismo, schizofrenia. E misticismo.
S'inventa una teologia da bucaniere, fondata su un sillogismo obliquo e tuttavia rigoroso: se il sesso è l'antitesi della guerra, e Dio è la pace suprema, Dio è anche sesso. Così lo si vedrà, in scena, rotolarsi su un letto cantando: «Ho una canna da zucchero da smarrire dentro di te/ voglio sfinirti e farti urlare», e poi ascendere al cielo su una pedana, annunciando che «ci sarà pane per tutti/ se sosterremo la Croce».
E' il suo modo ulteriore di coltivare il mistero, nella difformità delle apparenze. Mascherando l'urgenza della virilità dietro vezzi femminei, costruendo fantasmagorie visionarie col puntiglio d'uno Strehler o d'un Visconti: palchi mutati in ritagli di metropoli o in Eden senza tempo, caos strumentale e sontuose polifonie, ritmi neri e colori da Stravinskij elettronico. Non si era mai visto un più eclettico signore della scena, germina nelle sue metamorfosi un fregolismo mozzafiato: dandy edoardiano e un attimo dopo gangster da fiaba, candido Lucifero e paggio lascivo. Né meno screziato è il suo stile di ballerino: guizza su per le casse dell'amplificazione con l'angelica levità d'un Nurejev, danza col corpo ma anche con la sua voce di farfalla, e intanto inanella falsetti stellari, vertigini di carnalità, vocalizzi da acrobata. Conscio, con James Baldwin, che «nero vuol dire vivido, ricco di sfumature come l'arcobaleno, caldo, veloce, vitale come la vita».
Pian piano il mondo s'inchina al miracolo del suo talento. Al suo primo concerto, a Minneapolis, lo ascoltano cento persone, al secondo il teatro trabocca. «E' il Duke Ellington degli anni Ottanta», sentenzia Miles Davis. «E' è un'icona rabelaisiana che redime la lussuria con l'arte», decretano altri. «E' un genio o uno stronzo?», si chiedono i suoi musicisti, che ne subiscono il fascino ma ne patiscono il dispotismo. Lui sta al gioco: «Questo è il mio periodo viola», annuncia paragonandosi a Picasso, quasi a fonderne insieme il periodo blu e il periodo rosa. E, coerentemente, pubblica Purple Rain: dove il viola è il significante, Dio, la poesia, l'irrazionalità chiaroveggente. E, ancora una volta, il mistero: «Non sono né donna né uomo - canta -, sono quello che non capirete mai».
La musica si fa traghetto verso l'universo, Around the world in a day è Ravel e Charlie Parker, Europa e James Brown, e saga postindustriale, stupore infantile, trame di violoncello, liuto arabo, flauto, percussioni da mantra. Il grande traguardo è raggiunto, il suo sogno apolide galleggia tra voli dello spirito e motivetti circensi, da Mahler del pop. E Sign 'o' The Time celebra la felice degenerazione della follia, il miraggio d'una negritudine con tutti i colori dell'iride.
Ormai famosissimo, Prince tramuta un magazzino fatiscente nel megaprogetto di Paisley Park: studi, campi da gioco, ristoranti, un monumento alla musica e soprattutto a se stesso. «Idiota posatore, effeminato egocentrico, mentecatto in libertà», ghignano i giornali. Lui ribatte con nuovi capolavori, trova nella Parigi interetnica di Fitzgerald, Modì, Picassò, Sidney Bechet la città del cuore per sé e per le sue magnifiche amanti. E attizza la sua fama con nuove bizzarrie. Come il Black album, bloccato alle soglie della pubblicazione badando, però, che migliaia di copie sfuggano al veto e girino il mondo.
Ma incombe il declino. Nel disco, il genio di Prince riluce in gemme sporadiche, più spesso s'ingolfa nella coazione a ripetere. È come se lo sfrenarsi dell'estro l'avesse logorato, o forse è la rivincita del destino sull'ottimismo della volontà. Lui tenta, con ulteriori trovate, di ravvivare il proprio mito: cambia nome e si firma l'artista che un tempo chiamavano Prince, accusa le multinazionali di politica fellona e gira con la parola "schiavo" scritta in faccia, dirama i suoi dischi soltanto su Internet. Ma il re è sempre più nudo. E più umano: il matrimonio con una sua ballerina, Mayte Garcia, sembra l'ennesima mossa per spiazzare i fan, ma è un matrimonio d'amore, sbocciato in tournée e cresciuto nella magia di Parigi. E' il '96, lei è incinta. Il piccolo Boy Gregory nasce col cranio deforme, e muore dopo una settimana.
E' qui che l'aereo folletto si fa persona, ripudia il proprio mistero e si svela. Ha un bel dire, Mayte, che «avremo altri figli, lui continuerà a scrivere e a cantare, la vita non si ferma»: niente sarà più come prima, il flessuoso Napoleone del pop ha trovato la sua Waterloo, e ne esce schiantato. Scrive, pubblica dischi e i nuovi spettacoli non lesinano ritmo, movimento e neppure allegria. Ma è l'allegria desolata d'un clown ferito a morte.
Si definiva un Petrolini del rock, la cui grammatica era il nonsenso. Perfetto per il ruolo: con quella faccia un po’ così, incerta tra il magone e l’allegria, la voce indecisa tra il canto e lo strillo, l’intelligenza beffarda, ma con rivoli segreti d’amore per il mondo. Fu, insomma, un coagulo di contraddizioni, il Dna di Rino Gaetano. Tutte feconde: come l’esser nato a Crotone, dove gli splendori della Magna Grecia guardano perplessi i casermoni della civiltà industriale, e le montagne aspre della Sila sgorgano dalla dolcezza del mare, sotto lo stesso cielo «sempre più blu».
A Crotone Rino visse un’infanzia povera, ma ricca di sogni e soprattutto di giochi. Tra i castelli di sabbia sulla spiaggia e gli studi precoci su Pitagora, dal quale aveva imparato che «la filosofia è la sola salvezza dell’anima». Certo, in questo affastellarsi di opposti, darsi un’identità non è facile: a lui gliela diede il candore. E fu il suo salvacondotto verso il cuore del pubblico, che oggi riscopre Gaetano massicciamente, com’è fisiologico in un’èra che di candore non abbonda.
A dieci anni, trasferitisi a Roma, i suoi lo mandarono al seminario di Narni: tonaca nera, otto ore in classe e cinque volte al giorno in chiesa, col divieto di cantare nel coro per quanto stonava. Il professore era don Simeoni, burbero, che se un alunno tralignava lo chiamava alla cattedra e gli misurava un ceffone. Rino tralignava spesso, era il suo modo di esistere. In classe insegnavano Tomaso d’Aquino e lui sottobanco studiava Pitagora, la sera, in camerata, s'ingegnava a musicare il 5 maggio e l’Odissea, traduzione del Pindemonte. O a rifare Dante, a modo suo: «Altrove si udivan strilli d’ogni sorte/ roba che a sentirla a prima si muore/ questo succedeva nella piana di Orte», scriveva, prendendo a gabbo il prof: «Nacque crebbe mangiò studiò dai frati/ poi tutto nerovestito salì al potere/ dove io conobbilo e me la dette a bere».
Tornò a Roma a quindici anni, azzardò studi da geometra, poi da ragioniere ma alla fine preferì il teatro: la Volpe in Pinocchio, Estragone in Beckett, e poi Ionesco, Majakovskij. Recitando En attendant Godot imparò che c’è un antidoto, alla solitudine e all’impotenza: «Troviamo sempre qualcosa che ci dia l’impressione di esistere», e vi costruì la sua saggezza.
Come tanti si fece le ossa al Folkstudio, la cave di Trastevere dove fece amicizia con Venditti e De Gregori, due liceali timidi come lui, che tuttavia «rimorchiava» di più. Le sue prime canzoni piacquero sì e no, «mi accusano di prendere in giro tutti - diceva -, è che amo i paradossi». Lo si capiva dai titoli: Tu, forse non essenzialmente tu, E la vecchia salta con l’asta, I tuoi occhi sono pieni di sale. E dai testi: «Mi alzo al mattino con una nuova illusione/ e prendo il 109 per la rivoluzione». Intanto pensava a un lavoro teatrale, con monologhi come: «Chi fa una scelta politica deve essere in grado di baciarla. Ho avuto modo di conoscere un missionario che ha sposato la propria causa. Ma non l’ha mai baciata».
Era il suo modo di canzonare i colleghi «impegnati», che allora furoreggiavano. E di canzonature straripò il suo primo album, Ingresso libero. Tra politici, magnati, coatti «che non sanno quello che fanno» mentre «i parlamentari ladri sicuramente lo sanno», vip messi alla gogna col sarcasmo, ma anche con la purezza senza se e senza ma dei clown. Quando le basi del disco furono pronte, non si sentì capace di cantarci su, e propose: «Ho un amico che beve, può sostituirmi». Alla fine riuscì, ma al mondo pensoso dei cantautori s'affiancò senza omologarvisi, come una variabile circospetta e pazzerella . Un po’ Pasquino, un po’ Don Chisciotte, un po’ Forrest Gump.
Senza questa innocenza sarebbe stato semplicemente uno dei tanti: meno geniale, meno poeta. Lo salvò il candore, che lo differenziava da tutti e non consentiva incasellature: «Scuola romana? No, appartengo alla scuola del Pinturicchio», rispondeva con uno sbatter di palpebre, alle domande stereotipe dei cronisti. E aggiungeva: «Vabbè, vado a cena con Venditti. Ma parliamo di calcio». A De Gregori, poi, dedicò alcuni versi, d’una perfidia da bambino: «Giovane e bello, divo e poeta/ con un principio d’intossicazione aziendale/ fatturato lordo e la classifica che sale/ il resto lo trova naïf».
Il primo album ebbe un parco successo, lui arrotondava suonando nei ristoranti, con Venditti a fargli da autista sul Maggiolone pagato con Roma capoccia. E intanto rifiutò un impiego in banca, perché giacca e cravatta gli davano il prurito. Passava le sere al bar del Barone, in via Nomentana, trangugiando lattine di birra «perché tutti, qui, giocano a dama, e io la detesto». O raccontandosi barzellette da solo, per tirarsi su. Con gli amici parlava uno slang surreale, d’invenzione collettiva, così criptico che una sera Amelia, la sua ragazza, esplose: «Non vi reggo più», e se ne andò. Lui ne trasse spunto per Nuntereggae più, uno dei suoi capolavori. Subito censurata, troppi gli intoccabili sbertucciati.
Amava le zingarate, che erano, poi, canzoni tradotte in fatti. Come far litigare una coppia di gay, inviando a uno di essi una dichiarazione d’amore scritta su carta igienica. Anche le rare interviste si risolvevano in gag, che per lui significava mettere alla verità il mascara del grottesco: «Ti prende questo pallino di correr dietro alle idee - confidò a un cronista - e così il tuo hobby diventa anche un lavoro. Come un cardiochirurgo che ha sempre sognato di lavorare sui cuori: bel guaio, se si ritrovasse a curare la posta del cuore su Novella 2000». Oppure: «I miei poeti? Ci metto Pavese, Palazzeschi e Iannacci. Pur di non averlo come medico». E infine: «La canzone non cambia il mondo, Berlinguer chiama sempre più gente di De André». Quanto a lui, si definiva un «cantabarista»: «E’ nei bar che impari a scrivere, il bar è un microcosmo dove si parla per flash, ma di tutto, politica, calcio, vita».
Fu, la sua esustenza, una gioconda bohème, con una sola paura, il successo. Quando lo sentì avvicinarsi, fece di tutto per tramutarlo in gioco, convinto che il gioco, nella vita, sia l’unica cosa seria. Andò a "Senza rete", per cantare Spendi spandi effendi, brandendo una pompa di benzina, a Domenica in si presentò portando al guinzaglio una bicicletta. Finché finì a Sanremo. Appena arrivato dichiarò: «Ho capito cosa è successo a Tenco: è morto di noia». Cantò Gianna, una che «aveva un coccodrillo e un dottore, difendeva il suo salario dall’inflazione, non credeva a canzoni o Ufo» ma amava il tartufo, e di notte si rigenerava «in un mondo diverso/ ma fatto di sesso». Cantò col cilindro che gli aveva regalato Renato Zero, la chitarra che gli aveva donato Morandi e dicevano fosse stata di Lennon, il frac sopra la maglietta a righe, i jeans e le scarpe da tennis. Arrivò terzo, dopo i Matia Bazar e Anna Oxa, e il successo lo ghermì: gli autografi, la tivù, i rotocalchi. L’anatroccolo, trasformato in cigno, soffrì quel piumaggio sontuoso, quella regalità mai cercata. «Ognuno di noi ha un pudore da difendere», protestò, e comprò una villa a Mentana per coltivarvi peperoncini e ravanelli. Ma intristiva, beveva troppo, si era fatto magrissimo. Le sue zingarate assunsero un che di plumbeo, e scrivere non era più vita, era solo fatica.
Il gioco era finito, insomma. Arriva il momento in cui don Chisciotte s’accorge che «nei nidi di ieri, oggi non c’è più passeri», ridiventa Alonso Chisciano e riscatta, morendo, la propria innocenza beffata. Quella notte del 2 giugno 1981 la Volvo di Rino finì contro mano. Per schivare un furgone s’appiattì contro un camion, come Buscaglione vent’anni addietro. Lo estrassero dall’auto che agonizzava. Ma al Policlinico non c’era posto, né al San Giovanni, al San Camillo, al Cto della Garbatella, al San Filippo Neri, al Gemelli. Come nella Ballata di Renzo, scritta undici anni prima: stessi ospedali, stessi dinieghi. Al funerale, nella chiesa sul Lungotevere Prati, c’erano Venditti, sconvolto, De Gregori, Endrigo, Cocciante, Pappalardo, Lando Fiorini. Il burbero don Simeoni parlò dal pulpito, e l’omelia si sciolse in singhiozzi. Giorni prima, Rino gli aveva chiesto di sposarlo con Amelia, «basta che non si presenti vestito da prete». Sulla tomba, al Verano, scrissero: «Sognare la realtà, vivere un sogno, cantare per non vivere niente». Era una frase d’una sua commedia, scritta sei anni prima, mai andata in scena.
Nella saletta dell’hotel londinese, piena di ninnoli come lo studio d’un lord, arrivò indulgendo alla sua più usuale incombenza, quella di recitare se stesso. Fin dall’incedere traccheggiando, con digressioni inattese e brevi implosioni epilettiche, l’opacità un po’ psicotica dello sguardo azzurrino e le interminabili scarpe a punta. «Tom Waits», si presentò tendendo una mano spropositata, poi «sediamoci qui, fa così freddo», invitò guidandomi al caminetto spento.
Si lanciò in un barocco amarcord su Roberto Benigni, suo amico in dadaismo e zingarate: «Arrivò a casa mia, a Los Angeles, con un baule di spaghetti e Brunello di Montalcino, per una settimana bevemmo e mangiammo e una sera scoppiò un grande temporale. Lui sparì come un elfo: “Dov’è Roberto“, chiesi a tutti. Mistero: scomparso, tanto che mi domandai se fosse mai esistito. Finché uscii e lo vidi: in piedi sul tetto, arringava il cielo a improperi e gestacci, tutto fradicio».
Fu allora che negli occhi il sopore gli si dissolse, e mi gratificò d’una sua risata: cavernosa, biblica. Tornò serio per rispondere alle mie domande: con lapidari, intirizziti monologhi, epigrammi gentili fino all’estenuazione, calembours scagliati nel bigio di Londra, come lapilli. Era il suo modo sbilenco d’esser saggio, fuor dagli stenti manierismi della ragione. Raccontò l’intenzione d’abbandonare la California per la più estrosa New York, «senza portarmi dietro, però, il mio pianoforte: s’è creato un automatismo un po’ stucchevole, io bevo e lui si ubriaca al mio posto». Parlò di Bukowski e dei santi bevitori incontrati in decenni di vita errabonda, citò Cocteau e Buster Keaton, vagheggiò «un’orchestra così sgangherata da riprodurre i rumori che rimbalzano nella mia testa, guidata da un trombone in forma di pescespada». Disse insomma cose piene di quell’aereo buonsenso cui soltanto i genii hanno accesso, con la logica rigorosa di cui i soli clown posseggono il codice.
Si congedò, infine, che planava la sera. Offrendomi un bourbon «che è il miglior gas mai estratto dall’Uomo», chiarì, e un caffè che «a farlo, qui, gliel’ho insegnato io, e a me l’ha insegnato Benigni: è lo stesso che bevevano gli dei, dopo averne imparato la ricetta da un cuoco italiano». Tradito dal bourbon lo salutai citando Apollinaire, «la voce canta così da rantolare/ il bicchiere si schianta come uno scoppio di risa»: e lui parve gradire, da come sogghignava. O rideva tout court, col solito, feroce sghignazzo da profeta. Che ritrovai anni dopo su un palco fiorentino, con la sua gestualità di frontiera e l’impossibile viso scarnito, perso in un cosmo di smorfie. E il cappelluccio stazzonato, in bilico sui capelli, a raccontare di utopie faustiane, melanconici cani in chiesa, leoni con tre teste, treni imbizzarriti nei corral della notte: insomma la sua vita di picaro e i suoi sogni da bucaniere, spalmati su tetri giri di blues, ritornelli alla Brecht & Weill, zaffate mariachi fragranti come pietanze messicane.
Ché da quelle parti era nato il 7 dicembre ’49, a Pomona, non discosto dal confine tra Messico e California. Come racconterà lui stesso, in un’intervista famosa ed etilica: «Fui concepito in una notte d’aprile in un motel californiano, tra una bottiglia rotta di whisky e una Lucky Strike incenerita, vicino agli avanzi d’un tramezzino al tonno. E nacqui otto mesi più tardi, sul didietro d’un taxi, in un posteggio d’ospedale mentre il tassametro marciava. Sono uscito dalla pancia di mamma che avevo bisogno di farmi la barba, così ho urlato: “Times Square, e schiaccia su quell’acceleratore“».
Norvegese la madre, maestra di spagnolo e cantante in un quartetto soul, irlandese Frank, il padre, insegnante e chitarrista. Un nonno insegnò a Tom l’epopea di Jesse James, uno zio era organista e lo fregò l’incompatibilità tra la sua mano sinistra e le leggi dell’armonia. Tom legge Pinocchio, e il sadismo toscano di Collodi lo ammalia. Da Kerouac impara a fare del mondo il suo domicilio, e «il comune senso di solitudine che percorre l’America tra le due coste». A otto anni celebra il divorzio dei genitori, a quattordici fa lo sguattero in un ristorante, poi il cuoco, il portiere in un folk-club di Los Angeles, l’inserviente ospedaliero, il tassista, il benzinaio, il giocatore di biliardo. Frequenta principesse da marciapiede, bari e soprattutto fantasmi: «Si comportano come delfini - scrive -, schizzano alla luce, danzano e si rituffano nel nulla. Oppure ti vengono incontro su un galeone spagnolo, inabissandosi poi in un banco di nebbia. O t’appaiono a cavallo, spada in pugno, pieni d’amore». E un fantasma gli detta la ricetta per scacciare gli spiriti maligni: «Basta pisciarsi addosso, senza farsene accorgere».
Quando torna dal lavoro, ogni sera, Tom passa ore a scrivere versi, com’è inevitabile - assicura - per chi vive nei motel, tra gente americana. Usa la memoria come «un banco di pegni, un acquario o un ripostiglio, per pescarne storie senza senso, rigorosamente vere». Un giorno, su una bustina di fiammiferi, legge: «Arrivare al successo senza l’università? Mandate cinque dollari a P.O. Box 1531, New York City». Esegue e riceve un dépliant: «Puoi diventare meccanico, elettrauto, assicuratore, musicista, banchiere. O maniaco sessuale, omicida, disoccupato». Lui sceglie la musica: al Troubadour racconta al pubblico le sue poesie, accompagnandosi al pianoforte e ansimando in un sax. Per nove dollari affitta un bungalow al Tropicana Motel, sul Santa Monica Boulevard: per farvi entrare il pianoforte deve segare la parete di cucina. Se ne va quando vede un serpente uscire dal water, e abita sulla sua «sposa meccanica», una Thunderbird d’anteguerra. Gira con un cappellaccio di sghimbescio, la camicia unta e una giacca di due misure più larga: «dunque perfetta, del resto me l’ha disegnata Walt Disney».
Herb Cohen, che ha scoperto Frank Zappa, Tim Buckley e Captain Beefheart, gli fa incidere Closing time, ed è un flop. Ma gli consente di suonare nei club, alla sua maniera stralunata: voce da orco, testi che sono sciarade cubiste perché - puntualizza, citando Juan Mirò - «nella mia testa può esserci una donna, o un cane: il resto tocca a voi». Gli Eagles gli incidono Ol’55, lui ringrazia così: «Sono eccitanti come la vernice che asciuga, i loro album hanno una sola utilità: evitare che la polvere finisca sul piatto del giradischi. E si capisce perché: mai che i loro stivali abbiano pestato merda di vacca». Intanto legge e vive: compulsando la vita come un libro, i libri - e i dischi - come paragrafi del libro che è la vita. E così scopre Stan Getz, Gene Krupa, Duke Elligton, Brecht, Cole Porter, Gershwin, De Quincey, Lenny Bruce. Va a vedere Giulietta e Romeo e descrive Romeo, in Blue Valentine, mentre muore sparandosi in un cinema, con James Cagney grifagno sullo schermo. Fa amicizia con Bukowski, costui ama Sibelius e Tom ama il jazz, ma entrambi adorano Los Angeles, le femmine e l’alcol. E il poeta lo seduce con un’intuizione epocale: «Quando sei ubriaco - ammonisce - la fortuna non può non assisterti». Nel 1980 esce Heartattack and Vine, la stampa irride alla sua voce incatramata, «ci sarebbe da asfaltarne un’autostrada», «Louis Armstrong e Joe Coker dopo una sbronza», «tre parti di cane che abbaia, ognuna con un disperato bisogno di radersi». Lui ribatte: «Ho in gola il giusto clacson per la mia macchina: quando lo suono la gente scappa, i bambini si spaventano e i clienti mi cedono il loro posto al bar, che volete di più». Ma tre anni dopo Swordfishtrombones, e poi Rain dogs tramutano in leggenda la sua avara notorietà. E Francis Ford Coppola gli commissiona le musiche per One from the heart: composte «in diciotto mesi di noia inframmezzata da momenti di terrore: è difficile scrivere canzoni per i sogni d’un altro». Una liaison con Ricky Lee Jones decolla e serpeggia, finché Kathleen Brennan, poetessa e musicante, espugna il cuore di Tom Waits. Il loro è un matrimonio tra saltimbanchi, «lei si corica sui chiodi, s’infila un ago nelle labbra e beve il caffè. Ma dubito che abbia saltato il Grand Canoyn con Evil Knievel, come afferma», dice Tom agli amici. Nascono Kelly e Casey, lui vorrebbe chiamarli Aiax e Senator, ma la moglie lo convince a desistere: «Quando avranno diciott’anni decideranno loro», lo rassicura. E lo induce a lasciare Los Angeles per New York, «che è più intima, un pezzetto di terra dove le razze si mescolano meglio».
Oggi che non c’è più l’insuccesso, a dargli alla testa, Big Tom è un leone acchetato, un marito e un padre inoppugnabile. Non beve e non fuma più, vive con zelo la desolazione della normalità. Con Kathleen e con Bob Wilson, scrive musical di successo rielaborando, e brutalizzando, miti come Faust, Alice e il buon soldato Schweick. Ha sessantatre anni e scoppia di salute e di rimpianti. Vagheggia un grande concerto, lui in tuta stagna, immerso in un bicchiere di whisky. Ma, con previdente saggezza, ha già deciso l’epitaffio per la sua tomba: «Ve lo avevo detto che ero malato», detta.
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