Scintilla bagnata
Quando il fiume lo restituì, Jeff Buckley era un gonfio pupazzo di carne fracida, due ombre per occhi, il viso da serafino devastato dai pesci e dalla corrente. Otto giorni prima, quando il gorgo l'aveva inghiottito, era ancora il più bello tra i travagliati angeli del rock: diafano, lo sguardo sfuggente dei timidi, il sorriso malcerto di chi si porta appresso quella melanconia atavica che fa sentire le donne un po' amanti e un po' mamme. Apparteneva, insomma, alla razza apollinea dei Jim Morrison, dei Jackson Browne, dei Syd Barrett, dei Brian Jones. E di Tim Buckley, suo padre.
Era un crepuscolo di maggio, quando morì. L'aria di Memphis s'imporporava come in un distico di lui, Jeff: «C'è un orizzonte rosso/ fiammeggia urlando i nostri nomi». Buckley aveva lavorato per ore al nuovo disco, ora ascoltava i Led Zeppelin sulla riva del Wolf River, poco lontano cantava il Mississippi. Poi lo videro alzarsi, gettarsi vestito nell'acqua, sparirvi. Si mormorò di suicidio e si vociferò di incidente. Si evocò il fantasma del padre, morto diciotto anni prima di droga, detestato, adorato, eluso, bramato da questo figlio così simile a lui. «Ora, dovunque siano, sono davvero uniti», si consolò alle esequie Ann Marie, sorellastra di Jeff.
Il breve patrimonio della sua vita lo spese a inseguire un fantasma, suo padre. Per decidere se odiarlo o amarlo, esserne il calco o l'antitesi. Concluse il suo inutile viaggio in un gorgo del Mississippi, era il crepuscolo, l'acqua di maggio era tiepida e la morte dovette sembrargli mansueta. Ora, fu detto, lui e l'altro avrebbero potuto incontrarsi.
Questa è la storia di Jeff Buckley, musicista rock annegato a trent'anni. Storia strana ed estrema quella dei Buckley, Jeff annegato a trent'anni, Tim ucciso dalla droga a ventotto. Mediamente noto, da vivo, il primo, e idolatrato in morte, amatissimo in vita il secondo, e quasi dimenticato poi. Al figlio, Tim aveva trasmesso di tutto: il viso d'angelo, il talento, la voce eterea ed estesa, la voglia e il rovello di vivere. Ma solo per via genetica: Buckley senior se ne andò da Los Angeles che la moglie Mary, diciotto anni, era ancora incinta di Jeff. Approdò a New York lasciando ad entrambi soltanto una canzone sbruffona e dolente d'addio: «Non so nuotare nelle tue acque - diceva alla donna - né tu camminare sulle mie terre». Poi una strofa su quel nascituro «fasciato di amare storie e mal di cuore/ mendico d'un sorriso». Versi feroci e facilmente profetici, ché a Tim bastava guardarsi allo specchio, per sapere come suo figlio sarebbe stato, e di quali patemi sarebbe vissuto.
E' il giugno '66, siamo ad Anaheim, Los Angeles.
Jeff nasce quattro mesi dopo, è il giugno '66. Cresce con Mary, i suoi amanti, una zia e una nonna, senza padre e tuttavia impregnato di lui. Carico di rancore per il suo abbandono, eppure mendico di quel sorriso, in una bipartizione dell'io che è l'anticipo della schizofrenia. Padre e figlio s'incontrano una sola volta, il ragazzo ha otto anni e il padre venti di più, ma una settimana di convivenza non sana il reciproco disagio né rafforza il reciproco radicamento: semmai dovette accrescere, in entrambi, il timore d'un possibile affetto, che nessuno dei due cercava ed entrambi inconsciamente volevano. E che li avrebbe come mutilati, Tim nella sua irresponsabilità vagabonda, Jeff nel suo bisogno d'identità: non il figlio di Tim Buckley, la star, ma semplicemente Jeff Scott Buckley, musicista.
Con quel vuoto dentro Jeff viene su, come vuole la convenzione biografica, "normalmente felice". Ma non troppo: una qualche saggezza già adulta, i capelli, alla nascita, quasi canuti, una connaturata mestizia inducono i familiari a chiamarlo el viejito, il vecchietto. La nonna materna ama citare, guardando il nipotino, Thomas Hardy e il suo Piccolo Padre Tempo: «Era la vecchiaia mascherata da giovinezza, così maldestramente che la sua vera identità trapelava dalle crepe». Ed è come se il piccolo cherubino crescesse con due anime: l'una colma di grazia, l'altra oscura, ribelle, da perseguitato. Mary gli suona le canzoni di Tim, lui dirà a tutti, per anni, di non averne mai sentita una: e intanto gli monta una gran voglia di conoscerlo, l'uomo che lo ha rifiutato. Per adorarlo, chissà, o per ferirlo a morte, per scegliere se esserne il doppio o l'antitesi.
La nonna gli regala una vecchia chitarra, lui si diverte a far rotolare tra le corde biglie di vetro, per cavarne liquescenze e sospiri. E' la radice delle canzoni future.
Quando Mary sposa Ron Moorhead, un meccanico appassionato di rock, Jeff assorbe quella passione ma non riesce a surrogare col patrigno il suo padre fantasma. La metà più ombrosa del suo carattere scatena il sarcasmo degli amici: «Sciocco moccioso», «Tonto caccoloso», «Scotty vasino» sono i soprannomi che gli infliggono, e peggio di tutti «Buckley-Fuckley». Anche per questo, all'asilo, lo iscrivono come Scott Moorhead. Ma alla morte di Tim si riprenderà il cognome paterno: «Non so perché lo faccio. O forse sì", spiegherà, senza spiegare.
Quell'assenza paterna, dunque, scandisce l'adolescenza di Jeff. E con essa la musica: quella che Mary suona al pianoforte o al violoncello (Chopin, Mendelssohn) e poi Bacharah, Edith Piaf, Led Zeppelin, Joni Mitchell. E Jim Morrison, grande amico di Tim. Poi la poesia:in una canzone a lui dedicata, i Cocteau Twins chiameranno Jeff «cuore di Rilke», ma un bisogno di filiazione lo spinge, piuttosto, verso i grandi visionari, quale era stato suo padre: Neruda, Lorca, Ginsberg una cui strofa - «Hipsters con la faccia d'angelo/ ardenti per l'antico contatto celeste/ fluttuanti sulle vette della città contemplando jazz» - sembra il suo ritratto.
Nel '75 Mary scopre che l'ex marito terrà un concerto a Hunkington Beach, un sobborgo di Los Angeles. Ormai Tim è un Icaro bruciato dai sogni e dalle droghe, il suo successo ha scalato il cielo ed è franato giù, nell'anticamera del dimenticatoio. Ma che importa: Mary conduce il figlio al concerto - «era tutto eccitato, gli fiammeggiavano gli occhi, non riusciva a stare seduto». Poi gli presenta il padre. Risultato: un abbraccio di dieci minuti e l'invito a trascorrere insieme le feste di Pasqua. Che, come si è detto, non spianano la strada ad un vero legame: i due sono troppo uguali per scoprirsi complementari, e perché sull'emulazione prevalga l'amore. Un mese dopo un'overdose si porta via Tim, e Jeff non va ai funerali: non l'hanno invitato.
Diventato adulto il giovane Buckley sbarca il lunario da centralinista e da commesso, fa il barista negli stessi locali in cui, smesso il grembiule e imbracciata la chitarra, intrattiene i tiratardi. Finché nel '90, a ventiquattro anni, fa la stessa scelta di Tim: lascia la California, "paese di selvaggi e di gente repressa", e se ne va a New York. Canta negli stessi locali dove aveva cantato suo padre, non dice a nessuno di esserne il figlio ma i meno immemori risconoscono in quell'atteggiarsi da bimbo smarrito la fragilità di Tim, il suo sguardo, la voce estesa ed eterea, intrisa di spleen e di sogni. E quando lo invitano a partecipare a un Tim Buckley Memorial, nella St. Ann's Church di Brooklyn, Jeff s'arrende, ma a patto che nessuno annunci il suo nome. Poi sale sull'altare e canta I never asked to be your mountain, la canzone con cui il padre, venticinque anni prima, si era congedato da Mary. E conclude attaccando Once I was a soldier: «Qualche volta mi domando - urla - se anche solo per un attimo/ ti ricorderai di me».
Ora Jeff Buckley è un musicista noto. Suona alla radio accompagnando, all'harmonium, le declamazioni di Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, tiene applauditi concerti al Sin-é, firma il contratto che gli consente di registrare Live at Sin-é, il suo disco d'esordio. Gira l'Europa e l'America. Le sue sono, formalmente, canzoni d'amore, ma il tema dell'abbandono vi domina e rimanda ad un'altra perdita, mai accettata. «Se solo tornassi da me», sospira in Mojo Pin. «Soffocano il mio nome, così facile da imparare», soggiunge in Lorca. «Non essere come colui che mi ha fatto invecchiare/ come chi ha lasciato dietro di sé solo un nome», chiede in Dream brother. Un giorno, a Parigi, durante un suo concerto, due hippy intonano un brano di Tim. Lui li guarda poi mima, sarcastico, una morte per overdose. A un giornale dichiara: «Che Tim Buckley sia mio padre non è affar mio. Non si dedicava a me, ha aperto delle porte ma io non le ho mai attraversate». Quando, però, gli mostrano una fanzine dedicata a Tim, Jeff la sfoglia, le mani gli tremano, gli occhi s'inumidiscono, vede una foto del padre e sussurra: «Qui doveva avere bevuto". Poi accarezza l'immagine, con una tenerezza che nessuno gli aveva mai visto.
Finalmente ha instaurato, col ricordo paterno, un rapporto positivo, esultano i familiari. E una sera del maggio '97, a Memphis, il giovane ascolta dischi in riva al Wolf River. Il Mississippi scorre poco lontano, il sole tramonta e ricorda una canzone di Jeff, «c'è un orizzonte rosso, fiammeggia urlando i nostri nomi». Gli amici vedono Buckley tuffarsi, vestito, e nuotare fino al gorgo che lo inghiotte. E' l'estrema illusione, il ritorno agognato tra le braccia paterne. E la celebrità ormai inutile, l'alluvione di inediti, gli omaggi postumi, Joni Mitchell che parla di «scintilla che sfreccia nel cielo della notte, verso uno strano posto», Bono che piange «quella pura goccia di suono, in un oceano di rumore».