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Venerdì, 17 Febbraio 2012 13:49

Storia di musica n. 8 - Piero Ciampi

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 «Sono livornese, anarchico e comunista»

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Piero Ciampi - Storie di musica

Per viatico chiese un fiore e un bicchiere di vino fresco. Poi vide i fianchi dell'infermiera sparire rotondi oltre la corsia, e finalmente scivolò nel nulla. Sorridendo di sollievo, come mai gli aveva concesso la vita. Furono pochi i giornali che annunciarono la morte di Piero Ciampi, in quel diaccio gennaio del 1980 che lui coronò il sogno di un'esistenza «tutta passata a morire, ad ogni cosa che faccio». Parlarono invece i poeti: «Cantò la normale stranezza della realtà - lo descrisse Maurizio Cucchi - con voce così poco canora che non potevi fare a meno di considerarla viva e parlante». Gino Paoli fece eco: «Mi ricordava Vian, Bianciardi e Céline, visse come scriveva: iroso, acre, tenero, assurdo». «Preferiva alla rabbia il litigio, alla provocazione la bagarre», disse Paolo Conte. E Carmelo Bene, compagno di litigiose partite a dama, ringhiò: «Scompare, al solito, una delle rare persone eccezionali che abbiamo, e ci si accorge di lui troppo tardi».

Fu l'epitaffio più sferzante, quello che Ciampi avrebbe prescelto come il più consentaneo alla sua anima buona e rissosa. Sarebbe stato il più dolce degli epicedi, per la sua boria indifesa e per la sua anima fragile, rafforzata dalle zuffe. «Di mestiere farò il poeta, ma se va male lavorerò in porto dove i cazzotti non mancano mai», confidava ai parenti, ancora bambino.

Ché furono, i cazzotti, un suo modo di far poesia, insieme al vino e agli amori: pochi, allegri e devastati dall'incuria e dal malanimo, come in fondo fu tutta la sua esistenza. Imparò a fare a pugni fin dall'infanzia, figlio d'un venditore di perle e d'una madre morta giovane, che gli aprì nel cuore una ferita perpetua. Un giorno, con un fratello, diede fuoco alla casa paterna: per allegria, per sfregio o per vedere l'effetto che fa. Studiò di contraggenio, come s'addice alle menti profonde, ebbe amici rissosi come lui e, diplomatosi, emigrò a Milano per compiacere il padre, che lo voleva ingegnere. Ma Milano era euforica, torbida e senza mare, lui era un pirata, abituato al maestrale e al salino. Era un rock'n'roll di cantieri e motori, lui misurava il tempo di vivere sui ritmi lunghi delle onde. Così se ne tornò a Livorno e alle sue asprezze, ché «noi livornesi - diceva, orgoglioso - siamo toscani come gli altri, solo più antipatici».

Si guadagnò da vivere vendendo lubrificanti, e da sopravvivere scrivendo poesie come questa: Ho visto/ un cuore/ giacere rossastro/ sulla strada/ e un gatto/ mangiarlo/ tra gente/ indifferente. Nel '55, compiuti i ventun anni, andò al Car di Pesaro, in servizio di leva. Tra le reclute c'era Gianfranco Reverberi: musicista, baffi guasconi, risata pronta. All'attesa per le assegnazioni, Gianfranco sentì «una voce da menefreghista - disse - che articolava un blues», la raggiunse, si presentò e i due furono subito amici. Misero su un complessino, tennero banco nelle balere fino a ferma conclusa. Ciampi scriveva canzoni sui tovaglioli delle osterie, Reverberi ne lesse alcune e disse: «Strane come sono, piacerebbero in Francia». E Ciampi partì per Parigi.

Portò con sé una camicia, la chitarra e il biglietto d'andata. Sul passaporto pretese che scrivessero: Ciampi Pietro, Livorno 20 settembre 1934, professione poeta. Visse due anni tra ammezzati, conventi e cantine. A mezzogiorno sfilava dai frati per un piatto di brodo, al pomeriggio faceva la questua in Boulevard Saint Germain, la sera cantava nei bistrot, tre locali ogni sera, la ruggine in gola e uno pesudonimo, Piero Litaliano, che i francesi pronunciavano tronco, Litalianò. In un bar del quartiere latino un uomo magrissimo lo ascoltò e poi lo invitò al suo tavolo. Aveva la voce impastata nel cognac ed era Louis-Ferdinand Céline, ormai vicino a morire. Trovò nel livornese allampanato un altro se stesso, gli insegnò il mestiere sottile dell'autodistruggersi, che è un modo di vivere senza il peso di esistere.

Gli amori francesi di Ciampi furono brevi come fiati di vento: brevi, veementi. Gli chiesi, anni dopo, se ne avesse mai avuto uno felice, che dai suoi versi non si sarebbe detto. «Un paio, ma così corti», rispose brusco. E accennò alla strofa, famosissima, che in una sera parigina gli aveva bofonchiato Céline, appunto: Plasir d'amour ne dure qu'un moment/ chagrin d'amour dure toute le vie. Gli domandai come fosse, Céline. «Aveva una voce d'agonia e un sarcasmo da ciclope, non capii mai se, sotto sotto, amasse più la vita o la morte», ricordò, e fu tutto. Mi parve di vederli, il livornese con gli occhi azzurri che gesticolava senza requie, e di fronte a lui il vecchio fragile, arrivato al termine della notte, che ansimava con ironia di morente.

Lasciata la Francia, Piero Litalianò vagò tra Inghilterra, Spagna e Irlanda. Seguiva una sua geografia sbilenca, fondata su un atlante arbitrario: la Calabria è un'isola, diceva, l'Irlanda è un paradiso e l'America non esiste più. Quando non trovava dove esibirsi faceva la fame, ma senza rancore: d'altronde «un poeta - spiegava - può andare a cena soltanto sulle stelle». Proponeva canzoni piene di tenerezza furtiva e d'esplicita rabbia, spiegando che cantava «per non ammazzare», e dicendosi «sempre incazzato per tre buoni motivi: sono livornese, anarchico e comunista». Alle sue risicate platee parlava spesso di Livorno, «che è un'isola ma è anche il mondo, e io ne sono il Robinson Crusoe». Infatti ci tornò, senza un soldo come quando l'aveva lasciata, costretto dal rimpianto e dal fatto che all'estero non aveva mai ottenuto, tutte insieme, le quattro cose che più gli premevano: una frittata di cipolle, un bicchiere di vino, un caffé caldo e un taxi alla porta.

A una festa, a Genova, incontrò un'irlandese alta, snella e bionda. Il suo estro di navigante gliela fece apparire bellissima e in lei s'arenò, la ragazza apprezzò, di lui, la faccia ribalda e la timidezza aspra. Si sposarono, ebbero due figli, poi l'irlandese se ne fuggì: Piero l'amava dal pirata che era, lei cercava il tepore della stabilità. La rincorse in America, non la trovò perché l'America non è Livorno, è un universo dai confini impossibili, dove c'è tutto e nulla. Così si risposò, ma con l'alcol: che non tradisce, alla pari d'un amore s'infiltra nel sangue e pian piano ti consuma. Pochissimi da allora lo videro sobrio. Diceva: «In tutto quello che faccio c'è un po' di morte».

Visse tra Roma e Livorno con quello squarcio nell'animo. Gino Paoli lo impose alla Rca, gli procurarono un contratto e una casa, lui firmò, prese i soldi e sparì. Fece dischi con etichette rionali, firmandosi ora Piero Litaliano, ora Ramsete, poi col suo nome e cognome, e ogni volta con lo stesso insuccesso. Sul palco arrivava quasi sempre ubriaco, dimenticandosi i testi e reinventandoli all'impronta, con la logica storta e la coerenza bambina del poeta che credeva di essere, e probabilmente non fu. Del valore dei soldi non ebbe mai cognizione, gli piaceva la fama ma mal sopportava le telecamere: «Se vogliono riprendermi paghino - diceva -, sono ricchi, questi signori della tivù: portano mocassini da diecimila lire». Cantanti e cantautori? Se ne sentiva disamato, li chiamava "pezzi di merda" e preferiva frequentare pittori e scrittori: Bevilacqua, Turcato, Schifano, Carmelo Bene. E tuttavia Paoli gli incise vari brani, Aznavour lo volle al suo fianco in tivù, altre sue cose le interpretarono Gigliola Cinquetti, Connie Francis, Milly, Nicola di Bari, Morandi. E Nada la livornese, stregata da quel suo sguardo «dolce, triste, profondo: lo sguardo d'un bambino che sa ma non sa come fare». Ché piaceva, in fondo, l'impudicizia del suo mettersi a nudo, la voglia di autoritrarsi in pagine come questa: Ha tutte le carte in regola/ per essere un artista/ ha un carattere malinconico/ beve come un irlandese...

Trascorse così vent'anni: tribolando e divertendosi tra lucidissime sbronze, prestiti mai restituiti, contratti disattesi, parchi successi, turbolenti concerti, amicizie e inimicizie egualmente riottose. E per vent'anni, sorso dopo sorso, preparò la sua fine, aspettando che il fegato gli si spappolasse nell'alcol: invece il destino gli giocò l'ultima beffa, uccidendolo di cancro alla gola. Un ospedale romano gli fu ultima casa e ultima spiaggia, finché se ne andò come in una pagina del suo Céline, l'ultima di Voyage au bout de la nuit: «È crollato, tranquillo, tra enormi sospiri. Ha dormito. Che non se ne parli più». Gli restò, sul viso, un sorriso di pace, come mai la vita gli aveva concesso. Non fu difficile, trasferirlo dal letto alla bara: il male aveva reso il suo corpo sottile come una vela, tanto che sotto il lenzuolo - fu detto - rimaneva soltanto la sua intelligenza. Quando gli portarono il vino del commiato e il fiore della tregua, cadde nel sopore della buona morte. Tra i poeti, veri, che gli dissero addio, l'epicedio più bello glielo dedicò Francesco De Gregori: «Nella noiosa foresta della Gente Muta, le sue canzoni sono i sassolini che ci portano alla spianata da cui, con un po' di buona sorte, puoi vedere un pezzetto di luna».

Letto 4734 volte Ultima modifica il Giovedì, 03 Gennaio 2013 13:30
Cesare G. Romana

Cesare G. Romana Genovese doc, amico intimo di Fabrizio De André e suo compagno di strada, è il decano dei giornalisti musicali italiani. Critico de “Il Giornale”, è autore di un fortunato libro su Gino Paoli, e, per Arcana, di Quanta strada nei miei sandali. In viaggio con Paolo Conte e Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con De André.

Ciao Cesare, vogliamo ricordarti così

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