Il disco si presenta, a livello stilistico, abbastanza diviso in hard- rocking tracks e brani acustici. E’ trainato dall’hit Inside, primo singolo, di grande successo anche grazie ad una azzeccata rèclame di blue jeans. Nonostante non si tratti di una brutta canzone, tutt’altro, la parte che ne resta maggiormente impressa è il classico riff a tre accordi che introduce il refrain. Ciò introduce il nocciolo del problema.
Tutto il disco infatti vive di flash, di spunti isolati, di compitini svolti a dovere. Lì il tocco d'organino, là l'orlatura di basso. Manca il pathos, l'emozione, e all'album d'esordio rappresenta una pecca considerevole. E’ un opera povera di tessuti armonici variegati, di ritmiche fantasiose, peculiarità, insomma, che lascino intravedere un principio di originalità. Alcuni pezzi sono senza sapore, come When My Ship Comes In, nuovo tricorde in minore con alcune parti raddoppiate, che lascia le cose come stanno. Altri superflui, come Prayer Before Birth, che consta di un unico accordo di tastiera spalmato per tutto il brano e ricoperto da effetti di ogni genere a colorare lo sfondo. Sembra un pezzo scartato da Ummagamma, in una parola un riempitivo, almeno in Careful With That Axe, Eugene c’erano gli urlacci di Waters a tener sul chi va là un agitato ascoltatore.
Un po’ di luce irrora un esordio piuttosto modesto nella seconda parte del primo lato, ove troviamo la sequenza migliore dell'intero cd. Rest In Peace è un acustico finalmente piacevole, con la bella voce di Wilson opportunamente in evidenza e non offuscata dalla produzione. Il brano migliore è, facilmente, Sunshine & Butterflies, con il suo procedere moderato, quasi mesto, l’espressivo solo di chitarra non distorta, l’ anatema ribadito più volte, quasi auto-profetico: “They won’t be here anymore…” Parzialmente riuscita anche An Illusion, che parte e si sviluppa come pezzo ad ampio respiro melodico, abbellito da una buona parte di slide, peccato che sul finale i ritmi ed i suoni si compattino e s'induriscano a creare il più classico degli U2 city-sound, ossia il rituffarsi in una trita mediocrità.
Un altro limite dell’opera è il fatto che molto spesso sia legata a strutture standard, ossia strofe scarne coperte magari dai soli basso e batteria, per poi dare un impatto lacerante al middle eight o al ritornello con l’abrasivo ingresso dell’elettrica distorta. E’ il caso ad esempio di America o anche di Footsteps. Di conseguenza i brani proposti si ricoprono d’un marchio di fabbrica ripetitivo e prevedibile, e viene a mancare un’indispensabile caratteristica per una proposta davvero convincente: la versatilità. Ora, voi potrete anche dimostrarmi spartiti alla mano che Scared of Ghosts, Horse e Inside non siano la stessa canzone, ma gli arrangiamenti, l’effetto d’insieme, le sequenze di accordi quasi intercambiabili raccontano un’altra storia. Come non pensare alla malandrina intenzione di voler prolungare con un cd intero il consenso raccolto da Inside? Non è poi una colpa tanto grave da meritare lo scioglimento, come poi è successo, ma nemmeno è il caso di piangerci troppo sopra.
Per la cronaca, il gruppo si è riformato nel 2006, con Wilson alla voce ed altri elementi ma senza Peter Lawford, autore unico del primo album, ed ha pubblicato un cd e un live. Staremo a vedere. Quanto a questo Mind’s Eye, si lascia anche ascoltare, ma per metà almeno è piuttosto irrilevante.