Chiariamo subito un punto. I puristi del suono interamente “suonato”, gli estremisti dello strumentismo, non ascoltino quest’opera. Siamo di fronte infatti ad una nuova fase del Bowie post-ottanta, e stavolta la scommessa è pesante: ricavare un prodotto ascoltabile, o addirittura di valore, utilizzando produzioni ed arrangiamenti pesantemente elettronici, uno stile sostanzialmente predecessore dell’attuale drum’n’bass.
Quali possono essere le ragioni di un disco tanto mediocre, specie in considerazione della brillante prova realizzata giusto un anno prima (Vado al massimo)? Scadimento di forma o appagamento da raggiunto status di rock star? Ogni ipotesi è possibile. La cosa che maggiormente salta all’orecchio è la scarsità nell’album di pezzi rock davvero validi, il che per il cantautore di Zocca ha dell’incredibile.
Deluso dai critici, che non lo capivano. Preoccupato per l’incombere dei 30 anni, la “middle-age” della rock star di successo. Infestato dalla depressione, che combatteva a colpi di LSD, il signor Smith riesce a chiudere i pericolosi ’80 con un colpo di genio, ossia l’ottavo disco dei Cure, Disintegration.
Steel Wheels presenta i Rolling Stones nella loro forma più classica ed esemplare. E’ infatti composto da una sfilza di canzoni che i Rolling suonano da sempre (nella fattispecie, da 25 anni), alternando brani di rock and roll solari ed energici, a lenti d’atmosfera (interpretati qui anche dal signor Richards) con l’unica intrusione d’un pezzo, Continental Drift, tanto originale quanto estemporaneo e totalmente avulso dal flusso stilistico-musicale dell’opera.
Uscito nel momento più complicato in assoluto della band nei suoi primi quattro anni di vita (per vicende personali più che professionali), Be Here Now è un disco troppo auto indulgente e monotono per risultare soddisfacente, ma la sua pecca più rimarchevole è che non mostra, stilisticamente e tecnicamente, particolari miglioramenti rispetto ai suoi due brillanti predecessori.
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