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Martedì, 23 Luglio 2013 08:37

Rubber Soul // The Beatles

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Rubber Soul // The Beatles Rubber Soul // The Beatles

Cinque album in tre anni, tournées, interviste, apparizioni, vacanze per modo di dire: un bel mattino dell’ottobre 1965 Epstein si presenta dai ragazzi e dice: «Sapete che c'è? Serve un album di inediti per Natale».

 

C'erano due possibilità: licenziarlo o obbedire. I ragazzi, freschi baronetti, ancora apparentemente veleggianti sulle dolci onde della beatlemania, optarono per la seconda. E malgrado qualche inevitabile ripescaggio, riuscirono nel compito, presentando alle stampe il 3 dicembre questo Rubber Soul, che riafferma l’elevato standard delle prove precedenti.

 

Ad aprire è McCartney e lo fa con uno dei suoi pezzi più convincenti: Drive my car, resa con una voce black che sfodererà solo in poche altre occasioni, doppiata egregiamente dal compare Lennon e sublimata dal piano groovy suonato dallo stesso autore. Replica subito John, con la prima traccia in assoluto a vantare una parte di sitar nella discografia beatlesiana (a cura del Cucciolo Indiano George), un sarcastico valzerino intitolato Norwegian wood. Sitar che duetta con la leggiadra acustica di Lennon, il quale riconferma il proprio gusto per la corrente folk-rock, bandiera dei poeti d'oltremanica, Phil Ochs e Dylan in primis. Il tutto per un'innocente scappatella. 

You won't see me scava ancora nel personale, è McCartney che comincia a farsi domande sul proprio rapporto con la Asher al di là del volersi tener la mano sotto la luna piena; affida le riflessioni a un sound tipicamente motown e si riserva (caso più unico che raro) le armonie vocali più basse. Povero Paul, mesto mesto, aveva capito che Jane non era poi una groupie qualsiasi. Da mestizia a tristezza, segue John con Nowhere Man, una delle sue migliori proposte in assoluto, da Beatle e da solo. Un inno a tre voci (Ringo si rifarà più tardi) per magnificare l'inquietudine e la solitudine del venticinquenne miliardario che ha perso la direzione. Un malessere già germogliato mesi prima, col singolo Help e che lo porta ad ammettere di essere «un uomo inesistente che fa piani inesistenti per nessuno», pur citandosi in terza persona. Poesia e melodia si fondono in un risultato superbo. Per Harrison, subito dopo, un compito duro: non far rimpiangere che la puntina del giradischi abbia cambiato solco. E lui, insomma, ci riesce anche, con la sua Think for yourself rude e incazzata, altro che meditazioni e le chete acque del Gange che saranno. Il Piccolo lamenta di slealtà, ottusità e cattiverie assortite da parte del mondo circostante, e il fratello maggiore Paul lo sostiene e rincuora con una parte di fuzz bass duro come un'elettrica distorta.

 

The word è senza tema di smentita uno dei tre/quattro capolavori del lavoro; frutto d'una collaborazione pressoché paritaria, ha un suono terribilmente moderno ed eccitante, ed è quanto di più vicino al sogno di Lennon/McCartney di comporre canzoni su di una sola nota sia mai stato registrato. Chitarre in levare rilucenti, hammond dilagante (perché tutta quella fretta nello sfumarlo?), cori gioiosi e flower power a go-go. Un trionfo, ragazzi. Incredibile che merce così dovesse attendere 46 anni (!) per una presentazione dal vivo (McCartney a Bologna, 2011). Il lato A termina con Paul il figo che sbatte gli occhioni e mormora parole dolci alla sua Michelle, mentre gli ascoltatori sprofondano in poltrona a sonnecchiare. Il seguito di Yesterday è servito, col finger-picking in primo piano (costruirà così anche Blackbird ed altro) ed un indegno tuffo nella melassa, ovviamente stra-premiato e stra-reinterpretato. Vabbè, bisogna pur vendere.

 

Lato B. Arriva Ringo: è ora del western, come ha insegnato Act naturally. Attenzione: il nasotto vuol creare, e chiede un little help dai suoi friends. Il risultato è la country ballad che risponde al nome di What goes on, uno stile godereccio e simpatico che sarà il marchio di fabbrica dello Starr compositore. Atmosfere allegrotte spazzate via dalla tensione di Girl, canzone di spettrale bellezza, unica con i quattro ognuno ai propri posti (leggi = strumenti), con più di una frase rivelatrice dell'umore dell'autore, («fame would lead to pleasure...») ed una struttura tutt'altro che semplice, frutto dei continui approfondimenti tecnici dei quattro. La crisi affettiva di McCartney raggiunge il suo culmine in «I'm looking through you», che è invece semplice è diretta e presenta un ritmo allegro e scanzonato, in curioso contrasto con l'amarezza delle parole.

Ma un nuovo portento è dietro l'angolo: trattasi di In my life, guidato da uno straordinario piano in stile barocco suonato da George Martin. E' un tenero spaccato della giovinezza di Lennon, in cui ricorda gli amici, che sono e che furono, celebrando la metamorfosi tra il passato e l'incredibile presente, forte d'una melodia davvero struggente, plasmata a quattro mani con PaulWait è un brano eseguito completamente a doppia voce, tranne per il middle eight maccartiano, dal messaggio trascurabile ma con notevoli armonie vocali nella strofa e nel refrain. Poi torna Harrison, che dev'essersi calmato nel corso dei solchi, presentando If I needed someone ed il suo luminoso riff chitarristico; sarà subito coverizzata dagli Hollies (tra parentesi, la loro versione farà storcere il naso al suo autore), e rappresenta bene la dimensione più che rispettabile che il Cucciolo ha assunto da songwriter. E chiude Lennon con la birbantella Run for your life, del cui testo si vergognava mica poco, e infatti è misogino e piuttosto stupido, però il contesto skiffle in cui i versi sono inseriti la rendono più digeribile, persino apprezzabile, a livello strumentale.

 

Rubber soul centrò il proprio obiettivo; le vetrine di dischi erano di nuovo invase dai volti zazzeruti dei quattro da piazzare sotto l'albero per un nuovo Beatlenatale. Per l'ultima volta, i fab registravano materiale inedito a comando per ragioni commerciali; il livello qualitativo fece però in modo che nessun ascoltatore se ne accorgesse. E con il 1966 sarebbero finalmente iniziati gli "studio years"…

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Alfonso Gariboldi

Poesie, racconti, recensioni: la caleidoscopica  proposta di Alfonso Gariboldi per AMA music si traduce in una acuta retrospetiva che indaga vizi e virtù degli album che hanno fatto la storia della musica. Ogni sua recensione è arricchita da un collegamento storico, un aneddoto, una riflessione sagace che contribuisce a delineare lo stile irreprensibile e irriverente della rivista.

Per ulteriori informazioni circa l'attività letteraria di Alfonso rimandiamo al suo sito personale www.alfonsogariboldi.it

Sito web: www.alfonsogariboldi.it

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