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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Venerdì Aprile 19, 2024
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È proprio un pianoforte da concerto quello che separa il pubblico del Teatro alla Scala di Milano da Paolo Conte e suoi undici scudieri quando, la sera del 19 febbraio 2023, le luci si accendono sulle prime note di Aguaplano.

 

Una data da ricordare, non tanto per il presunto debutto delle “canzonette” sul palco scaligero, ma per la messa in scena della raffinata riflessione di un cantautore sulla performance, espressa attraverso una ricercata poetica e un’esecuzione ineccepibile, proprio in un luogo iconico.

 

La scelta dei brani in scaletta nel primo tempo del concerto sembra voler dire questo, è l'affermazione di più di 50 anni di ricerca e messa in scena, rivendicate attraverso brani quali Come di, Recitando, Sotto le stelle del jazz, e culminate nell'esecuzione in solitaria di Conte di Dal loggione, indossando un paio di occhiali da sole da dietro i quali sembra dichiarare: “Io so di cosa sto parlando. Voi?”.

 

Facciamo però un passo indietro per accedere gradualmente allo spettacolo svelato dai drappi rossi che scivolano verso le quinte. La scenografia è assente a parte le luci che colorano a tema i brani della scaletta: lo spettacolo fornito da Paolo Conte e il suo ensemble è più che sufficiente a riempire il palcoscenico.

Il discorso su musica, esibizione e generi prosegue, dopo Aguaplano, con l’immancabile Sotto le stelle del jazz, in cui in cui brilla l’arrangiamento per ottoni, seguita dal ritmo incalzante di Come di, che scorre veloce sotto le pennate manouche di Luca Enipeo e Nunzio Barbieri.

La luce verde che pian piano irradia i componenti della sezione ritmica e l’incedere pacato delle prime battute del brano successivo sono un chiaro segnale: siamo Alle prese con una Verde Milonga. A svelarne l’origine d’Africa è il darabouka percosso da Lucio Caliendo, mentre ad uno ad uno gli altri strumenti si accendono in un crescendo che porta alla repentina variazione ritmica. fino allo sfumare sul finale, letteralmente soffiato via da Conte nell’imitazione del fruscio del vento. 

 

Cambio di postazione e il cantautore astigiano si alza per una balzellante - forse troppo - Ratafià, scandita dal pizzicato del violino e dai battenti sulla marimba sapientemente agitati da Daniele Di Gregorio. Gli occhiali da sole tornano sul viso di Conte per l’esecuzione di Recitando: in piedi davanti al microfono ci ricorda che l'innovazione avviene (anche) profanando. Un battito di mani e Conte stacca sul motivo strumentale eseguito all'unisono dagli strumentisti, conferendogli un’assoluta intensità; la sua voce, che tanto i critici amano definire “ruggine”, suona in questo brano limpida come mai. Stessa voce che, per la successiva Uomo Camion, si sporca e distorce sostituendosi al kazoo. A proposito di strumenti imitati e che imitano, è il sassofono con la sua parlata grassa il protagonista del botta e risposta growl nella successiva La Frase.

Ed eccoci quindi al brano che chiude il primo tempo, una sublime Dal loggione eseguita in solo al pianoforte: impossibile non immedesimarsi e perdersi nell’atmosfera più intima del Teatro.  

 

Dopo l’intervallo il tono cambia radicalmente, la riflessione cede spazio all’esecuzione e i musicisti si esprimono con assoli coinvolgenti, trascinando il pubblico (tutto il pubblico, anche chi non se l’aspettava) in un entusiasmante, ma composto, turbine musicale.

Chi non immaginava che la rumba fosse solo un’allegria del tango, può accorgersene grazie ad un’esplosiva Dancing e all’infuocato assolo di sax di Luca Velotti; chi conosce Gioco d’Azzardo può riscoprirne la sensualità grazie agli intrecci melodici tra voce, violino e flauto e all’assolo di sax baritono di Massimo Pitzianti in chiusura.

Arriva quindi il momento di un altro classico imprescindibile, Gli Impermeabili, arricchito dall’assolo di sax contralto di Claudio Chiara; poi, come da tradizione, Conte è in piedi per Madeleine prima del brano che tutti attendono, Via con me. Parte il consueto accompagnamento del pubblico che prova a battere le mani a tempo, ma...No, alla Scala non si può (sarà Conte a chiedere, nel bis, con il solito cenno del capo, la partecipazione del pubblico: allora tutti si sentiranno legittimati). L’arrangiamento ormai classico del violino pizzicato che punteggia il brano è stupendo quando resta solo col bandoneon e alcune note di pianoforte.

Non resta che il perpetuo crescendo di Max, prima del ritmo febbrile di Diavolo Rosso, su cui i musicisti sono davvero chiamati a dannarsi le dita. La sezione ritmica pedala ossessivamente per la durata dell’intero brano, incalzata dagli accenti del rullante e da un irriducibile Daniele dall’Omo, come sempre osannato alla fine del brano. Su questa carreggiata sicura e senza ostacoli fluiscono gli assoli indiavolati e ipnotici di Luca Velotti al clarinetto, Massimo Pitzianti alla fisarmonica e Piergiorgio Rosso al violino. Un autentico godimento.

Le chic et le charme ripristina la quiete e chiude il concerto.

 

Quando le tende si riaprono per i bis, sono tre coriste ad attendere il pubblico per intonare Il Maestro, una singolare e insolita dichiarazione d’amore alla musica, all’orchestra, al teatro. Arriva quindi il finale consueto, Via con me in versione leggermente più allegra; poi gli inchini, i ringraziamenti, le tende che si chiudono e si riaprono l’ultima volta su Paolo Conte che, solo, ringrazia e taglia corto, uscendo definitivamente di scena.

Chi aveva dubbi sull'opportunità di questo evento, probabilmente si è dovuto ricredere; per chi non ne aveva, è stata un'occasione unica di vivere la pienezza di una performance musicale.

 

FORMAZIONE

Paolo Conte

Nunzio Barbieri: Chitarra e Chitarra Elettrica
Lucio Caliendo: Oboe, Fagotto, Percussioni e Tastiere
Claudio Chiara: Sax Contralto, Sax Tenore, Sax Baritono, Flauto, Fisarmonica, Basso e Tastiere
Daniele Dall’Omo: Chitarre
Daniele Di Gregorio: Batteria, Percussioni, Marimba e Piano
Luca Enipeo: Chitarre
Francesca Gosio: Violoncello
Massimo Pitzianti: Fisarmonica, Bandoneon, Clarinetto, Sax Baritono, Piano e Tastiere
Piergiorgio Rosso: Violino
Jino Touche: Contrabbasso, Basso elettrico e Chitarra Elettrica
Luca Velotti: Sax Soprano, Sax Tenore, Sax Contralto, Sax Baritono e Clarinetto

 

SCALETTA

Aguaplano
Sotto le stelle del jazz
Come di
Alle prese con una verde milonga
Ratafià
Recitando
Uomo camion
La frase
Dal loggione

 

Dancing
Gioco d’azzardo
Gli impermeabili
Madeleine
Via con me
Max
Diavolo rosso
Le chic et le charme

 

Il maestro
Via con Me

 

 

Pubblicato in Cantautori

Ieri, oggi, domani

Jazzascona 2012

 

 

Jazzascona 2012

 

www.jazzascona.ch

Ascona, 28 e 29 giugno
Cannobio, 2 luglio

 

 

Continuando il mio viaggio in quella multiforme e variegata sarabanda del Festival di Ascona (Jazzascona 2012), ho trovato conferme e novità, senatori ed emergenti, vecchie garanzie e nomi finora sconosciuti, da tenere sott’occhio, buoni da ascoltare di nuovo, alla prima occasione.

Va da sé che ciò che descrivo è solo una parte di un ben più ampio scenario: con molti concerti ogni giorno in contemporanea, nessuno è in grado di vedere tutto il festival, e ognuno ha un suo festival da ricordare. Dovrò glissare quindi su una pletora di concerti magnifici e/o importanti, dalle Sorelle Martinetti/Orchestra Maniscalchi a Nina Attal, da Till Bronner ad Irma Thomas e tanti altri ancora: bisogna fare delle scelte. Definitivamente ottimo il quintetto dal nome programmatico Old Fashioned della pianista-cantante Silvia Manco, con una delle mie sezioni ritmiche italiane preferite (Giorgio Rosciglione al contrabbasso e Gegè Munari alla batteria) e con un giovane trombonista – se non erro boliviano - Humberto Amesquita ed una vecchia conoscenza degli strumenti ad ancia (qui al sax tenore e clarinetto), Luca Velotti, - anzi, come lo presenta il suo datore di lavoro Paolo Conte, "Sir Luca Velotti". Grande swing e divertimento a piene mani, sia che fossero stra-classici (It don’t mean a thing, Speak low) o pezzi meno conosciuti (Substitute di Jelly Roll Morton o No moon at all).

Sorpresa dell’anno, ricordo che il sottotitolo del festival era Sophisticated lady/La città delle donne, la bravissima trombettista e cantante canadese Bria Skomberg, vista in azione con un gruppo di vecchi frequentatori di Jazzascona (Paolo Alderighi al piano, Nicki Parrott al contrabbasso e alla voce, Warren Vachè (nientemeno!) alla cornetta ed un batterista straordinario Guillaume Nouaux) alle prese con un repertorio sufficientemente variegato e accattivante, da cose più prevedibili (la versione di Fever a cura della Parrott) ad altre più filologiche (lo strumentale Trio di Erroll Garner, Alderighi naturalmente sugli scudi – non mi stupisce, conoscendolo, e so benissimo che il giovane pianista milanese è uno dei nostri jazzisti da esportazione più richiesti , un set davvero eccitante!

Già presente l’anno scorso, il trombettista Jon Faddis (uno dei personaggi centrali del jazz planetario) si è esibito con la Stanford University Jazz Orchestra (un’orchestra di giovani) diretta dal trombettista Frederick Berry: detto che Faddis è davvero notevole in quello che è il punto debole o spina nel fianco di tutti i trombettisti – il registro acuto ed i sovracuti – ed ha improvvisato e svolto temi da par suo, bisogna ammirare il lavoro dell’orchestra, in cui si sono distinti alcuni elementi come la baritonista Sophie Miller ed il trombettista Graham Davis (un destino nel cognome!). Complimenti a tutti, in primis a Berry che ha orchestrato e diretto con sensibilità ed intelligenza, producendosi anch’egli come trombettista (di rango) in Manteca. Una segnalazione per la bravissima cantante Emma Pask, alle prese con un repertorio classico ed accompagnata da The Australians, di cui avevo già scritto da queste colonne: ha swing e personalità.

Altra grandissima amica del festival, Lillian Bouttè, cantante neworleansina di stanza in germania, un nome una garanzia, con una band precisa per lei (Gumbo Zaire) ed un ospite di riguardo, il tenorista Pee Wee Ellis, che forse molti di voi ricorderanno alla corte di James Brown o con Maceo Parker. Ho potuto vivere grandi momenti come la A-tisket a-tasket, con duetto tra voce e sax od un calypso strumentale tutto a cura di Ellis con grande spazio per il coro del pubblico: mi aspettavo St Thomas da un momento all’altro, invece ecco Caravan, poi tema iniziale e fine brano. Un buon gruppo, ottimi i momenti di interplay tra i due giganti. Ancora musica nella notte – ne dubitavate? – con la jam session all’Hotel Tamaro, con tanti giovani e bravissimi musicisti e musiciste (le Lady 4et di Rhoda Scott), in compagnia di maestri e vecchie volpi come il pianista/cantante David Paquette, il violinista/cantante George Washingmachine, Alderighi e lo stesso Ellis….chi non ha mai visto una di queste sedute ha davvero perso qualcosa di straordinario!!

Congedo e uscita in stile dal festival il 2 Luglio a Cannobio (VB) Italia , sotto un cielo minaccioso, che fortunatamente ci ha graziato da un ingiusto temporale ed acquazzone.

Così, nel meraviglioso scenario della piazza dell’imbarcadero (ed in uno slargo del lungolago, poco distante), con tanto di luna piena che spandeva i suoi raggi sul lago, si sono esibiti tre gruppi: apre le danze la Regeneration Brass Band, con tanto di ballerina-coreografa. Ci regalano alcuni brani, fra cui When you’re smiling, Mardì gras in New Orleans e sull’in-cipit di Dinah prendono a muovere verso l’altra parte di Cannobio.

Prende il palco il quartetto del cantante pianista Larry Franco, che, completato da Anna Korbinska al sax alto, Antonella Mazza al contrabbasso ed Enzo Lanza alla batteria, si produce in una serie di brani dal progetto del 2006 dal nome import/export, cioè standards dal songbook americano uniti in medley (per affinità strutturali) a brani della tradizione swing italiana.Un esempio potrebbe essere costituito dalle celeberrime Besame mucho ed Estate. Molto divertente e tutti davvero notevoli. All’intervallo mi godo un po’ del fantastico gruppo di choro (musica brasiliana primigenia) Creole Clarinets E Trio Perigoso, frutto di una ricerca e collaborazione tra il clarinettista/sassofonista Thomas L’Etienne (altro protagonista di molte scorse edizioni) ed un collega sassofonista tedesco Uli Wunner ed il giovane trio brasiliano (pandeiro, cavaquino e chitarra classica 7 corde): davvero ottimo. Quasi in chiusura, ancora sul palco vicino all’imbarcadero, jam session finale, al quartetto di Franco si unisce tutta la Regeneration (When the saints) ed infine anche L’Etienne (Basin Street Blues), difficile immaginare un finale migliore! Mi piace vedere che anche due comuni italiani (Stresa e Cannobio) hanno contribuito alla festa. Arrivederci al 2013.

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Leggi la prima parte del reportage di Marco Valugani

Pubblicato in Jazz

 «Sono livornese, anarchico e comunista»

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Piero Ciampi - Storie di musica

Per viatico chiese un fiore e un bicchiere di vino fresco. Poi vide i fianchi dell'infermiera sparire rotondi oltre la corsia, e finalmente scivolò nel nulla. Sorridendo di sollievo, come mai gli aveva concesso la vita. Furono pochi i giornali che annunciarono la morte di Piero Ciampi, in quel diaccio gennaio del 1980 che lui coronò il sogno di un'esistenza «tutta passata a morire, ad ogni cosa che faccio». Parlarono invece i poeti: «Cantò la normale stranezza della realtà - lo descrisse Maurizio Cucchi - con voce così poco canora che non potevi fare a meno di considerarla viva e parlante». Gino Paoli fece eco: «Mi ricordava Vian, Bianciardi e Céline, visse come scriveva: iroso, acre, tenero, assurdo». «Preferiva alla rabbia il litigio, alla provocazione la bagarre», disse Paolo Conte. E Carmelo Bene, compagno di litigiose partite a dama, ringhiò: «Scompare, al solito, una delle rare persone eccezionali che abbiamo, e ci si accorge di lui troppo tardi».

Fu l'epitaffio più sferzante, quello che Ciampi avrebbe prescelto come il più consentaneo alla sua anima buona e rissosa. Sarebbe stato il più dolce degli epicedi, per la sua boria indifesa e per la sua anima fragile, rafforzata dalle zuffe. «Di mestiere farò il poeta, ma se va male lavorerò in porto dove i cazzotti non mancano mai», confidava ai parenti, ancora bambino.

Ché furono, i cazzotti, un suo modo di far poesia, insieme al vino e agli amori: pochi, allegri e devastati dall'incuria e dal malanimo, come in fondo fu tutta la sua esistenza. Imparò a fare a pugni fin dall'infanzia, figlio d'un venditore di perle e d'una madre morta giovane, che gli aprì nel cuore una ferita perpetua. Un giorno, con un fratello, diede fuoco alla casa paterna: per allegria, per sfregio o per vedere l'effetto che fa. Studiò di contraggenio, come s'addice alle menti profonde, ebbe amici rissosi come lui e, diplomatosi, emigrò a Milano per compiacere il padre, che lo voleva ingegnere. Ma Milano era euforica, torbida e senza mare, lui era un pirata, abituato al maestrale e al salino. Era un rock'n'roll di cantieri e motori, lui misurava il tempo di vivere sui ritmi lunghi delle onde. Così se ne tornò a Livorno e alle sue asprezze, ché «noi livornesi - diceva, orgoglioso - siamo toscani come gli altri, solo più antipatici».

Si guadagnò da vivere vendendo lubrificanti, e da sopravvivere scrivendo poesie come questa: Ho visto/ un cuore/ giacere rossastro/ sulla strada/ e un gatto/ mangiarlo/ tra gente/ indifferente. Nel '55, compiuti i ventun anni, andò al Car di Pesaro, in servizio di leva. Tra le reclute c'era Gianfranco Reverberi: musicista, baffi guasconi, risata pronta. All'attesa per le assegnazioni, Gianfranco sentì «una voce da menefreghista - disse - che articolava un blues», la raggiunse, si presentò e i due furono subito amici. Misero su un complessino, tennero banco nelle balere fino a ferma conclusa. Ciampi scriveva canzoni sui tovaglioli delle osterie, Reverberi ne lesse alcune e disse: «Strane come sono, piacerebbero in Francia». E Ciampi partì per Parigi.

Portò con sé una camicia, la chitarra e il biglietto d'andata. Sul passaporto pretese che scrivessero: Ciampi Pietro, Livorno 20 settembre 1934, professione poeta. Visse due anni tra ammezzati, conventi e cantine. A mezzogiorno sfilava dai frati per un piatto di brodo, al pomeriggio faceva la questua in Boulevard Saint Germain, la sera cantava nei bistrot, tre locali ogni sera, la ruggine in gola e uno pesudonimo, Piero Litaliano, che i francesi pronunciavano tronco, Litalianò. In un bar del quartiere latino un uomo magrissimo lo ascoltò e poi lo invitò al suo tavolo. Aveva la voce impastata nel cognac ed era Louis-Ferdinand Céline, ormai vicino a morire. Trovò nel livornese allampanato un altro se stesso, gli insegnò il mestiere sottile dell'autodistruggersi, che è un modo di vivere senza il peso di esistere.

Gli amori francesi di Ciampi furono brevi come fiati di vento: brevi, veementi. Gli chiesi, anni dopo, se ne avesse mai avuto uno felice, che dai suoi versi non si sarebbe detto. «Un paio, ma così corti», rispose brusco. E accennò alla strofa, famosissima, che in una sera parigina gli aveva bofonchiato Céline, appunto: Plasir d'amour ne dure qu'un moment/ chagrin d'amour dure toute le vie. Gli domandai come fosse, Céline. «Aveva una voce d'agonia e un sarcasmo da ciclope, non capii mai se, sotto sotto, amasse più la vita o la morte», ricordò, e fu tutto. Mi parve di vederli, il livornese con gli occhi azzurri che gesticolava senza requie, e di fronte a lui il vecchio fragile, arrivato al termine della notte, che ansimava con ironia di morente.

Lasciata la Francia, Piero Litalianò vagò tra Inghilterra, Spagna e Irlanda. Seguiva una sua geografia sbilenca, fondata su un atlante arbitrario: la Calabria è un'isola, diceva, l'Irlanda è un paradiso e l'America non esiste più. Quando non trovava dove esibirsi faceva la fame, ma senza rancore: d'altronde «un poeta - spiegava - può andare a cena soltanto sulle stelle». Proponeva canzoni piene di tenerezza furtiva e d'esplicita rabbia, spiegando che cantava «per non ammazzare», e dicendosi «sempre incazzato per tre buoni motivi: sono livornese, anarchico e comunista». Alle sue risicate platee parlava spesso di Livorno, «che è un'isola ma è anche il mondo, e io ne sono il Robinson Crusoe». Infatti ci tornò, senza un soldo come quando l'aveva lasciata, costretto dal rimpianto e dal fatto che all'estero non aveva mai ottenuto, tutte insieme, le quattro cose che più gli premevano: una frittata di cipolle, un bicchiere di vino, un caffé caldo e un taxi alla porta.

A una festa, a Genova, incontrò un'irlandese alta, snella e bionda. Il suo estro di navigante gliela fece apparire bellissima e in lei s'arenò, la ragazza apprezzò, di lui, la faccia ribalda e la timidezza aspra. Si sposarono, ebbero due figli, poi l'irlandese se ne fuggì: Piero l'amava dal pirata che era, lei cercava il tepore della stabilità. La rincorse in America, non la trovò perché l'America non è Livorno, è un universo dai confini impossibili, dove c'è tutto e nulla. Così si risposò, ma con l'alcol: che non tradisce, alla pari d'un amore s'infiltra nel sangue e pian piano ti consuma. Pochissimi da allora lo videro sobrio. Diceva: «In tutto quello che faccio c'è un po' di morte».

Visse tra Roma e Livorno con quello squarcio nell'animo. Gino Paoli lo impose alla Rca, gli procurarono un contratto e una casa, lui firmò, prese i soldi e sparì. Fece dischi con etichette rionali, firmandosi ora Piero Litaliano, ora Ramsete, poi col suo nome e cognome, e ogni volta con lo stesso insuccesso. Sul palco arrivava quasi sempre ubriaco, dimenticandosi i testi e reinventandoli all'impronta, con la logica storta e la coerenza bambina del poeta che credeva di essere, e probabilmente non fu. Del valore dei soldi non ebbe mai cognizione, gli piaceva la fama ma mal sopportava le telecamere: «Se vogliono riprendermi paghino - diceva -, sono ricchi, questi signori della tivù: portano mocassini da diecimila lire». Cantanti e cantautori? Se ne sentiva disamato, li chiamava "pezzi di merda" e preferiva frequentare pittori e scrittori: Bevilacqua, Turcato, Schifano, Carmelo Bene. E tuttavia Paoli gli incise vari brani, Aznavour lo volle al suo fianco in tivù, altre sue cose le interpretarono Gigliola Cinquetti, Connie Francis, Milly, Nicola di Bari, Morandi. E Nada la livornese, stregata da quel suo sguardo «dolce, triste, profondo: lo sguardo d'un bambino che sa ma non sa come fare». Ché piaceva, in fondo, l'impudicizia del suo mettersi a nudo, la voglia di autoritrarsi in pagine come questa: Ha tutte le carte in regola/ per essere un artista/ ha un carattere malinconico/ beve come un irlandese...

Trascorse così vent'anni: tribolando e divertendosi tra lucidissime sbronze, prestiti mai restituiti, contratti disattesi, parchi successi, turbolenti concerti, amicizie e inimicizie egualmente riottose. E per vent'anni, sorso dopo sorso, preparò la sua fine, aspettando che il fegato gli si spappolasse nell'alcol: invece il destino gli giocò l'ultima beffa, uccidendolo di cancro alla gola. Un ospedale romano gli fu ultima casa e ultima spiaggia, finché se ne andò come in una pagina del suo Céline, l'ultima di Voyage au bout de la nuit: «È crollato, tranquillo, tra enormi sospiri. Ha dormito. Che non se ne parli più». Gli restò, sul viso, un sorriso di pace, come mai la vita gli aveva concesso. Non fu difficile, trasferirlo dal letto alla bara: il male aveva reso il suo corpo sottile come una vela, tanto che sotto il lenzuolo - fu detto - rimaneva soltanto la sua intelligenza. Quando gli portarono il vino del commiato e il fiore della tregua, cadde nel sopore della buona morte. Tra i poeti, veri, che gli dissero addio, l'epicedio più bello glielo dedicò Francesco De Gregori: «Nella noiosa foresta della Gente Muta, le sue canzoni sono i sassolini che ci portano alla spianata da cui, con un po' di buona sorte, puoi vedere un pezzetto di luna».

Pubblicato in Storie di musica

Varese ospiterà Paolo Conte per un doppio appuntamento i giorni 1 e 2 ottobre. La prima serata vedrà  il cantautore astigiano esibirsi in concerto per il decennale del teatro Apollonio; il giorno succesivo Conte riceverà il premio “Le parole della musica”, riconoscimento assegnato dal Premio Chiara, in collaborazione con il Premio Tenco.

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