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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Martedì Dicembre 10, 2024
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Marco Signorelli

Marco Signorelli

Marco Signorelli nasce alla periferia di Milano una domenica del 1981. Dopo un'infanzia musicale più che comune è colpito da una folgorazione punk-grunge in età adolescenziale, la rivoluzione culturale che cambia per sembre il suo modo di intendere le sette note. Le porte della percezione sono ormai aperte e la vita diventa una scoperta continua: amori, infatuazioni, delusioni e passioni che consumano l'anima. Dai Nirvana ai Pink Floyd, dai Doors ai Beatles, dai Queen ai Led Zeppelin. Tutto ciò che è stato rilevante nella storia della musica lo è anche per Marco, con una menzione d'onore per il quartetto di Liverpool e i gruppi progressive anni 70. Nel frattempo, tra un cd dei Dire Straits e una strimpellata, studia, si laurea, e diventa giornalista professionista.
Ama le performance dal vivo, la spontaneità artistica e il vinile.

Mercoledì, 13 Luglio 2011 16:03

Ringo Starr: back in Milan

Ringo Starr

www.ringostarr.com

Luogo: Arena civica, Milano
Data: 3 luglio 2011
Evento: Milano Jazzin Festival 2011
Voto: 8


Mi aspettavo molta più gente, ma devo comunque farmi largo con i gomiti tra i presenti. Sono affannato, ma arrivo appena in tempo, davanti a me solo un paio di persone, e Paul McCartney che appare all'improvviso e arriva a passo rapido. Non si fermerà neanche un attimo, forse il tempo di un saluto, poi se ne andrà. Mi sfila davanti, riesco ad affossare chi mi precede, allungo una mano e riesco a stringere la sua e a farfugliare qualcosa, poi sono costretto a mollare la presa. Paul si imbarca su un aereo privato, decolla, e io mi sveglio. Eh sì, purtroppo non ho avuto un incontro ravvicinato con Sir McCartney, bensì quanto appena raccontato altro non è che un sogno fatto poche ore dopo avere assistito al concerto di Milano di Ringo Starr e la sua “All Starr Band”, evidentemente sono un po' suggestionabile, ma perdonatemi, non capita tutti i giorni di trovarsi davanti un membro dei Beatles, e la circostanza straordinaria deve avere un po' scosso il mio subconscio.

Risvolti onirici a parte, ho comunque il dovere, e il piacere, di recensire l'evento, già di per sé straordinario, se pensate che Ringo non suonava a Milano dal leggendario pomeriggio del Vigorelli del 1965. Questa volta il palco è quello dell'Arena civica, e la data è inserita nel programma del Milano Jazzin Festival 2011. Sarebbe scontato e sbrigativo dire che il pubblico è eterogeneo, ma di fatto la platea è molto variegata, sebbene ragazzini e settantenni indossino le stesse magliette dei 'Fab' e nonostante negli occhi dei più anziani a volte la nostalgia rubi il posto alla meraviglia.

Non voglio dilungarmi troppo sulla presentazione dei musicisti, tra i quali merita però una citazione Edgar Winter, polistrumentista fratello del più famoso chitarrista Johnny. Oltre a lui sul palco ci sono Richard Page, bassista ed ex leader dei Mr. Mister (band degli anni 80 conosciuta in Italia soprattutto per i singoli Kyrie e Broken Wings), il chitarrista Rick Derringer (la sua Hang on Sloopy nel 1965 fu scalzata dalla testa della hit parade americana proprio da Yesterday...), Gary Wright, pianista che, tra gli altri, ha collaborato anche con George Harrison, il secondo chitarrista Wally Palmar e il batterista Gregg Bissonette.

Ringo non si fa attendere, e dopo una breve introduzione strumentale fa la sua apparizione, con gli immancabili indici e medi alzati in segno di pace e amore. Afferra il microfono e inizia a cantare It don't come easy, a pochi metri da lui la festa è già cominciata, molti hanno abbandonato le seggioline per accalcarsi dietro le transenne, gli addetti alla sicurezza tentano di farli (di farci) arretrare, e quasi ci riescono, poi Palmar fa un cenno: ci vuole vicino, e ovviamente tutti accolgono il suo appello, con buona pace della security. Il secondo brano è Honey Don't, da Beatles for sale, poi Ringo si accomoda dietro alla sua batteria Ludwig dotata di grande stella sulla gran cassa, e lascia spazio ai colleghi. Il primo a esibirsi e Derringer, con la già citata Hang on Sloopy, poi tocca a Palmar con Talking in Your Sleep dei Romantics, dopodiché si vive il primo momento di euforia collettiva: “Ora un pezzo che un tempo suonavo con un'altra band...”, battuta di Ringo che precede I Wanna Be Your Man.

Canta, agita le sue bacchette e scuote la testa, come fa ormai più di sessant'anni, anche se coadiuvato da Bissonette alla sua sinistra. Un po' di gloria per Wright e Page, poi uno degli ex ragazzi che scioccarono il mondo propone un brano dal suo ultimo album, The Other Side Of Liverpool, altra premessa a una nuova esplosione di entusiasmo: “Se non conoscete
la prossima canzone forse avete sbagliato concerto
”, ma esistono poche persone che non abbiamo mai canticchiato “In the town where I was born...”, e di certo nessuna di queste potrebbe trovarsi per errore in mezzo ad altre migliaia che fanno il controcanto all'unisono, d'altra parte John, Paul e George non ci sono, e qualcuno deve pur sostituirli. Proprio in questo momento mi rendo conto che un signore, un paio di file davanti a me, a occhio e croce coetaneo di Sir Starkey, ha con sé la sua collezione di vinili, e sta sollevando la sua copia di Yellow Submarine, nota di colore fra centinaia di mani alzate.

Tra un'esibizione e l'altra arriva il turno di Back Off Boogaloo, ancora dal repertorio solista del protagonista della serata, poi Derringer fa sfoggio delle sue capacità chitarristiche per una decina di minuti: scale e tecniche varie, senza un vero filo logico, diciamo un riempitivo per far tirare il fiato agli altri e allungare un po' lo show. Non che il signore in questione non sia all'altezza, ma davvero niente di originale. E' lo stesso Ringo a ironizzare non appena si spegne l'ultima nota: “Ero talmente eccitato da questo assolo che mi ero dimenticato di essere il prossimo...”. Anche questa canzone arriva dal passato, ma addirittura dal periodo pre Beatles, nonostante sia entrata poi nella storia grazie a loro: Boys, che l'allora giovanissimo batterista cresciuto nel quartiere irlandese di Liverpool cantava e suonava già con Rory Storm and the Hurricanes. Chiudendo gli occhi, con uno sforzo di immaginazione, si può davvero sognare di essere al Cavern, e poco importa che ogni tanto le zanzare milanesi riportino alla realtà.

La fine si avvicina, ma le emozioni non sono terminate. C'è tempo per Photograph, scritta a due mani con George Harrison, Act Naturally, e poi, quando chiede “un aiuto” al pubblico, tutti capiscono, gli applausi coprono ogni altro suono, e gli altri membri della band non possono che urlare nei microfoni il nome che tutti aspettano di sentire: Billy Shears. With a Little Help From my Friends (con una copertina di Sgt Peppers che si alza subito davanti a me) è il penultimo atto, poiché il sipario cala solo dopo un piccolo omaggio a John Lennon: Give Peace a Chance. Solo il ritornello, niente di più, ma l'idea è gradita alla folla, che chiede invano un bis che non ci sarà e si rassegna a vedere scomparire Ringo dietro le quinte.

Poco meno di due ore, durata accettabile per uno spettacolo più che dignitoso. Inutile dire che in molti sono accorsi più per poter dire di avere visto un “Beatle” ancora vivo che perché innamorati delle doti dell'artista in questione, ma alla fine di tutto non si può che esprimere un giudizio molto positivo su un musicista che porta egregiamente i suoi 71 anni (lui che non ha mai finto di volersi ritirare a meno di sessant'anni...), snello come un adolescente, con la voglia di ridere e saltellare ancora su un palco, lui, che ha saputo prima convivere con le personalità smisurate dei suoi tre compagni di viaggio (e a farsi volere bene da tutti loro, restando al di fuori dei conflitti interni al gruppo), e che poi è riuscito a invecchiare meglio di molti altri, senza neanche abusare del chirurgo estetico.

Il vero “Quiet Beatle” è sempre stato lui, poche parole, pochi gesti plateali, capacità non certo fenomenali, ma sempre all'altezza della situazione, il tutto condito da un sense of humorn che gli ha permesso di superare momenti difficili e di potersi presentarsi oggi su un palco senza suscitare quella compassione che a volte purtroppo si avverte quando certe leggende “stagionate” imbracciano i loro strumenti sotto i riflettori. “The love you take is equal to the love you make”, e la musica ha già restituito a Ringo Starr un posto fra gli immortali.

Peace & Love: questa recensione lui la finirebbe così, e non me la sento di deluderlo.

DEEP PURPLE

www.deeppurple.com

Luogo: Arena Concerti, Rho (MI)
Data: 30 agosto 2009
Evento: I-Day Milano Urban Festival
Voto: 7

Ti aspetti gli Oasis e spuntano i Deep Purple. Il paragone, per genere e prestigio, sembra improponibile, ma quando Noel e Liam hanno deciso di anteporre le loro scaramucce familiari ai doveri deontologici, tra cui il rispetto per il pubblico pagante, gli organizzatori del primo Milano Urban Festival, hanno pensato proprio a Ian Gillan e compagni. E’ un po’ come se Robert De Niro prendesse il posto di Scamarcio in Tre metri sopra il cielo, la pellicola guadagnerebbe in spessore, ma molte adolescenti resterebbero sicuramente deluse.

Ricostruiamo i fatti. I fratelli Gallagher litigano per l’ennesima volta, e Noel decide di lasciare il gruppo, facendo saltare le date conclusive del tour degli Oasis, che prevedeva ancora tre concerti: Parigi, Costanza e Milano.
La società “Indipendente”, che ha puntato sulla band di Manchester come nome di richiamo per il suo “I-Day”, si affretta a precisare che nessuno sarà rimborsato, e che la presenza degli altri gruppi è confermata (per la cronaca The Hacienda, Expatriate, Twisted Wheel, Kasabian e The Kooks).
Tra lo sconcerto e la rabbia dei fan, arriva la notizia che a salire sul palco al posto dei fratellini litigiosi saranno i Deep Purple.
Qualcuno ha il coraggio di non presentarsi, altri addirittura scoprono il cambio di programma solo davanti ai cancelli, e svendono il proprio biglietto a prezzi ridicoli. I più saggi fanno buon viso a cattivo gioco, e pur essendo partiti da casa con l’idea di assistere a una rassegna di musica pop, colgono l’occasione di vedere all’opera i grandi vecchi dell’hard rock britannico, che chiuderanno la serata.

Tralasciamo per ragioni di spazio tutto ciò che è avvenuto prima, e concentriamoci sui Deep Purple.
Sobri negli abiti e nei modi, com’è nel loro carattere, i cinque veterani si presentano puntualmente alle 22,30 davanti a un pubblico scremato di coloro che al viaggio nella storia della musica preferiscono quello verso casa. Peggio per loro, perché già dalle prime note di Highway Star, che inaugura la performance, si capisce che hanno fatto la scelta sbagliata.


Il coro “Deep Purple!” si alza per la prima volta dalla folla, che rapidamente si raggruppa sotto il palco infondendo calore all’ultrasessantenne Gillan, che dopo i primi acuti di assestamento mette in mostra una voce ancora invidiabile. I virtuosismi dei tempi d’oro non ci sono più, ma il tono è ancora sicuro, preciso, e l’entusiasmo con cui coinvolge gli spettatori tanto. Da apprezzare la grinta con cui sfida l’età saltellando sul palco.
Alla sua destra si muove come sempre con disinvoltura Roger Glover al basso, così come Ian Paice alla batteria, presenza meno visibile ma fondamentale.
I classici ci sono tutti o quasi, manca Child in Time, ma forse sarebbe chiedere troppo. Tra Strange Kind of a Woman e Smoke on the Water ci sono attimi di gloria personale regalata ai “nuovi”: Steve Morse, che ha raccolto il testimone di Ritchie Blackmore tredici anni fa, e Don Airey, che ha il compito arduo di non far rimpiangere Jon Lord alle tastiere. In effetti non ci riesce, fa il suo, ma i suoi intermezzi a volte sono troppo ironici per i puristi (passi il Nessun dorma, ma la pantera rosa proprio no…), certe atmosfere sacrali non possono essere profanate con la pura esibizione di stile fine a se stessa, a volte è sufficiente l’ordinaria amministrazione. Simpatico, ma niente di più, il duello di assoli con Morse.
Immancabile la finta chiusura per ottenere l’acclamazione del pubblico, che viene accontentato con i due brani finali: Hush e Black Night, che richiedono il sostegno vocale di tutti i presenti.

Dopo un’ora e mezzo la band ringrazia, saluta e se ne va, lasciandosi alle spalle una lezione di musica, e di stile. Chiamati all’ultimo minuto sono riusciti ad allestire uno spettacolo di tutto rispetto, senza eccessi, senza spunti memorabili, ma più che dignitoso, hanno dato al pubblico ciò che il pubblico voleva, ed è già tanto. Grazie ai Deep Purple, e grazie agli Oasis.

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