L’attraversamento della frontiera della beatlemania, la fine delle concessioni al pubblico isterismo, una nuova colonna sonora e un’opera credibile a livello artistico: svariati sono i traguardi che il quinto disco dei Fab si propone arrivando alle stampe nell’agosto del 1965. E bisogna dire che la title track, piazzata in apertura, mette subito sulla buona strada. Lennon racconta la spossatezza di anni vissuti in adorazione planetaria, di insicurezze da celare dietro sorrisi stampati sul volto, persino della voglia di rifugiarsi nel limbo dell’adolescenza, per non parlare della gabbia dorata che l’imprigiona: “my indipendence seems to vanish in the haze” . Il tutto in due minuti di rock veloce, corale e coinvolgente! Forse il messaggio subliminale sarà passato in secondo piano…Armato di chitarra acustica e cappellaccio à-la Dylan, Lennon prova a ribadire il concetto due solchi più tardi, con “You’ve got to hide your love away”, ballata minimalista tanto sconsolata quanto piacevole, che introduce ufficialmente la versione cantautoriale del chitarrista. E tutte le patinate certezze dello stardom?
Tocca a McCartney riportare un po’ di leggerezza, e lo fa con due pezzi in particolare: l’egoistica (e del tutto appropriata al tipo) “Another girl”, un pezzo notabile per il cambio di terza nel bridge e il duetto di chitarra solista tra lui e George. Meglio ancora suona “The night before”, forse perché qui è lui che soccombe rispetto all’amata; si registra un insolita ed efficace parte di piano elettrico da parte di Lennon e l’uso massiccio delle armonie vocali “a risposta”.
Che l’entusiasmo e i toni un po’ naif delle prime registrazioni abbiano lasciato il posto ad umori più riflessivi e tenui, è tuttavia palese anche negli episodi
apparentemente di minor spessore, come nella corale “Tell me what you see”, altra introspettiva digressione folk, con un break di piano elettrico a separare le strofe. Oppure in “It’s only love”, pensierosa e incantevole nella grazia della melodia, dove John divaga e indugia ancora sugli spasimi post-adolescenziali, come se il suo status acquisito di re mida del rock mondiale non pretendesse ormai da lui (e dagli altri) contenuti e performance di tutt’altro genere, ma per il momento è ancora bello e possibile, rifugiarsi in rassicuranti ambiti yeh-yeh.
La carta vincente di Paul, inutile a dirsi, è la stra-tutto “Yesterday”, (stra-reinterpretata, stra-idolatrata, stra-sopravvalutata…), per la quale il neo baronetto si veste il faccino d’una maschera afflitta e piange sull’ombra che è diventato mentre lei se ne va, rivestendo la sofferenza di viola, violino e violoncello. Una bella canzone, di fatto la prima registrazione solista in un disco dei Beatles, ma da qui a farne una pietra miliare, povero me. Per quel che mi riguarda trovo più interessante “Ticket to ride”, il primo tentativo dei Fab, forse stimolati da “All day and all of the night” dei Kinks, pubblicata sei mesi prima, di cimentarsi in un riff hard rock con un notevole, moderno lavoro di Ringo alla batteria. Un John leggermente esagerato proclamò subito dopo che la canzone rappresentava il primo esempio in assoluto di heavy metal. Dichiarazione se vogliamo discutibile, tuttavia il passo in avanti è evidente.
Anche la sezione delle seconde linee (leggi Ringo e George) contribuisce materiale d’un qualche interesse. Il cucciolo incide due sue composizioni, le prime da due anni a questa parte. “You like me too much” si segnala per l’atmosfera vagamente retrò suscitata dal pianoforte, suonato a quattro mani da George Martin e Paul; “I need you”, che a differenza della prima fu poi selezionata per la pellicola, è un innocente canto d’amore, leggero come una piuma, che dalla prossima “Think for yourself” pare lontano quattro anni invece che quattro mesi. Per George ancora ampi saranno i margini di miglioramento. Per quanto riguarda il nostro serafico batterista, va sottolineato come “Act naturally” sia un numero allegro e divertente, con un testo decisamente calzante all’indole del “naso” ed al suo ruolo nel film. Trattasi di puro country ad opera di Johnny Russell and Van Morrison, che il pubblico beatlesiano mostrerà di gradire, viste le ripetute proposte dal vivo, con un ottimo controcanto sul finale. L’unica altra cover della raccolta, l’ultima in assoluto presente in un’opera del quartetto, è la scatenata “Dizzy miss lizzy”, di Larry Williams, con John che gode come un riccio a cantare a squarciagola mentre il povero Harrison ripete il riff all’infinito.
Le proposte più mature di “Help!” restano, a parere di chi scrivere, il guardingo bluegrass di “I’ve just seen a face”, ballata mid-tempo di McCartney giocata su tre chitarre e le maracas, e l’entusiasmante “You’re going to lose that girl”, in cui John esprime al meglio la forza e il carisma che ne avevano contraddistinto la figura nei primi tre anni di carriera dei gruppo. E’ la canzone più adatta ad introdurre il “ricambio artistico” della band, che prenderà forma definitiva nelle tre prove successive da studio.
Quasi a rendersi conto dell’eccessivo quantitativo di melassa che gravava su “Red rose speedway”, Mccartney imprime una svolta decisa, a livello stilistico, per il disco successivo, “Band on the run”. Poco prima di iniziare (a Lagos) le registrazioni, Seiwell e McCollough salutano la compagnia, da cui il titolo dell’opera; poco male, anzi meglio, visto che quello che scaturirà dalla trasferta nigeriana si dimostrerà un prodotto assai convincente. Torna il rock, opportunamente, con alcune espressioni notevoli quale “Jet”, uno stomp potente ed orecchiabile che pare scaturito dalla session di “The Mess”. Oppure l’elettrica “1985”, dalla scala discendente reiterata ed ipnotica, e il finale glorificato dall’orchestra, prima di una breve ripresa della title track.
La quale title track ripropone il recente feeling del Macca coi medley, che in questo caso consta di tre parti di cui l’ultima è introdotta da una pulitissima chitarra acustica e propone il cantabile ritornello che regalerà al singolo omonimo il primo posto di Billboard, oltre che una perfida stilettata ai compagni fuggiti (the rabbits on the run...). Tracce di rock prog anche in “Picasso’s last words”, che però la mette sul leggero e celebra la dipartita del grande artista a colpi di swing e slow-jazz; Ginger Baker, proprietario dello studio di registrazione, è della partita agitando le maracas. Le ultime parole di Picasso diventano un refrain dolce e ossessivo che riempie la mente e le orecchie dell’ascoltatore per quasi sei minuti, senza indurre in sonnolenza.
Segno della rinata vitalità della band, che continua a manifestare un minimo accenno di democrazia (i brani sono firmati da Paul e Linda, mentre Danny è coautore di “No words”), è anche l’intrigante semplicità di “Mrs.Vandebilt”, cantilena bucolica sostenuta da un giro di basso elementare, un vorace solo di sax ed asserzioni sagge ed irreprensibili (“What’s the use of worrying? What’s the use of everything? No use!).
Ma se uno è McCartney non potrà mai prescindere dalla melodia in senso stretto. Qui uno si allarma: sdolcinature in vista? Niente paura: le espressioni più soavi e gentili di “Band on the run” sono costantemente eccellenti. Il meglio, come sempre accade, è racchiuso in una canzone pressoché sconosciuta, che stranamente non verrà mai eseguita dal vivo, dal titolo “Mamunia”. Trattasi di gentile ballata per voce, chitarra acustica e cori che racchiude in sé la forza e il fascino dell’ambiente naturale dove era stata registrata. Il testo rientra nei clichè “positivi” del Macca, da “Hey Jude” a seguire, per intenderci, celebrando la pioggia come generatrice di vita e mondatrice di peccati…filosofie a parte, è davvero un buon pezzo, una delle gemme nascoste e inconsiderate che talvolta il baronetto dissemina nei propri album. La parte soft di “Band on the run” propone poi “Bluebird”, per la quale le affinità col capolavoro dell’album bianco non si limitano al titolo. Di “Blackbird”, si riprende il tema dello spiccare il volo, in questo caso con l'amata, prima che l’attimo fuggente faccia marameo. Niente basso e batteria, bensì un leggero tappeto di percussioni e il sassofono confidenziale di Howie Casey (vecchia conoscenza amburghese dei fab four).
Il contributo di Laine, “No words”, portato a termine con un little help dal suo friend Paul, è una dolce, innocente love song, il cui stile, ironicamente, richiama certe atmosfere harrisoniane. E restando di tema di ex, malgrado la smentita dell’autore, è fin troppo evidente che “Let me roll it” rappresenti un omaggio/attacco a John Lennon. Lo stile di chitarra che richiama, per non dire ricalca, le dure distorsioni di “Cold Turkey”, l’uso massiccio dell’eco. Poi non è nostro compito stabilire se fosse più ficcante il livoroso rancore di John o il mellifluo accomodamento di Paul; il pezzo mantiene lo standard elevato della raccolta e tanto basta.
La ristampa in CD presenta anche l’elementare r’n’r di “Helen Wheels”, pubblicata su 45 prima dell’uscita dell’LP. Peraltro, nulla essa toglie o aggiunge ai destini di un lavoro che ottiene un successo meritato, costituito com’è da tracce di notevole fattura. Il livello qualitativo di “Band on the run” riconquistò al Macca il favore di pubblico e critica, lanciando definitivamente la carriera degli Wings.
Il merito principale di "All things must pass", ufficialmente terzo disco solista di George Harrison, ma da lui stesso definito il primo vero suo lavoro, fu quello di svelare al mondo il cristallino talento artistico del suo autore, troppo a lungo mascherato dietro la facciata iridescente del carrozzone-beatles e soffocato dallo smisurato ego della coppia creativa (peraltro già scoppiata da qualche anno) di Lennon e McCartney.
Arrivato al nuovo decennio con un bagaglio irripetibile di sensazioni ed emozioni assortite (vivere da padroni del mondo suscitando isterie di massa), profonde catarsi (l'esperienza indiana), rancori e piccolezze del tutto "terrestri" (l'inferno domestico di Savile Row, le "gelide" sessioni di "Let it be") fino alla scioccante seppur inevitabile separazione, George riempie i solchi di questo lavoro con melodie che puntellano la straordinaria esperienza vissuta senza mai sconfinare nella rabbia, il che non era per nulla scontato o, peggio, nella retorica.
Inevitabilmente, una buona parte delle canzoni aveva visto la luce, almeno a livello embrionale, proprio negli anni in cui nominalmente i quattro formavano ancora un complesso, e le proposte di Harrison venivano quasi sistematicamente cassate dai due boss. E ad un ascoltatore appena imparziale salta subito all'orecchio l'assurdità di scelte di questo genere. Impossibile pensare che un brano sublime come "All things must pass" non raggiungesse il livello del materiale registrato all'epoca del concerto sul tetto. O forse a dar fastidio furono certe parti del testo ("It's not always going to be this grey") che mettevano spietatamente e fastidiosamente la band di fronte alla propria presente nullità ed alla più desolante mancanza di prospettive.
La mafia dei Beatles rifiutava, in quel nefasto 1969, altri episodi eccellenti. "Let it down", ad esempio, con la palesata conflittualità tra il richiamo della carne e quello dello spirito, oppure le quiete, cosmiche considerazioni di "Isn't it a pity", assai toccante, con la semplicissima parte di piano a dominare il tutto, qui proposta in due versioni. Le parole potrebbero essere parimenti dedicate ai compagni piuttosto che al resto dell'universo: "Isn't it a pity, isn't it a shame / How we take each other's love without thinking anymore / Forgetting to give back, now isn't it a pity". Bocciato anche l'inno solenne di "Hear me lord", il tributo gospel che con "My sweet lord" costituisce la parte più sacrale dell'album e di fatto lo chiude, visto che le famose parti 5 e 6 del vinile altro non sono che una scatenata jam session registrata in piena souplesse.
I messaggi che traspaiono da "All things must pass" non riguardano necessariamente, per fortuna, il quartetto ormai alla fine. L'hard rock di "Art of dying", sulla quale George lavorava sin dal 1966, e le questioni annose ed irrisolvibili che sprigiona su reincarnazione, vita e morte sono quanto di più lontano si possa esprimere dalla cosiddetta cultura superficiale del pop. Rappresenta una delle massime vette del disco, così pesante elettrificata e drammatizzata, con parti-monster di Preston e Clapton, e persino un diciottenne Phil Collins alle percussioni.
Il resto del materiale è stato concepito in studio a partire dal maggio 1970. E anche in questo caso, la peculiarità più evidente è l’elevato standard qualitativo. La collaborazione con Dylan, “I’d have you anytime”, apre l’opera con atmosfere soft ed appaganti, tanto più sorprendenti se si considera che i rapporti del cucciolo con i propri riferimenti affettivi, dai Beatles a Patty Boyd, stavano attraversando crisi irreversibili. Di Zimmermann, Harrison propone una versione di “If not for you” davvero struggente, con armonica ed organino natalizio a toccare i cuori dei più sensibili e un middle eight di spettrale bellezza. Delicata anche “From behind that locked door”, che allo stesso Bob è dedicata, uno dei rari, forse l'unico dell'intero suo territorio, sconfinamenti nel country & western, impreziosita dal pedal-steel guitar hero Peter Drake. La parte morbida di "All things must pass" culmina nella eterea "Let it roll", la ballata più quieta e onirica della raccolta, e l'omaggio a sir Frankie Crisp, originario possessore della tenuta harrisoniana di Friar Park, è solo un pretesto per sfogare la mai sopita tendenza del chitarrista alla meditazione e al sogno. "Beware of darkness", infine, riprende i concetti già espressi in "Within you without you", opportunamente senza sitar, bensì con un leggiadro duetto di chitarra e piano a modellare sequenze di accordi complesse ed originali.
Altrettanto eccellenti sono le tracks più energiche. "What is life", un rock grintoso ed il secondo grande successo tratto dall'album, gioca su un riff particolarmente efficace e memorizzabile, al pari dell'altrettanto mossa "Wah wah", con la differenza che la prima è un messaggio d'amore dai destinatari intercambiabili (mistici o terreni che siano), mentre la seconda è l'amara, per quanto movimentata, certificazione della fine dei suoi rapporti con gli ormai ex-compagni, con una certa dose di mortificato vittimismo: " You don't see me crying / you don't hear me sighing...". D'ispirazione inconfondibile è l'esuberanza di "Apple scruffs", con l'uso eccezionale dell'armonica a bocca e del backing vocals: la scanzonata, amabile rappresentazione delle fans che attendevano i quattro in ogni stagione e condizioni meteo fuori dalla porta sprangata della "Apple". Il Gospel-rock di "Awaiting on you all", da parte sua, affronta temi decisamente più scottanti, quali la politicizzazione della Chiesa e la miseria di ogni pseudo-religioso che non sappia semplicemente "chant to the Lord" e "open up his heart". Slide guitar in grande spolvero invece per la opener della side four, "I dig love", che irradia dissolutezza assortita, messaggi in singolare constrasto con l'anima mistico-seriosa del disco.
Spazio a parte per gli ultimi due brani. La stracelebrata "My sweet lord", il più acclamato trionfo internazionale di Harrison ma anche il più diretto ed inequivocabile dialogo dello stesso ex-beatle con un Dio, ("I really want to know you - Really want to go with you / Really want to show you, Lord, that it won't take long, my Lord "), che non facesse questioni di confessione, rendendo così la preghiera fruibile da ogni tipo di credente. La melodia è la più coinvolgente che abbia mai scritto, dall'assolo accattivante al coro, ossessivo ed osannante, il che frutterà anche una chilometrica serie di covers. Del preteso plagio non è questa la sede di questionare. Resta il dubbio che, probabilmente, se il pezzo non avesse avuto l'enorme risonanza dell'epoca, la causa non sarebbe nemmeno stata intentata.
Eppure, a parere di chi scrive, la palma del brano migliore spetta ad una canzone piuttosto dimessa, condotta malinconicamente dalla chitarra e dalla discreta accoppiata pianoforte/tastiera, un episodio celato al termine della facciata due e che risponde al nome di “Run of the mill”. E’ il vero punto centrale dell’intero progetto, a metà tra il congedo definitivo: (“ It's you that decides / Which way will you turn /While feeling that our love's not your concern”), e la dichiarazione di una nuova partenza: “I may decide to get out with your blessing…”. Il fatto è che i distacchi non sono mai indolori, (“Only you’ll arrive at your own made end / With no one but yourself to be offended…”, ed è questa la semplice, ineluttabile constatazione che nulla potrà mai tornare come prima.
L’apple jam che orna i lati 5 e 6 del vinile, senza peraltro originarne un sovrapprezzo, nulla toglie o aggiunge a un’opera invariabilmente toccata dalla grazia, e per potenza emozionale eguagliata soltanto dal contemporaneo “John Lennon/Plastic Ono Band”. Ci vorrà un pò, per il Cucciolo, per raggiungere un livello di questo tipo, ci riuscirà comunque dopo la metà del decennio.
Il sette febbraio 1964, venerdì come ieri, i Bealtes sbarcavano in America, per la prima volta nella loro carriera, accolti a braccia aperte da un mare umano di folla estasiata: due giorni dopo sarebbero stati ospiti del notissimo "Ed Sullivan show".
Al termine della tourneè mondiale del 1976, immortalata nel possente progetto Wings over America, la band si trovò nella stessa situazione di quattro anni prima: ridotti a trio, lo stesso trio che poi avrebbe dato vita a Band on the run. I desaparecidos erano stavolta il batterista Joe English, che a dispetto del suo cognome se ne tornava in America, e McCulloch, che lasciava per unirsi ai Small Faces. I lavori per il disco nuovo erano già iniziati, così Paul, Denny e Linda si spartirono le parti soliste mancanti e materializzarono quest’ultima prova targata Wings. La peculiarità più evidente è la crescita di Denny Laine nel songwriting, il chitarrista è qui coautore di ben cinque pezzi, la quota più alta mai raggiunta tra i solchi delle Ali. Per inciso si tratta, in tutti i casi, d’episodi notevoli.
Si comincia con la title track: i personaggi della City muti, sconosciuti persino a sé stessi, smog e nebbia che ti sommergono dalle casse, direzioni smarrite: messaggio reso squisitamente con un rock sinfonico a tre voci, uno dei punti più alti della raccolta. Laine si piglia anche una voce solista, nella gentile Children children, intrisa di nostalgico country & western (“Children where are you now, Hiding in the forest playing in the rain - I hope not too far away for me to see again"). Segue Deliver your children, il miglior pezzo dell'inedita coppia compositiva. Si tratta di un altro esercizio corale, in minore, nervoso, con scambi fulminei ed assai piacevoli tra strofa e ritornello, che ribadisce in sostanza i concetti del brano quasi omonimo succitato: "Deliver your children to the good good life - give'em peace and shelter and a fork and knife..."
La democratizzazione creativa prevede poi la meditabonda Don’t let it bring you down, curiosa con quella strisciante parte di zufolo che s'integra con la distorta di Denny, in un mix dall'effetto suadente. Infine, la "spaziale" Morse moose and the grey goose, un possente dance-rock definito da quattro accordi chiave di pianoforte, con un cantato quasi rap sul refrain che poi sfocia in ballata sulla strofa. Una canzone che pare stilisticamente la naturale continuazione di 1985, con effetti e feedback a sbiadire sul finale, come da copione.
Gli altri brani sono firmati dal solo Paul, e anche qui c'è materiale di lusso. La proposta più notevole potrebbe essere Famous groupies, che riporta alle atmosfere gloriose di dieci (facciamo tredici) anni prima, con quel pizzico di humour che non stona e spruzzate cacofoniche di slide guitar; oppure il rock urbano, deciso di Cafè on the left bank, o anche quello isterico di I've had enough, che si segnala per la coraggiosa scelta dell’inciso su di una sola nota.
Dieci anni dopo Lady Madonna, ecco un nuovo omaggio ad Elvis, probabilmente meno riuscito, denominato Name and Address. Si lascia assai preferire la lunga sessione pop di WIth a little luck, piacevole e ruffiano esercizio scala classifiche, con coretti cinguettati all'unisono e positività a piene mani.
Naturalmente non manca, non potrebbe, essendo nella sua natura, il Macca più spiccatamente romantico, nel coccoloso accenno barocco di I'm carrying, gentile e remissiva nella sua vena nostalgica e, per fortuna, mai pesante. Anche in London Town c’è, come quasi sempre negli album dei Wings, spazio per un medley. E’ la semi strumentale Backwards traveller/Cuff link, discretamente insapore, a dir la verità, poco più che un debole riempitivo. Il pollice verso è tutto per Girlfriend, pasticciaccio disco, dove i ragazzi giocano alla K.C.& The Sunshine Band ma alla fine se ne escono in una brodaglia annacquata che meglio sarebbe stato fermare a livello di intenzioni (la gireranno l’anno successivo a Michael Jackson che ne tirerà fuori una cosa ascoltabile: a Milano dicono, ofelè, fa el to mistèe). Sono queste ultime tracce a livellare il lavoro verso il basso, seppur non di molto.
London town resta un prodotto forte e variegato, il migliore dai tempi di Band on the run. E l’anno successivo andrà ancora meglio.
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