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Rebetiko: dell'amore, della società

 

Sono storie di disagio e di povertà, la povertà che arricchisce e riscatta lo spirito, da cui fluiscono note che parlano direttamente al cuore, senza intermediari. Sono storie d'amore (non ricambiato) e di società allo sbando. E' in questa condizione che l'uomo, abbandonato a se stesso e senza via d'uscita, trova nell'espressione musicale la valvola di sfogo: la canzone è motivo di aggregazione, la collettività e il sociale si riuniscono attorno al rebetiko, la musica dei "negri greci, aspra come la retzina" - afferma Vinicio Capossela nel film-documentario Indebito - , che con quella afroamericana, con il blues delle origini, ha in comune le tematiche e il bisogno ineluttabile di fantasticare.

E' infatti Capossela ad accompagnarci per i vicoli di una Grecia disastrata dalla crisi attuale, attraverso i luogi dei mangas (i musicisti di rebetko), pizzicando note di vecchie canzoni sul suo baglamas (minuto strumento a sei corde che "non è in grado di suonare"  - confesserà il cantautore durante la cerimonia di inaugurazione del festival).

E che invece Capossela suona e risuona, durante le passeggiate solitarie riprese in Indebito e poi sul palco dell'auditorium FEVI, assieme ai suoi rebetes,  mangas di oggi e compagni di viaggio, galvanizzati dal bouzouki virtuoso di Manolis Pappos.

 

Scelto come film di apertura del festival, Indebito vuole accompagnare il pubblico di Locarno in una riflessione sull’attuale situazione ellenica, un gioco di parole per ricordare come tutta l’Europa abbia in realtà un grandissimo debito, civile e culturale, nei confronti della Grecia, oggi indebitata economicamente nei confronti dell'Europa. Perchè scopo del festival è «unire i popoli - afferma Carlo Chatrian, direttore artistico del Festival - che devono essere trattati come tali e non come numeri».

 

E sicuramente l’obiettivo è stato raggiunto, grazie ad un film che ha coinvolto ed emozionato ed un concerto a seguire che ha ulteriormente rafforzato l’empatia tra il pubblico cosmopolita e i rebetes, dapprima immagine e suono sullo schermo, poi carne e ossa in sala.

 

Partendo dai solchi di un album, Rebetiko Gymnastas (2012), che affonda le sue radici in una ricerca musicale di Capossela di diversi anni fa, il concerto apre sulle note di Misirlou. Canzone popolare incisa per la prima volta nel 1927 da Michalis Patrinos, riportata all’attenzione del grande pubblico grazie al successo di Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1995) di cui è colonna sonora, Misirlou, cantata nell'album da Kaiti Ntali, è una scossa di adrenalina per il pubblico del FEVI che, forse per la prima volta, ascolta quel motivo rivestito dei colori originali del rebetiko.

L’indisciplinata è Atakti (Markos Vamvakaris) con testo di Capossela: sui decisi sapori mediorientali del brano si alternano il greco della versione originale, intonata da Manolis Pappos, e l’italiano della rivisitazione testuale del cantautore.

Operazione simile per il successivo brano di Vamvakaris: ascoltato per caso il tema di Fragosirianis eseguito al pianoforte - correva l’anno 1998 - Capossela decide di farla sua ricavandone Contratto per Karelias.

Meno felice la resa di Primo Ministro (ancora Vamvakaris) su cui viene innestato il testo della blueseggiante Quello che (non) ho di Fabrizio De Andrè. Sarà perchè l’orecchio è troppo  allenato ad ascoltare quelle parole, pronunciate da quella voce, su quella quella musica, sarà per la consapevolezza della cura maniacale con cui De Andrè associava ogni singola sillaba alla sua battuta, ma le strofe in lingua originale e i solo di bouzuki e fisarmonica offrivano in quel contesto un’esperienza acustica decisamente più appagante  della parte in italiano.

E’ con la successiva Il mio rebetiko che, fatti propri gli stilemi del genere, con la padronanza di chi sa esattamente da dove arriva e dove vuole andare a parare, Capossela confeziona un brano irresistibile e perfettamente riuscito. Impossibile per il pubblico non seguire il ritmo col battito di mani.
Ecco quindi un tuffo nel passato con un brano - Scivola vai via -  tratto dal suo primo album: languido e sofferente è intonato per l’occasione dal chitarrista su testo in lingua greca.

 

A chiudere l’esibizione è Billy Bud, canzone presente in Marinai, Profeti e Balene e scelta anche come congedo nell'album Rebetiko Gymnasta. Giocata quasi interamente su un unico accordo ostinato, prende sul finale le sembianze di un canto tribale, cantato in coro da tutti i musicisti ellenici.

 

La forza di questo concerto, che ha seguito un film documentario altrettanto coinvolgente, fa riflettere sul ruolo del musicista nel panorama odierno: in un momento in cui proporre qualcosa di originale senza il rischio di cadere (e scadere) nella banalità più becera è molto alto, l’abilità del musicista potrebbe stare proprio nella ricerca e nella riscoperta: suo il compito di non far dimenticare e rivisitare con consapevolezza. Vinicio Capossela ci ha offerto esattamente questo.

Informazioni aggiuntive

  • Artista Vinicio Capossela
  • Luogo Auditorium FEVI, Locarno (CH)
  • Data Mercoledì, 07 Agosto 2013
  • Evento Lugano Fim Festival
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Diamanda Galas al MiTo di milano

DIAMANDA GALÁS

www.diamandagalas.com

Luogo: Auditorium di Milano
Data: 11 settembre 2011
Evento: MiTo SettembreMusica
Voto: 8


Incedere lento, ombra nell'ombra, l'ingresso in scena di Dimanda Galás è avvolto dal mistero di un ritualità esoterica; l'unico fascio di luce è puntato sul seggiolino del pianoforte a coda al centro del palcoscenico: l'incarnato pallido del suo volto si svela cautamente quando lo attraversa.
Uno sguardo fugace alla platea, le dita affusolate sui tasti e un'onda d'urto inchioda alle sedie gli spettatori, chi stupito, chi scioccato, chi già rapito. La Galás esige un rapporto schietto con il suo pubblico e il primo brano è un biglietto da visita che non lascia dubbi circa le sue potenzialità: acuti sopranili e modulazioni raffinate sono le ali per voli vertiginosi attraverso le quattro ottave della sua estensione (oltre ad essere un buon esercizio per scaldare le corde vocali, destinate nei successivi novanta minuti ad un lavoro arduo).

Le acrobazie vocali di Diamanda Galas si servono di lingue diverse per esprimere al meglio colori e sfumature fonetiche, sfruttando fino in fondo le peculiarità date dalla pronuncia e dal suono di ogni idioma. Poliglotta per via delle origini, sa come piegare al proprio volere (e valorizzare grazie al proprio stile) una struggente canzone popolare spagnola, un chanson française in trequarti, una ballata inglese di successo. Musiche turche, armene e gitane completano la scaletta dello spettacolo "The Refugee", improntato sul tema dell'emarginazione e della discriminazione dei profughi costretti ad abbandonare il proprio Paese.

Il lato più estremo ed oscuro dell'artista greco-americana viene scaraventato addosso alla platea per la prima volta durante il terzo brano, quando vocalizzi agghiaccianti, distorsioni gutturali e dissonanze laceranti svelano tutta l'anima maledetta della Galás più sperimentale. La successiva cover, Amsterdam di Jacques Brel, serve a tamponare lo sbigottimento che sgorga a fiotti tra le poltroncine di velluto rosso: un'interpretazione carica e sentita permette alla cantante di instaurare un rapporto di fiducia con la parte ancora scettica del pubblico, che risponde con un applauso scrosciante.
La suggestione dello spettacolo è supportata e corroborata dal lavoro sottile e ben orchestrato di tecnico luci e fonico, fidi collaboratori di Diamanda Galás. E così prima tutto si tinge di un rosso vivo in cui galleggiano acuti soffocati e strazianti, poi arriva il blu a suggerire un’atmosfera da favola noir, che ha per protagonista il suono effettato di un pianoforte spettrale e inquietanti frasi sussurrate.

Nel mezzo c’è tempo anche per un siparietto scherzoso, quando la Galás, non vedendo esaudita la sua richiesta d’acqua, si alza per recuperarla da sé e, tornata sul palco ancora a mani vuote, accetta le bottiglie offerte dalle prime file col sorriso sulle labbra e un atteggiamento per nulla viziato da divismo o presunzione.

Degna conclusione dello spettacolo, Heaven Have Mercy (successo di Edit Piaff del 1956) è un brano intenso e toccante, che rende gli spettatori ancora più affamati del rituale bis. Ve ne saranno due prima che Diamanda Galás lasci il palco tra il fragore degli applausi di un pubblico soddisfatto e arricchito.

di Martina Bernareggi

Leggi la monografia di Diamanda Galás

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