IVANO FOSSATILuogo: Teatro Strehler, Milano
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C’è un’intrigante schizofrenia, quasi un gradito ossimoro quando il congedo d’un grande artista assomiglia piuttosto a un ritrovarsi, la melanconia di un addio svela la speranza d’un arrivederci e così è stato nel concerto ultimo di Ivano Fossati, che nel teatro intitolato a Giorgio Strehler ha annunciato il suo non negoziabile ritiro dalle scene. Due ore di commozione ma senza dolore, anzi sorridenti, con guizzi d’autentica festa: così il pubblico milanese ha salutato uno dei protagonisti più colti, ispirati e soprattutto più schivi, e anche perciò più amati della nostra canzone d’autore.
Il quale ha ricambiato tracciando, per l’ultima volta, l’autoritratto d’un autore-interprete rigoroso, austero e tuttavia ben più comunicativo di quanto implichi la nativa, ligustica renitenza all’ammiccamento. Con un passato creativo insidiato da qualche intellettualismo, ma senza che l’intensità ne risenta più di tanto. E nell’ultima tratta, da Lampo viaggiatore in poi, svoltato verso una semplicità molto accessibile, e tuttavia meno prodiga di genialità. Forse meno ispirata, ma mai disponibile alla frivolezza.
Con questo curriculum alle spalle il “Viaggiatore d’occidente" si appresta a partire per un viaggio che sarà, d’ora in poi, rigorosamente privato, niente più microfoni e platee plaudenti. Ma intanto ecco riaffacciarsi sul palco capolavori lontani (Ventilazione, Una notte in Italia, La musica che gira intorno) e pagine recenti, da La decadenza a Quello che manca al mondo, tuttora attualissime le prime, un po’ pleonastiche le seconde ma che importa: la classe dell’autore, la sua chitarra versatile, il suo pianoforte impressionista e la sua band – molto complice, organizzata e capitanata da Piero Cantarelli – non rinunciano a rifulgere. E spesso a commuoverci, ché Ivano Fossati è artista per niente incline all’impudicizia emozionale, e tuttavia sempre disponibile all’emozione profonda, seppure discreta.
Di più: ecco un concerto che oltre a elargire vibrazioni autentiche non rinuncia a essere anche piacevole. E vario: ché il suo fluire s’agghinda di citazioni preziose, Bach (al violoncello di Martina Merchiori) e Boris Vian (Le déserteur), i Led Zeppelin e il minuetto settecentesco, i Procol Harum e il Medio Oriente. Con momenti di contagiosa squisitezza “sociale”, come Mio fratello che guardi il mondo dove il tappeto di dissonanze non compromette la purezza della melodia, e Stella benigna, la ragazza irachena sfuggita a Saddam Hussein, storia vera.
Insomma c’è in tutto il concerto un senso molto fossatiano del viaggio tra solitudini e latitudini diverse, ma intime, luoghi dell’animo più che della geografia. Donde il simbolismo volatile che alimenta via via Lindbergh («E la voglio fare tutta questa strada/ fino al punto esatto in cui si spegne»), L’orologio americano, Ho sognato una strada nonché, sempre più magiche, Ventilazione, I treni a vapore, La pianta del tè. Con inflessioni che apparirebbero, d’acchito, privatissime, ma nel progredire dell’ascolto sfoderano un’oggettività che le fa diventare di tutti: La costruzione di un amore, per esempio, raramente così toccante. Ora certo la canzone italiana perde uno dei suoi grandi. Un talento non certo minore, se uno stuolo di cantanti e cantantesse, da Celentano a Mina eppoi De Gregori, De André, Patty Pravo, e ancora le Berté, Mannoia, Zucchero hanno attinto alla sua vena sghemba, refrattaria alle “piccole cose rassicuranti”, diceva Dalla, della canzonetta usa e getta. Alla levità futile della cosiddetta musica leggera: ché se di leggerezza s’ha da parlare, in Fossati, non è certo quella della dell’esilità, dell’occasionalità, della banalità programmatica: ed ecco perché il suo canto scabro, i testi asciutti eppur complessi, le musiche armonicamente inconsuete e mai biecamente orecchiabili hanno resistito sulla ribalta per quarant’anni.
Ed è anche per questo che l’arte di un moderno trovatore può congedarsi dal pubblico senza però abbandonarci: perché nulla c’è di meno transeunte della genuinità pregnante e della profondità pudica, che sono tra i tratti salienti del canzoniere di Ivano. E il concerto ce lo ha rammentato, pur nell’ampiezza di un arco cronologico che va dai fecondi anni Settanta a questo oggi di ambigue restaurazioni politiche, insicurezze sociali, sgomenti esistenziali, ribellismi velleitari.
MUSICISTI
- Pietro Cantarelli (produzione artistica e arrangiamenti, pianoforte, tastiere, Hammond, chitarre elettriche, fisarmonica e voce)
- Claudio Fossati e Andrea Fontana (batteria e percussioni)
- Riccardo Galardini (chitarre acustiche, nylon, elettriche, mandola)
- Fabrizio Barale (chitarre elettriche e acustiche, voce)
- Max Gelsi (basso elettrico e acustico)
- Martina Marchiori (violoncello, fisarmonica, organetto, tastiere, percussioni)
- Mercedes Martini (voce recitante).