Premessa: Tattoo You è un prodotto che di fatto presenta soltanto due canzoni nuove, Neighbours e Heaven, incise poco dopo l'uscita della prova precedente. Il resto sono outtakes, avanzi di cassetti, ripristini e sviluppi di idee appena accennate.
Ciò malgrado, trattasi di prodotto soddisfacente, per non dire notevole, che celebra il ritorno della band al rock puro e semplice, dopo che si poteva anche chiudere un occhio sulle contaminazioni funky (Some Girls), e peggio ancora discodance (Emotional Rescue) dei tempi recenti, ma con la ferma condizione che si riprendesse presto la strada maestra. It's Only Rock and Roll avranno ripensato i Glimmer Twins quando, verso la metà del 1981, si trovavano di fronte alla necessità di dover assemblare una nuova produzione per sostenere il tour mondiale che sarebbe partito di lì a breve. E da qui la decisione di tornare al primo amore.
Tattoo You , che ha visto la luce alla fine di quell'agosto, è prodotto atletico e potente, sin dalla prima traccia, Start me up, il più grande successo nelle charts dai tempi di Angie, che ne detta la headline stilistica. Si congiunge senza soluzione di continuità con la brillante Hang Fire, ironica dissertazione sui dissesti finanziari dell'Inghilterra anni '70, "You know marrying money is a full time job/ I don't need the aggravation/ I'm a lazy slob", con coretti alla Who e riff vivaci. Il divertimento contagia, e porta alla naif Little T + A, così innocente e delicata malgrado la frigida interpretazione di Richards, che vi suona praticamente tutti gli strumenti.
La lezione di blues, che non manca mai in ogni lavoro timbrato Stones, consta di due sezioni. Slave è un grottesco, autocompiaciuto inciso strumentale ribadito ad libitum con la partecipazione (la complicità, meglio), nientemeno, di Billy Preston, Sonny Rollins al sax e Pete Townshend ai cori (il ragazzo stava contemporaneamente incidendo Face Dances, il primo parto post-Moon con Kenney Jones alla batteria). Black Limousine, la cui musica è primariamente parto di Ron Wood, funziona sul terreno pesante, e verrà presentata on stage per molti anni a venire. La succitata Neighbours, con quel middle eight forsennato e un Jagger sciatto e cruento come ai bei tempi, chiude la prima parte mantenendo l'acceleratore ben pigiato sul massimo.
Il secondo lato funziona in modo quasi altrettanto efficace. L’unica tristezza è l’impresentabile Heaven, concentrato di guaiti e gemiti senza vergogna, che persino il primo Prince, o la buon anima di Michael, avrebbero rifiutato di incidere. Per fortuna, il resto del materiale è eccellente.
Si parte subito forte, con Worried About You, l’episodio migliore, rhythm’n’ blues rabbioso, fremente, con chitarre tirate e falsetti lancinanti: il crescendo dell’ultima strofa è da antologia, ribollente di adrenalina. Magari, la produzione stoniana post-Exile on Main Street si fosse mantenuta su questi livelli! Tops è una nuova riesumazione: una prima versione era stata registrata una decina d’anni prima, ma non aveva trovato posto né su Goat’s Head Soup né su It’s only rock’n’ roll. Trova dunque una perfetta collocazione qui, con la parte di chitarra dell'ex Mick Taylor salvata dal remissaggio; ancora una volta, come in Start me up e Neighbours, il bridge è un irrinunciabile punto di forza.
No use in crying, cori duri e compatti e machismo a go-go, rappresenta il secondo credito per Wood, che come sempre deve sudar sangue per vedere il proprio nome stampato tra quelli dei compositori. E’ brano ispido e oscuro, che amplia la sezione soul di Tattoo You su versi tipici dell’egocentrismo jaggeriano, misterioso e affascinante. Per contrasto, Waiting on a Friend chiude (in bellezza) il lavoro con una punta d’intimismo. “Don't need a whore, I don't need no booze, don't need a virgin priest/ But I need someone I can cry to, I need someone to protect”. In definitiva, anche a livello di testo, è una classica, seppur accattivante, ballata-Stones che Sonny Rollins arricchisce di una nuova, suggestiva parte di sax.
Visto che è sempre per la musica che un’opera va giudicata, Tattoo you, per quanto raccogliticcio e in più d'una occasione non di primo pelo, è la prova migliore del gruppo da una decina d'anni a questa parte. Il resto della nuova decade, a parte certi sprazzi di Undercover, non sarà altrettanto interessante. Oltrettutto le tensioni Jagger-Richards stavano per acuirsi, mettendo in discussione l'intero futuro della band.
Ho ancora negli occhi le immagini degli ultimi spettacoli dal vivo dei Rolling Stones, rugosi e decrepiti eppure ancora incazzati e pronti a ribadire il loro perenne status di street fighting men.
Quando questo ventesimo album degli Stones venne pubblicato, alla metà di luglio del 1994, un lustro era trascorso dall’ultima opera da studio, e visto che questa non era poi granchè, la speranza era che cinque anni di silenzio valessero almeno la pena per qualcosa di più appetibile. Per fortuna è il caso di questo Voodoo Lounge, che rivendica quanto meno una maggior decisione, un’energia più propositiva rispetto alle ultime cose made in Stones.
Bill Wyman non è più della partita, e dietro la consolle si presenta nientemeno che Don Was; uno pensa, qualcosa deve cambiare per forza. Infatti. Le prime tre canzoni iniziano quasi con lo stesso stacco di batteria, un segnale forse della vigoria che pervade il disco? Fatto sta che il trittico Love is strong, You Got Me Rrocking e Sparks Will Fly costituiscono un arcobaleno rock and roll composto rispettivamente da black sound, hard rock, rockabilly. La presenza più superba in questo campo è però quella di I go wild, un rock forte e diretto, con chitarre e voci all’unisono e la vocalità decisamente cattiva di un Jagger assoluto padrone della scena. Il valore di Voodoo Lounge va ricercato anche in una ricerca stilistica maggiormente improntata ad uno stile meno patinato e più sporco, che aveva d’ altronde sempre caratterizzato i lavori più riusciti. Non solo la opener Love Is Strong ne è un azzeccato esempio, con l’ottimo uso dell’armonica, finalmente riadottata dopo anni d’esilio, che pervade un sound tanto felicemente metropolitano. Ma anche Moon Is Up e Thru and Thru sono intriganti prototipi del ritrovato “bad mood” dei cari cinquantenni. Quest’ultimo pezzo è particolarmente intenso, con Richards lead vocalist che accarezza e aggredisce, misterioso e sfuggente, Tom Waits de’noantri, in sei minuti di fresca, intrigante suspance.
Ma Voodoo Lounge è anche, evidentemente, blues. E c’è blues e blues. C’è quello sprizzato di funky che porta al deliziante quadretto di Suck On The Jugular, con quei coretti a risposta che riportano indietro di venticinque anni senza che uno se ne accorga. Quello trascinato, incalzante di Baby Break It Down. C’è, malauguratamente, quello di Brand new car, risaputo, stereotipato, riproposto senza una variazione che ne giustificasse la presenza. Ecco il primo piede in fallo: era necessario inserire anche qui la medesima versione di Spider And The Fly? Deformazione professionale, forse; certamente una delle due tracce inutili del disco. L’altra risponde al nome di Out of tears, è una lagna insopportabile di oltre cinque minuti basata su tre note di pianoforte, lenta da morire con un ritornello abominevole che recita così: “Non piangerò quando ti dirò addio, non ho più lacrime...”. Pensa te. Piuttosto inascoltabile, e scriteriatamente scelta come singolo, venne giustamente spernacchiata dalle charts di entrambe le parti dell’atlantico, che vi negarono l’ingresso nei primi trenta.
Fortunatamente, si possono reperire espressioni melodiche di ben altro spessore. Il country and grass di Sweethearts together e l’estasi attonita di Blinded by Rainbows sono pura delizia. Fa tenerezza il “Jagger perdente” di New Faces, la cui armonia è talmente semplice è carina che gli si perdonano banalità impressionanti tipo My Heart Is Breaking in Two..., almeno non c’è l’ appiccicaticcia, nauseante drammaticità di Out Of Tears. Anche in questo campo è però un brano cantato da Keith Richards a spiccare, ossia la ballata di The Worst, permeato di leggiadria malgrado il suo interprete si premuri di ribadire al partner che lui è “il tipo peggiore che lei potesse incontrare”, d’altra parte trent’anni di immagine diabolica non si possono mica buttare in due minuti di canzone.
Un autentico miglioramento dunque, sigillato dalla chiosa r’n’ r di Mean disposition, con Wood e Richards a far trillare le chitarrine con suoni tanto arcaici quanto naif, sembrano John e George ad Amburgo. Peccato per le due brutture segnalate in precedenza, il che non impedisce a Voodoo Lounge di rappresentare il lavoro migliore da Tattoo You, tredici anni prima.
Steel Wheels presenta i Rolling Stones nella loro forma più classica ed esemplare. E’ infatti composto da una sfilza di canzoni che i Rolling suonano da sempre (nella fattispecie, da 25 anni), alternando brani di rock and roll solari ed energici, a lenti d’atmosfera (interpretati qui anche dal signor Richards) con l’unica intrusione d’un pezzo, Continental Drift, tanto originale quanto estemporaneo e totalmente avulso dal flusso stilistico-musicale dell’opera.
Il reverendo Furnier s’adagiò sulla sua poltroncina di prima fila, si celebrava il memorial dedicato a Lenny Bruce e la platea era colma. Aspettava che suo figlio Vincent apparisse sul palco per cantare, e pensò: «Chissà se riesce a farsi ascoltare, timido e smilzo com’è». Fu in quella che una luce sciabolò la ribalta, e al centro apparve un figuro col viso incrostato di biacca, parrucca corvina, occhi affondati in due chiazze di bitume e un pitone avviluppato attorno al torace. «Ma non doveva cantare Vincent?», chiese il reverendo al conoscente che gli sedeva accanto. «È lui, solo che adesso si chiama Alice Cooper», fu la risposta. Il buon pastore levò al cielo gli occhi supplici, poi svenne.
Il concerto non fu un successo, con tutti quei polli di gomma decapitati a rasoiate, secchiate di sangue finto, chitarre da mattatoio. Dopo una decina di canzoni, in sala, rimase solo un tipo irsuto, lo sguardo spiritato, che più il grand guignol, sul palco, incarogniva più lui si sfrenava di applausi. Era Frank Zappa.
Tra il pontefice freak e il promettente catecumeno l’intesa fu immediata, e inevitabile. Si tradusse in due dischi di vigoroso insuccesso, e si capisce perché. Zappa era un coltissimo uomo di musica, con ascendenze europee e col vizio della grandezza: impastato di genio vero, era arrivato al rock passando per Stravinskij e Varèse, e alla strategia dello sberleffo transitando per Artaud, Grosz, il vaudeville, Tristan Tzara. Vincent Furnier era nient’altro che un ex bravo ragazzo americano, con una sola idea chiara: «Il rock ha bisogno di robaccia. Quando si fa troppo raffinato, c’è necessità di gente come me: che faccia musica di merda e spettacoli di pessimo gusto». Con questi concetti era scampato a un’infanzia per bene nella laboriosa Detroit, riscattandosi ben presto dall’essere figlio d’un pastore battista, e in più scolaro passabile e cantante d’innocui gruppi beat. Un giorno, in un’osteria di Phoenix, una zingara gli aveva svelato che in lui riviveva, reincarnata, tale Alice Cooper, strega secentesca puntualmente finita sul rogo. «Se sono la sua reincarnazione tanto vale che ne assuma il nome», aveva detto Vincent, per nulla preoccupato che si trattasse d’un nome da donna. «E se assumo il nome d’una strega, la mia musica deve andare di conseguenza», aveva concluso, dal pragmatista che era, innamorato per giunta di Frankenstein, Dario Argento, Carpenter.
Fatale, dunque, che il sodalizio con Zappa tramontasse nel nulla, come dal nulla era nato. A Vincent-Alice non resta che mettersi in viaggio, come un missionario di Belzebù, sostando su palcoscenici di suburra con la sua faccia livida da annegato, la magrezza invernale e il fedele pitone a fargli da sciarpa. «I miei genitori - spiega - detestavano i Beatles finché non hanno sentito i Rolling Stones. Per ripicca ho deciso di fondare un gruppo, nei confronti del quale gli Stones sembrino una band di suddiaconi». Nel suo bagaglio teoretico c’è che l’androginia, nel rock, raddoppia la teatralità e che la teatralità, fin dai tempi di Sofocle, non può prescindere dall’attrazione dell’uomo per la distruzione di sé, e dunque dalla sua vocazione alla morte. Quanto alla sua ideologia, si riassume in una sfida: «Studenti borghesi e intellettuali d’avanguardia si baloccano con trasgressioni tutte di testa. Vogliono il freak? Glielo do io, ma quello vero».
Finisce come doveva finire: Alice Cooper incontra un nuovo produttore, Bob Ezrin, con tanto uso di mondo da capire, grazie all’intelligenza brada dell’istinto, che quel ragazzotto uscito dalla sala-trucco di Satana non è un flatus vocis, è un caposcuola. Il risultato sono un singolo e un album di successo, (1971) e (1972).
Ai cronisti allocchiti, Ezrin presenta il suo pupillo, salutando in lui «lo psyco-killer che è in tutti noi, l’abusatore, l’abusato, la vittima, l’assassino con l’ascia, il ragazzo morto in mezzo alla strada». E Alice rimerita l’orda nascente dei suoi fan con madrigali da obitorio: «Amo i morti prima che siano freddi/ sono carne livida da abbracciare/. Mentre amici e amanti piangono sulla tua tomba/ conosco altri modi di usarti, darling».
Come è prassi, l’America puritana insorge contro il bistrato profeta, che cuce in farse allucinate la follia e la necrofilia, lo scherno e il sentimento del nulla, la duplicità sessuale e la schizofrenia dell’etica a stelle e strisce, egualmente sedotta dai grandi principi e dalle bassezze del business. E come è prassi, l’anatema dei benpensanti accresce la popolarità di Cooper, ne è l’irresistibile lubrificante. Decine di gruppi e di rockstar, dai Kiss ai Deicide, da Ozzy Osbourne a Marilyn Manson avranno in Alice il loro maestro, molti angeli dannati del punk e dell’heavy metal troveranno in lui il loro Mosè, pochissimi intuendo la percentuale di gioco o di sghignazzo che sta dietro i suoi scenari: popolati di boa conscrictor, vampiri, giganti sventrati e orridi nani, di impiccagioni così finte che sembrano vere, di teste mozze usate per macabri football, di sudari sventolati come orifiammi al suono di God bless America.
Tale è il successo che anche uomini di genio vi s’inchinano. Come Salvador Dalì che a Cooper fa dono, dopo averlo scolpito apposta per lui, d’un microfono d’oro in forma di Venere. È l’avallo più autorevole, quello del maestro di Figueras: quasi una laurea ad honorem in surrealismo, per il figlio del pastore divenuto plenipotenziario delle loro sataniche maestà. E che conta tra i suoi estimatori, si mormora, un fan al di sopra d’ogni sospetto, Richard Nixon. È l’epoca di Killer, un titolo un programma: la più torbidamente geniale, o forse soltanto la più emblematica tra le tappe della carriera d’Alice. Che racconterà: «Los Angeles, a quell’epoca, era la capitale del peace & love, io e la mia band vi facemmo irruzione e la mettemmo a soqquadro col nostro feroce quintetto di zombie». E come uno zombie disfatto si presenta sul palco, il mascara che gli cola dagli occhi e nello sciabolare dei riflettori sembra che a colare siano gli occhi stessi, le labbra e il mento impiastrati di rossetto che potrebbe essere sangue. E così agghindato sventra bambolotti a colpi d’ascia, fa volare per il palco pollastri decapitati, fustiga ballerine e alla fine s’impicca. Per poi riapparire illeso e ghignante, in tuba e marsina bianche.
C’è chi lo va a vedere come si guarda un film comico, chi intuisce in lui una sorta di sciamano, chi soltanto un intrattenitore di talento. E per Alice è sempre più difficile mediare tra tutto ciò. «Amo l’orrore fondato sulla farsa», puntualizza: dunque il suo grand guignol mira soprattutto a far ridere. Ma c’è chi lo prende sul serio, e quando un ragazzo, uscito dal teatro, corre a casa e s’impicca, Cooper è costretto ad un’imbarazzata autocritica, quasi un’abiura: «È vero, amo l’energia del rock, l’adrenalina che scatena. Ma amo assai meno certi messaggi distruttivi, che si usa attribuirgli: troppi giovani li prendono per buoni e si uccidono».
Per l’eresiarca di Detroit, il suicidio di quel fan troppo labile segna una svolta. Senza rinunciare del tutto a se stesso, mister Hyde indossa la coscienza, se non la marsina, del dottor Jeckyll, e in Welcome to my nightmare lascia emergere, inatteso, un retrogusto moralistico: Steve, il protagonista, libera la propria mente dai mostri che ne insidiano l’affettività, sia pure nel consueto contesto di sangue e pupazzi smembrati. È, tra gli spettacoli di Cooper, il più raggelante ma, a suo modo, il più etico. E alla fine del tour Alice si ricovera, per depurare il proprio sangue dalle scorie di anni d’alcolismo, «che fu il mio antibiotico contro i germi della normalità».
Quando esce, lo «zombie feroce» di Love it to death, di Billion dollar babies, di Alice Cooper goes to Hell è più che altro un monumento a se stesso. La sua lezione è stata fatta propria da troppi emuli, che ne hanno assorbito gli aspetti più kitsch senza coglierne il sarcasmo e il gusto per l’eresia, e del resto la coazione a ripetere è in agguato anche per lui. Vincent Furnier è ormai un marito fedele e un morigerato padre di famiglia: ama andare a pesca con i suoi tre figli, si definisce «il loro saggio fratello maggiore», e solo di tanto in tanto toglie dalla naftalina il costume da squartatore, per celebrare in scena o in sala d’incisione, come un rigurgito della memoria, il buon tempo che fu. Nei non frequenti incontri con la stampa appare truccato da mostro, ma i modi sono quelli d’un allegro gentiluomo, convinto che «nella mia teatralità quello che prevale è l’humour, la vera violenza non è nei miei spettacoli, ma sui vostri giornali». E parla di Alice Cooper in terza persona, «perché io sono il signor Vincent Damon Furnier, sposato da venticinque anni, appassionato di golf e innamorato della mia famiglia, mentre lui è della razza di Batman, Zorro e Dracula: tutt’altra storia, o favola».
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