Quando una persona decide d’ascoltare un cd, un vinile o persino una musicassetta, novanta su cento decide di ascoltare I brani in fila, senza funzione random. Trovatomi chissà come tra le mani questo quarto album dei Green Day, Insomniac, ho fatto lo stesso, ed al termine del quarto pezzo camminavo sulle acque. La sequenza iniziale di Insomniac è, senza tema di smentite, da manuale del punk. Otto minuti d’irridente potenza introdotti dalla grinta di Armatage Shanks, che sciorina sguscianti passaggi di quarta, proseguiti dagli stacchi selvaggi di Brat, ove Billie Joe confessa il suo incubo uxoricida a scopo di lucro, integrati dalla spensieratezza apparente di Stuck With Me, la cui tematica riecheggia (trent’anni dopo Help!) il disagio di costituire una gallina dalle uova d’oro, conclusi dalla crudezza autolesiva di Geek Stink Breath, La comune peculiarità di queste canzoni è una coprente immediatezza. Il talento più riconosciuto dei tre ragazzi di Berkeley è, fin dai tempi del loro esordio giovanissimi a fine anni ’80 proprio questo. A ciò vada aggiunta, e non è cosa da poco, la stupefacente capacità di cucire armonie differenti (i cosidetti “cantati”) su scheletri di brani basati praticamente sempre sugli stessi accordi. Le prime quattro tracce di Insomniac ne sono esempio notevole, e parevano schiudere la strada verso un album brillante. Purtroppo, nel prosieguo l’anima caliente dell’eroe del punk si raffredda leggermente, anzi sensibilmente.
Nel resto di Insomniac troviamo infatti espressioni di rock ordinate, quasi “professionali” (No Pride – 86), inni tanto divertenti quanto leggeri (Walking Contradiction), ameni esercizi in controtempo semplici come una passeggiata in bici.(Bab’s Uvula Who?)
Il fatto è che non appena cale la tensione emotiva, i suoni tendono a macchiarsi qua e là d’un sinistro deja-vu. La sensazione è quella di un prematuro appagamento, come una di ricerca stilistica stagnante, frenata dai comodi guanciali su cui i nostri forse iniziavano ad indugiare, forniti dalla major ove erano approdati con Dookie. Certo, i testi mantengono quel “sense of darkness” che contraddistingue la proposta poetica dei Green Day, ma anche in questo campo sarebbe magari lecito attendersi qualcosa di nuovo.
Tutto sommato il grande lavoro diventa con lo scorrere delle tracks un lavoro poco più che ordinario, rivalutato per fortuna verso lo scadere del minutaggio da un’altra perla nascosta. Il micidiale medley Brain Stew/Jaded è un numero d’alta (in) digeribilità, nel quale l’heavy incontra il garage punk e Billie Bad Boy può finalmente vestire dell’atmosfera più consona le più allettanti espressioni del suo delirio professionale. Sarà un eroe maledetto costruito a tavolino, ma almeno qui sentirlo blaterare “Passed the point of delirium” piuttosto che “We're gonna die! Blessed into our extinction” suona appena meno artefatto. Il disco aveva appena riacquistato un po’ di vitalità con Stuart And The Ave, passando attraverso il delirio claustrofobico di Panic Song, con il testo a cura di Mike Dirnt, che concepisce ed esegue anche una vibrante, prolungata introduzione in stile gothic, ed è quasi un peccato il tutto debba concludersi con riempitivi come Tight Wad Hill o Westbound Sign, tutto materiale ampiamente già suonato. Anche la spartana, totale assenza di arrangiamenti contribuisce all’impiattimento della proposta musicale. Senza nemmeno l’ausilio d’un assolo o d’un differente apporto melodico, molti brani appaiono all’ascolto simili tra loro; il sound distintivo dell’elettrica riproposto invariabilmente in ogni track, alla lunga risulta ridondante, monotono. Un attimo di distrazione e non sai più che canzone stavi ascoltando. Impressione ribadita anche dai risultati ottenuti nelle charts, di gran lunga inferiori a quelli di Dookie. Dieci minuti di grande musica, altrettanti di noia e qualche buono spunto: troppo poco. Non che i ragazzi, probabilmente, non se ne siano resi conto: in futuro arriveranno acustiche, pianoforti e concept albums.
La domanda è: i Clash erano un gruppo punk? Risposta: Lo erano se si considera la stagione del suddetto punk circoscritta ai suoi anni fondamentali, ossia dal 1976 al 1978, in cui bands tanto geniali (Damned), quanto provocatorie (Sex Pistols) che oscure e decadenti (Siouxsie and the Banshees), mitragliavano le proprie vibranti adesioni al movimento. Il problema semmai era che con l’avvento del 1979 il genere non pareva aver più granchè da dire. Gli ambiti del punk erano per propria natura tanto violenti e nichilisti quanto ristretti, e furono proprio i Clash a rinnovarne i canoni ed ampliarne i confini, con una ricerca stilistica che, attraverso i due vinili di London Calling e ancora maggiormente i tre di Sandinista, li consegna ai posteri forse anche più segnatamente dei genuini The Clash o Give ‘em Enough Rope.
In quest’album trovate rock, rock’n’ roll, rhythm’n’blues, pop, soul, ska, reggae solo per citarne gli ingredienti fondamentali, oltre a finezze impensabili fino a pochi mesi prima quali il calypso di Revolution Rock o il bebop di Jimmy Jazz. Naturalmente, nessuna abdicazione alla denuncia sociale, anzi, la band rilancia: nella opener London Calling, ove i timbri battenti del basso di Simonon accompagnano un infuriato Strummer che punta il dito contro il nucleare (sfruttando anche l’onda emozionale causata dall’ incidente del marzo dello stesso anno in Pennsylvania), ma anche contro conflitti razziali e disoccupazione. Per potenza e coinvolgimento vi si può accostare Spanish Bombs, che accompagna con tenui melodie tropicali la guerra civile spagnola, oppure la martellante Guns Of Brixton, prima fatica del bassista Paul Simonon ed interpretata dallo stesso, storie d’ordinaria violenza urbana.
La palma della track più discussa viene però assegnata al secondo singolo Clampdown, e le dichiarazioni di Strummer non aiuteranno a far luce sul caso, i cui versi potrebbero indifferentemente essere interpretati come attacchi al fascismo, al nazismo, al capitalismo. Summa di un intero manifesto generazionale in meno di quattro minuti, la canzone non riscosse però il successo che ci si sarebbe attesi; il pubblico si lascia forse sedurre più volentieri dallo jamaican sound di Wrong ‘em Boyo, in realtà una delle più irresistibili covers mai realizzate dai quattro, o dalla fulminea Koka Kola.
Temi più personali nella grintosissima ed accattivante Death Or Glory, che avrebbe probabilmente meritato anche un singolo per la sua immediatezza e scandaglia le difficoltà del riuscire a gestire la vita da “grandi”, come se il gruppo riconoscesse in maniera implicita di dover superare la propria fase ideologicamente “giovane e spensierata” per assumersi nuove e più profonde responsabilità. E senza soluzione di continuità, il senso di alienazione e confusione nella crescita sono trattati in Lost In The Supermarket o anche in Rudie Can’t Fail.
Doveroso spazio a parte per Train In Vain, principalmente opera di Mick, alla quale spetta il primato di prima hit della band a gravitare intorno allo sconosciuto (per il gruppo) pianeta dei sentimenti. Amore, timore della solitudine e della perdizione, magari rancore verso chi lascia e tradisce. Anche un punk-rocker ha un cuore? Jones confermerà in un’intervista che si tratterà dell’unica lovesong mai scritta dalla band; senza entrare nel merito, il brano ed il suo testo sono davvero significativi per quanto riguarda la metamorfosi che i Clash stavano intraprendendo. E forse anche una canzone d’amore, sotto forma di grido di dolore, può essere definita The Card Cheat, rock bello e dolente, sull’abbandono del soldato forte ed orgoglioso (“all the men who have stood with no fear”) che muore solo, rimpiangendo non tanto la gloria ma l’umanità d’affetti che gli sono stati preclusi e non ritroverà.
Anche il pubblico pare apprezzare la svolta di Headon e compagni; sarà grazie a questo disco che l’America s’accorgerà finalmente di loro. Perderanno certamente qualche fan oltranzisticamente ottuso, ma ormai la via è tracciata: London Calling è un album completo, emozionante, sentito, ma non è un masterpiece. I ragazzi erano sì riusciti a coniugare la violenza nullista del punk con un suono ad ampio raggio aperto e critico sulla realtà quotidiana, ma il capolavoro arriverà non appena troveranno il coraggio di osare oltre il limite del consentito, di sperimentare, di irridere le convinzioni senza condizionamenti, come storicamente han fatto solo i musicisti veri, Beatles e pochi altri. Ossia con l’opera successiva.
Sfogliando un dizionario etimologico potreste imbattervi nella definizione di 'classico'. Al di là dell'origine storica del termine (e bisogna risalire fino alla Roma antica), il suo vero significato è "distinto, perfetto, di prim'ordine, da servir di modello". Per questo nel recensire l'ultimo lavoro in studio di Eric Clapton non riesco a trovare un aggettivo più calzante, non perché "Clapton" sia qualcosa di perfetto, ma perché proprio sull'eleganza fa leva il 65enne chitarrista di Ripley, e perché ancora oggi riesce ad essere, a suo modo, un punto di riferimento per colleghi e appassionati, nonostante i tempi dei fasti siano molto lontani.
12 delle 14 tracce sono cover, dunque l'artista di suo non ha messo molto, se non due brani inediti e la sua interpretazione, che nel caso di esecutori magistrali come lui non è poco. L'idea di base è la solita: riproporre una serie di vecchi brani, alcuni ripescati molto lontano nel tempo (come la splendida Rockin' Chair, datata 1930), rivisitarli, imprimervi il marchio vocale e musicale di Clapton, aggiungervi un paio di inediti e servire ancora caldo.
Spesso il risultato finale di questa ricetta è un prodotto insipido, senza personalità, che si regge solo sulla fama dell'autore che si assume la paternità dell'opera, ma non è questo il caso.
“Clapton” è oggettivamente un bell'album, i classici sono suonati con educazione, senza l'intenzione di snaturarli, e l'infarinatura di blues percepibile dal primo all'ultimo secondo (se siete allergici o intolleranti forse è meglio ripiegare su altro) non fa che rendere il tutto più coerente e affine alle caratteristiche dell'artista, che si presenta nella veste di performer, senza rinunciare tuttavia a proporre qualcosa di nuovo.
L'ascolto è piacevole, i cambi di ritmo non mancano, il pianoforte accompagna costantemente la chitarra, a volte con discrezione, a volte rubandole la scena, con gradite incursioni dei fiati, come nella rivisitazione di How Deep Is The Ocean di Irving Berlin, o dell'armonica in Judgement Day, omaggio al bluesman Snooky Pryor.
Diamonds Made From Rain nella tracklist è il primo dei due inediti, la differenza di sonorità rispetto a tutto il resto non passa inosservata, ed è un po' fuori tema. La chitarra ha un ruolo maggiore, così come archi e cori femminili: estrapolato dal contesto è un pezzo degno di nota, ma i brani storici che lo circondano fanno risaltare troppo il salto generazionale. Più affine al contesto Run Back To Your Side, l'altra novità, veloce ma più coerente con l'atmosfera dell'intero album. Nei cinque minuti di durata della canzone la voce, ma soprattutto le mani, di Clapton ci sono, e si sentono.
Chiude il tutto Autumn Leaves, terreno su cui in passato si sono cimentati (con diversi ruoli) Nat King Cole, Chat Baker, Miles Davis, Edith Piaf, Doris Day e molti altri, insomma, niente di più 'classico', ma forse anche in questa circostanza la connotazione del termine è solo positiva. La versione in questione è “distinta, perfetta, di prim'ordine, da servir di modello”, almeno per lo stile, perché Eric Clapton il suo dovere nei confronti della musica lo ha già assolto con gli interessi, guadagnandosi la libertà di proporre più o meno tutto ciò che vuole, meglio se di buon livello come quest'opera.
La seconda prova degli Housemartins ribadisce ed amplia i concetti espressi dalla prima: canzoni (non canzoncine…) allegre, orecchiabili, divertenti, con poche eccezioni. Riffs veloci, ostacolati da brevi stacchi, il tutto dominato dall’eccellente vocalità di Paul Heaton.
Il (piccolo) limite dell’opera è rappresentato proprio dalla spuntata gamma di soluzioni melodiche, dato che le sequenze di accordi sono tra le più semplici praticate da sempre nel rock, (e talvolta riutilizzate nel corso dei diversi brani). Tuttavia l’ immediatezza, la freschezza del prodotto sono tali da ovviare all' inconveniente. E’ vero che il coretto di Five Get Over Excited è appena appena preso da All You Need Is Love, per fare un esempio, ma il pezzo sfrutta al meglio il “prestito”, adattandolo ad una delle più coinvolgenti espressioni della raccolta.
Non sarebbe corretto equiparare tutto il materiale compreso nel disco, We Are Not Going Back è un trascurabile riempitivo, Pirate Aggro un simpatico, grintoso, innocuo break strumentale, ma tutto passa in secondo piano di fronte agli assoluti capolavori che rispondono al nome di Me And The Farmer e Build. Il primo è un possente rock introdotto dalla distorta di Cullimore e consta di tre minuti scarsi che sintetizzano l’ intera proposta artistica dei nostri in un crescendo irresistibile, sul quale Heaton costruisce ghignando una fosca vicenda di latenti aggressività, con enunciati farseschi quali: “Me and the farmer like brother like sister/getting on like hand like blister”, e nel pub l’ allegria diventa contagiosa. Tutt’altro clima per la mesta, dolente Build, su un tema che se vent’anni fa era di moda adesso è d’ emergenza. Si parla di edificazione selvaggia vista con gli occhi dell’ uomo della strada, il quale, pur nella consolazione di avere una "house where we can stay” immagina forse già le incombenti, nefaste conseguenze che l’inurbamento indiscriminato avrebbe portato; viene accompagnata dall’emozionante incedere del pianoforte in una sorta di slow reggae, inusuale per la band ma d’impatto invero toccante.
Non manca, e non potrebbe essere altrimenti il solito “omaggio” alla Royal Family, espresso nella title track del disco. The People Who Grinned Themselves To Death è un atletico sberleffo rivolto a sua maestà ma anche al popolo bue che “even when their kids were starving, they all thought the Queen was charming”, arricchito dai fiati nel refrain e dalla fidata coralità della band.
A questo proposito giova inserire un piccolo inciso sulle analogie tra il complesso di Hull e gli Smiths: al di là delle affinità dei temi trattati, abrasive critiche e sarcasmi assortiti, nei riguardi delle upper class e non solo, risultano evidenti le difformità a livello stilistico, ove si consideri le atmosfere in prevalenza gravi, funeree dei quattro di Manchester, contrapposte alla goliardia e alla spensierata veemenza degli House. Nella succitata Five Get Over Excited, la triste fine dei cinque ragazzi che si sfasciano in un incidente stradale (preannunciata dal poster di James Dean sul muro) s’accompagna a un motivo brioso e trascinante, per non parlare della deliziosa e criminale I Can’t Put My Finger On It.
Si palesano qua e là brevi rigurgiti di malinconia, nell’inno acustico pacifista di Johannesburg, delicato e sommesso; non è che si possa proprio ridere di tutto. (E il verso "Non mostrarmi la tua anima/potrei vedervi la luce filtrare” è da antologia delle medie). O nell’inerte, pigra The Light Is Always Green”, che non per niente è una crociata anti-frenesia. Ma il buonumore trionfa, la terapia del motteggio e della canzonatura con toni leggeri ma altrettanto mordaci di quelli drammatici. Così si chiude tra il piano saltellante di Bow Down e la presa in giro di You Better Be Doubtful, e poi, finalmente, in alto i calici, di birra scura preferibilmente: brindiamo alle breve, brevissima esistenza di questo gruppo. L’anno successivo, dopo il notevole singolo "I Smell winter/Always something there to remind me”, i quattro si salutano in allegria. E sono tuttora amici! (Chiedete a Morrissey come sono i rapporti con Marr e gli altri..). Soprattutto, non sono spariti: Heaton e Hemingway hanno trascorso un ventennio di (appena disciolti…) Beautiful South, e se il nome di Norman Cook, bassista, non vi dice niente, provate a cercarlo su Wiki sotto Fatboy Slim.
La prova d’esordio dei Bliss colloca immediatamente la band capitanata dalla vocalist Rachel Morrison e dal bassista Paul Ralphes, autori dei brani, in una posizione temporalmente (siamo nel 1989) atipica rispetto alla maggioranza dei gruppi d’oltremanica.
Lontani dall’indie rock che attecchiva in quegli anni, lontanissimi dall’esagitato elettronismo che andava lasciando spazio alla techno, una specie di fosco, malinconico passaggio dal vespasiano alla latrina, i cinque ragazzi di Coventry se ne escono con un disco che val almeno la pena ascoltare, consistente in una mistura di rock, ryhthm’n’blues & gospel, perfettamente governato dalla poliedrica vocalità della signora Morrisson.
La band si gioca tutte le sue carte nel primo lato, che presenta una sequenza di pezzi davvero efficaci: ad aprire Loveprayer è l’hit-single I Hear You Call, ossia soul di ottima fattura, con un bridge e un refrain da brividi, che si bissa nella successiva How Does It Feel (The morning after), forse ancora più sofferta, cover azzeccatissima per proseguire il discorso melodico impostato dai cinque. Good Love chiude adeguatamente il cerchio, con una coda costruita apposta per i contorsionismi vocali di Miss Rachel. Il punto più alto di questa prima facciata è però costituito dal lamentevole incedere della desolata Your Love Meant Everything, guaito d’amore dispiegato su tristi tinte slow-jazz che espande ulteriormente l’universo stilistico dei nostri. A ruota giungono opportunamente le due più movimentate tracce della raccolta, Won’t Let Go e Lovin’Come My Way, piuttosto simili con quegli scambi veloci di accordi di quarta, e, particolarmente nel secondo, indicativi delle influenze black sulla musica della band.
Purtuttavia, una volta smesse le divise sgargianti da professionisti del gospel, non resta, sfortunatamente, molto altro da scoprire sino alla fine dell’opera.
Il lento di atmosfera di Light And Shade si dipana piuttosto monocorde, privo del guizzo illuminante che dia personalità al brano, risolvendosi in un nuovo, elegante esercizio virtuosistico per la Morrisson. La sinuosa May It Be On This Earth, guidata dal minimoog, non è che una versione rallentata di Lovin Come My Way. Appena meglio il grintoso r’n’b di All Across The World, che spiana la strada al mesto procedere di I Walk Alone, dignitosa ballata per piano che riscatta almeno in parte una side B a corto d’ inventiva e soluzioni originali. Per quanto riguarda i testi, tutti a cura della bionda vocalist, non si va oltre una rassicurante esiguità: amori miracolosi (I Hear You Call), traditi (The Morning After), bramati (Lovin’Come My Way), perduti (Your Love Meant Everything). Gamma completa, insomma, ma niente di più. (Il titolo dell’album anticipa già, peraltro, ciò che uno può aspettarsi dai testi).
Prendendo spunto anche da quest’ultima considerazione, ciò che manca in questo lavoro d’esordio del quintetto inglese è un pizzico di coraggio in più, una maggior esplorazione stilistica e tematica che meglio avrebbe esaltato le indubbie qualità dei nostri. Viceversa, dopo che queste ultime vengono per metà disco ben messe in evidenza, sono poi frustrate da una spiacevole reiterarsi di forme e espressioni. Peccato, pensa uno, perché la stoffa c’è, e non avremo mai la controprova di quello che i Bliss avrebbero potuto fare tramite un adeguato processo di maturazione in quanto, dopo un secondo album (A Change In The Weather) del 1991, il gruppo chiude i battenti, malgrado una velleitaria rentrèe datata 2009, a formazione largamente rivoluzionata, il che evidentemente è tutta un’altra storia.
La voce della Morrisson e le intuizioni musicali di Ralphes e soci avrebbero meritato un’altra carriera.
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