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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Giovedì Marzo 28, 2024
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«Quando sei ubriaco la fortuna non può non assisterti»

Tom Waits - Storia di musica n. 14

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Nella saletta dell’hotel londinese, piena di ninnoli come lo studio d’un lord, arrivò indulgendo alla sua più usuale incombenza, quella di recitare se stesso. Fin dall’incedere traccheggiando, con digressioni inattese e brevi implosioni epilettiche, l’opacità un po’ psicotica dello sguardo azzurrino e le interminabili scarpe a punta. «Tom Waits», si presentò tendendo una mano spropositata, poi «sediamoci qui, fa così freddo», invitò guidandomi al caminetto spento.

Si lanciò in un barocco amarcord su Roberto Benigni, suo amico in dadaismo e zingarate: «Arrivò a casa mia, a Los Angeles, con un baule di spaghetti e Brunello di Montalcino, per una settimana bevemmo e mangiammo e una sera scoppiò un grande temporale. Lui sparì come un elfo: “Dov’è Roberto“, chiesi a tutti. Mistero: scomparso, tanto che mi domandai se fosse mai esistito. Finché uscii e lo vidi: in piedi sul tetto, arringava il cielo a improperi e gestacci, tutto fradicio».

Fu allora che negli occhi il sopore gli si dissolse, e mi gratificò d’una sua risata: cavernosa, biblica. Tornò serio per rispondere alle mie domande: con lapidari, intirizziti monologhi, epigrammi gentili fino all’estenuazione, calembours scagliati nel bigio di Londra, come lapilli. Era il suo modo sbilenco d’esser saggio, fuor dagli stenti manierismi della ragione. Raccontò l’intenzione d’abbandonare la California per la più estrosa New York, «senza portarmi dietro, però, il mio pianoforte: s’è creato un automatismo un po’ stucchevole, io bevo e lui si ubriaca al mio posto». Parlò di Bukowski e dei santi bevitori incontrati in decenni di vita errabonda, citò Cocteau e Buster Keaton, vagheggiò «un’orchestra così sgangherata da riprodurre i rumori che rimbalzano nella mia testa, guidata da un trombone in forma di pescespada». Disse insomma cose piene di quell’aereo buonsenso cui soltanto i genii hanno accesso, con la logica rigorosa di cui i soli clown posseggono il codice.

Si congedò, infine, che planava la sera. Offrendomi un bourbon «che è il miglior gas mai estratto dall’Uomo», chiarì, e un caffè che «a farlo, qui, gliel’ho insegnato io, e a me l’ha insegnato Benigni: è lo stesso che bevevano gli dei, dopo averne imparato la ricetta da un cuoco italiano». Tradito dal bourbon lo salutai citando Apollinaire, «la voce canta così da rantolare/ il bicchiere si schianta come uno scoppio di risa»: e lui parve gradire, da come sogghignava. O rideva tout court, col solito, feroce sghignazzo da profeta. Che ritrovai anni dopo su un palco fiorentino, con la sua gestualità di frontiera e l’impossibile viso scarnito, perso in un cosmo di smorfie. E il cappelluccio stazzonato, in bilico sui capelli, a raccontare di utopie faustiane, melanconici cani in chiesa, leoni con tre teste, treni imbizzarriti nei corral della notte: insomma la sua vita di picaro e i suoi sogni da bucaniere, spalmati su tetri giri di blues, ritornelli alla Brecht & Weill, zaffate mariachi fragranti come pietanze messicane.

Ché da quelle parti era nato il 7 dicembre ’49, a Pomona, non discosto dal confine tra Messico e California. Come racconterà lui stesso, in un’intervista famosa ed etilica: «Fui concepito in una notte d’aprile in un motel californiano, tra una bottiglia rotta di whisky e una Lucky Strike incenerita, vicino agli avanzi d’un tramezzino al tonno. E nacqui otto mesi più tardi, sul didietro d’un taxi, in un posteggio d’ospedale mentre il tassametro marciava. Sono uscito dalla pancia di mamma che avevo bisogno di farmi la barba, così ho urlato: “Times Square, e schiaccia su quell’acceleratore“».

Norvegese la madre, maestra di spagnolo e cantante in un quartetto soul, irlandese Frank, il padre, insegnante e chitarrista. Un nonno insegnò a Tom l’epopea di Jesse James, uno zio era organista e lo fregò l’incompatibilità tra la sua mano sinistra e le leggi dell’armonia. Tom legge Pinocchio, e il sadismo toscano di Collodi lo ammalia. Da Kerouac impara a fare del mondo il suo domicilio, e «il comune senso di solitudine che percorre l’America tra le due coste». A otto anni celebra il divorzio dei genitori, a quattordici fa lo sguattero in un ristorante, poi il cuoco, il portiere in un folk-club di Los Angeles, l’inserviente ospedaliero, il tassista, il benzinaio, il giocatore di biliardo. Frequenta principesse da marciapiede, bari e soprattutto fantasmi: «Si comportano come delfini - scrive -, schizzano alla luce, danzano e si rituffano nel nulla. Oppure ti vengono incontro su un galeone spagnolo, inabissandosi poi in un banco di nebbia. O t’appaiono a cavallo, spada in pugno, pieni d’amore». E un fantasma gli detta la ricetta per scacciare gli spiriti maligni: «Basta pisciarsi addosso, senza farsene accorgere».

Quando torna dal lavoro, ogni sera, Tom passa ore a scrivere versi, com’è inevitabile - assicura - per chi vive nei motel, tra gente americana. Usa la memoria come «un banco di pegni, un acquario o un ripostiglio, per pescarne storie senza senso, rigorosamente vere». Un giorno, su una bustina di fiammiferi, legge: «Arrivare al successo senza l’università? Mandate cinque dollari a P.O. Box 1531, New York City». Esegue e riceve un dépliant: «Puoi diventare meccanico, elettrauto, assicuratore, musicista, banchiere. O maniaco sessuale, omicida, disoccupato». Lui sceglie la musica: al Troubadour racconta al pubblico le sue poesie, accompagnandosi al pianoforte e ansimando in un sax. Per nove dollari affitta un bungalow al Tropicana Motel, sul Santa Monica Boulevard: per farvi entrare il pianoforte deve segare la parete di cucina. Se ne va quando vede un serpente uscire dal water, e abita sulla sua «sposa meccanica», una Thunderbird d’anteguerra. Gira con un cappellaccio di sghimbescio, la camicia unta e una giacca di due misure più larga: «dunque perfetta, del resto me l’ha disegnata Walt Disney».

Herb Cohen, che ha scoperto Frank Zappa, Tim Buckley e Captain Beefheart, gli fa incidere Closing time, ed è un flop. Ma gli consente di suonare nei club, alla sua maniera stralunata: voce da orco, testi che sono sciarade cubiste perché - puntualizza, citando Juan Mirò - «nella mia testa può esserci una donna, o un cane: il resto tocca a voi». Gli Eagles gli incidono Ol’55, lui ringrazia così: «Sono eccitanti come la vernice che asciuga, i loro album hanno una sola utilità: evitare che la polvere finisca sul piatto del giradischi. E si capisce perché: mai che i loro stivali abbiano pestato merda di vacca». Intanto legge e vive: compulsando la vita come un libro, i libri - e i dischi - come paragrafi del libro che è la vita. E così scopre Stan Getz, Gene Krupa, Duke Elligton, Brecht, Cole Porter, Gershwin, De Quincey, Lenny Bruce. Va a vedere Giulietta e Romeo e descrive Romeo, in Blue Valentine, mentre muore sparandosi in un cinema, con James Cagney grifagno sullo schermo. Fa amicizia con Bukowski, costui ama Sibelius e Tom ama il jazz, ma entrambi adorano Los Angeles, le femmine e l’alcol. E il poeta lo seduce con un’intuizione epocale: «Quando sei ubriaco - ammonisce - la fortuna non può non assisterti». Nel 1980 esce Heartattack and Vine, la stampa irride alla sua voce incatramata, «ci sarebbe da asfaltarne un’autostrada», «Louis Armstrong e Joe Coker dopo una sbronza», «tre parti di cane che abbaia, ognuna con un disperato bisogno di radersi». Lui ribatte: «Ho in gola il giusto clacson per la mia macchina: quando lo suono la gente scappa, i bambini si spaventano e i clienti mi cedono il loro posto al bar, che volete di più». Ma tre anni dopo Swordfishtrombones, e poi Rain dogs tramutano in leggenda la sua avara notorietà. E Francis Ford Coppola gli commissiona le musiche per One from the heart: composte «in diciotto mesi di noia inframmezzata da momenti di terrore: è difficile scrivere canzoni per i sogni d’un altro». Una liaison con Ricky Lee Jones decolla e serpeggia, finché Kathleen Brennan, poetessa e musicante, espugna il cuore di Tom Waits. Il loro è un matrimonio tra saltimbanchi, «lei si corica sui chiodi, s’infila un ago nelle labbra e beve il caffè. Ma dubito che abbia saltato il Grand Canoyn con Evil Knievel, come afferma», dice Tom agli amici. Nascono Kelly e Casey, lui vorrebbe chiamarli Aiax e Senator, ma la moglie lo convince a desistere: «Quando avranno diciott’anni decideranno loro», lo rassicura. E lo induce a lasciare Los Angeles per New York, «che è più intima, un pezzetto di terra dove le razze si mescolano meglio».

Oggi che non c’è più l’insuccesso, a dargli alla testa, Big Tom è un leone acchetato, un marito e un padre inoppugnabile. Non beve e non fuma più, vive con zelo la desolazione della normalità. Con Kathleen e con Bob Wilson, scrive musical di successo rielaborando, e brutalizzando, miti come Faust, Alice e il buon soldato Schweick. Ha sessantatre anni e scoppia di salute e di rimpianti. Vagheggia un grande concerto, lui in tuta stagna, immerso in un bicchiere di whisky. Ma, con previdente saggezza, ha già deciso l’epitaffio per la sua tomba: «Ve lo avevo detto che ero malato», detta.

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'S WONDERFUL QUARTET

Luogo: Il Melo, Gallarate (VA)
Data: 14 dicembre 2010
Evento:  Jazz Appeal 2010
Voto: 5

LARA IACOVINI: voce
RICCARDO FIORAVANTI: contrabbasso
ANDREA DULBECCO: vibrafono
FRANCESCO D’AURIA: batteria e percussioni

Ci aveva già pensato Conte, a suo tempo, a legare indissolubilmente quella “s” alla parola “wonderful”, ma in quel caso era più per ragioni metriche (e di pronuncia) che concettuali.
Diverse le premesse che hanno portato al concepimento del nome del quartetto in questione: il ragionamento è piuttosto articolato ed ha una duplice matrice. Duplicità che ritorna anche a livello musicale e compositivo nei brani riarrangiati e suonati dallo ‘S Wonderful quartet.
Ciò che viene proposto è una rivisitazione del repertorio di «due grandi artisti del 900» per citare l’introduzione di Laura Iacovini, il primo dei quali viene subito svelato grazie alla significativa - soprattutto per la serata - Wonderful: George Gershwin. La chiave di lettura completa l’abbiamo con la successiva I Wish di S. Wonder: il gioco è fatto.

Il quartetto, capitanato dalla coppia Iacovini-Fioravanti, nasce da un’idea del contrabbassista che si propone di riarrangiare in chiave jazz i brani del divino Wonder e rileggere le composizioni del sacro Gershwin in una sorta di inversione delle parti che dimostri come «in fondo i due personaggi non siano così distanti l’uno dall’altro».
A rompere il ghiaccio è il vibrafono di Andrea Dulbecco, il miglior candidato a sprofondare la platea nell’atmosfera fiabesca che così bene si addice ad un concerto pre-natalizio.

Cambio di rotta per la successiva I Wish, introdotta da un trascinante riff di contrabbasso che sostiene il brano fino all’entrata, nella seconda strofa, degli altri strumenti. Si continua con il Wonder di You Are The Sunshine Of My Life, in una morbidissima versione accarezzata dalle spazzole di D’Auria. Il contrabbasso si ritaglia lo spazio per un assolo prima che, al ritorno del tema, rientri anche la voce per il gran finale.
Dopo il tris di Wonder il pallino passa a Gershwin con Facin In The River che sprigiona l’indole più selvaggia di Francesco d’Auria: con un balzo dalla batteria al cajon anche il registro sonoro viene sbalzato verso una nuova dimensione, fresca, autentica, tribale. Il giochetto ingaggiato dalla Iacovini, in cui il pubblico viene sfidato ad indovinare i titoli dei brani, continua con un “aiutino” da parte della cantante «E’ tratto da Porgy And Bess, ma non è Summertime» (cui, per altro, sarà riservato il posto d’onore del bis); quindi i musicisti si preparano alla prevedibile I Love You Porgy.

Ormai giunti al sesto brano bisogna prendere coscienza del fatto che la nitidezza traballante delle note tenute,  le esitazioni sugli acuti ed un’intonazione spesso calante non dipendono da una questione di riscaldamento, ma probabilmente da una serata no della vocalist, accentuata da un’espressività non proprio brillante. E la prima parte del concerto si chiude con Master Blaster in cui Andrea Dulbecco si rende protagonista con un assolo di vibrafono.

Il rientro dei musicisti in scena segna l’inizio della parte più libera ed estrosa del concerto. Parte Fioravanti con uno solo sleppato di contrabbasso e poi D'Auria si cimenta nella "prova" dell'hang, suonato rigorosamente a mani nude: eccezione della serata, I sogni di Piero è un brano origiale del percussionista.
Approfittando della postazione - l'hang si suona seduti, sul cajon in quest'occasione - D'Auria inizia a picchiettare al ritmo, neanche a dirlo, di I Got Rhythm.
Non plus ultra, Summertime segna la fine di un concerto che avrebbe forse necessitato di un po' più di passione e consistenza per essere degna conclusione di Jazz'Appeal 2010.

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ALIFFI- D'AURIA SEXTET
CON MICHEL GODARD

Luogo: Teatro Lirico, Magenta (MI)
Data: 26 novembre 2010
Evento:  Magenta Jazz Festival 2010
Voto: 7

Maurizio Aliffi: Chitarra.
Francesco D’Auria: Batteria e percussioni.
Marco Ricci: Contrabbasso.
Luca Gusella: Marimba.
Beppe Caruso: Trombone e Tuba.
Marco Brioschi: Tromba.
Roberto Martinelli: Clarinetto e Sax Contralto.
Michel Godard: Tuba e Serpentone.

Se vi stupisce vedere tubi pluviali ed atri oggetti impropri su un palcoscenico allestito per uno spettacolo jazz, probabilmente non avete mai assistito ad un concerto di Francesco d’Auria. Se poi trovate singolare che un componente della sua formazione maneggi un ottone colorato di nero a forma di biscione, forse non sapete nemmeno che, accanto al suo sestetto, il percussionista siciliano ha schierato lo special guest Michel Godard. Niente di più normale, infatti, che vedere il musicista parigino destreggiarsi tra questo affascinante serpentone ed una tuba azzurra, sfoderata, al solito, come strumento solista.

Sembra un riferimento esplicito al curioso strumento il primo pezzo, Mamba Nero, aperto e chiuso dai duettanti D’Auria e Godard e composta da Aliffi; il chitarrista è autore anche della successiva Pesci nell’acqua, brano blando ed ondeggiante, accarezzato dal fruscio delle spazzole sulle pelli e dall’archetto sulla marimba.
L’introduzione della successiva Saturnia è affidata al flicorno di Marco Brioschi, che passa subito dopo alla tromba sordinata per l’atmosfera sognante di Un amore (D’auria), creata anche grazie all’assolo di marimba di Luca Gusella.


I giochi di parole sembrano essere un debole dal leader percussionista, che non a caso intitola To Be il suo successivo brano originale. L’escamotage consiste nel percuotere una serie di tubi pluviali di lunghezza differente con dei battenti di gommapiuma pressata e il risultato è un suono ovattato, dolce ed avvolgente. Per I sogni di Piero, D’Auria mette finalmente le mani sull’hang che dall’inizio del concerto campeggia al centro della scena incuriosendo e stuzzicando la fantasia dei meno avvezzi. Il titolo stesso lascia intuire il suono onirico che quello strano aggeggio a forma di UFO è in grado di produrre, soprattutto se supportato dalle note rarefatte della chitarra e dalle successioni sinuose di Godard.


C’è ancora spazio per una composizione a firma Martinelli e per Upupa prima che D’Auria inizi ad agitare vorticosamente un tubo flessibile sopra la testa (una tecnica che affonda le sue radici in primitive pratiche di tele-comunicazione) per introdurre Sottomarini e pattini; il brano è il pretesto per un lungo assolo del percussionista che passa con disinvoltura dalle mazze da timpano alle canoniche bacchette.

A concerto terminato, la metà dei musicisti esce di scena, l'altra metà non intende le intenzioni e resta al suo posto: "abbiamo preparato i bis - sdrammatizza D’Auria al rientro sul palcoscenico - ma non gli applausi». Tri Bop segna la chiusura definitiva di un concerto che ha incantato e divertito il pubblico, mancando tuttavia di un po' di quella verve che generalmente fa la differenza durante un'esibizione live.

 


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Roberto Gatto - I Jazz Ensamble

I JAZZ ENSEMBLE 2010

Luogo: Teatro Sociale, Busto Arsizio (VA)
Data: 22 ottobre 2010
Evento: Eventi in Jazz 2010
Voto: 8


Hanno esordito in ottetto il 18 aprile di quest'anno: freschi di formazione ma non certo di primo pelo, quasi tutti leader di altre band, i musicisti dell'I Jazz Ensemble 2010 si esibiscono sotto la guida di Roberto Gatto. E' proprio la sua batteria a dominare la scena, in posizione insolita e fin troppo enfatica al centro del palcoscenico.
Il repertorio da cui attinge l'ensamble è decisamente vasto: oltre ai molti brani originali ed agli immancabili standards, si aggiungono composizioni rubate ad altri contesti sonori, dalla canzone popolare alla musica da film, come da migliore tradizione jazz.
Il brano scelto per l'apertura è il più che esaustivo biglietto da visita The Swingng Cats, ma è sulla successiva Mushi Mushi (Keith Jarrett) che la sezione dei fiati, condotta da un incontenibile Falzone, mette in mostra tutto il proprio vigore.
Take The Dark Train, composizione originale di Battista Lena, precede il tema fiabesco di Pure Immagination, musica estrapolta dalla colonna sonora di Willy Wonka e riarrangiata in chiave jazz da Roberto Gatto.

Il batterista romano tiene a sottolineare l'eterogenea provenienza regionale dei musicisti riuniti per l'occasione sul palcoscenico del Teatro Sociale di Busto Arsizio; ma è la cultura romanesca che si vuole celebrare col successivo brano: omaggio a Trovajoli, contaminato dal "sentire" del lungo Tevere, il risultato è un'esplosione burlesca di note e citazioni popolari, in cui l'immaginario sonoro è arricchito dalla fantasia dei singoli musicisti. E' così che le bacchettate di Gatto non risparmiano nemmeno il leggio mentre la tromba di falzone sembra ridere divertita.
Ancora una composizione di Gatto, poi King Porter Stomp di Jelly Roll Morton, quindi il gran finale e l'attacco dei "bis" (senza finta, questa volta). La chiusura del concerto è uno sconcertante siparietto da villaggio turistico che vede i musicisti incitare la platea ad intonare il tema dell'ultimo pezzo, indegna conclusione di due grandiose ore di jazz.

Roberto Gatto batteria e direzione musicale
Gaetano Partipilo
sax alto Max Ionata sax tenore
Giovanni Falzone
tromba
Roberto Rossi
trombone
Alessandro Lanzoni
pianoforte
Battista Lena
chitarra
Dario Deidda
contrabbasso e basso elettrico

 

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FRANCO D'ANDREA

www.francodandrea.com

Luogo: Auditorium Cianfarani, Chieti
Data: 25 settembre 2010
Evento: Chieti in Jazz 2010
Voto: 7


Chieti in Jazz 2010 riceve la sua consacrazione sull’altare spoglio dell’Auditorium Cianfarani: non servono fronzoli a Franco D’Andrea, tantomeno ne ha bisogno il suo selezionato pubblico. Austero e solitario come il pianoforte a coda che lo attende sulla ribalta, il canuto pianista si presenta alla platea semplicemente entrando nel vivo della musica: nel gioco di rincorse tra polpastrelli e palmi di mano non risparmia nemmeno un’ottava della tastiera, alternando ai cambi di ritmo il ritorno dei temi.

Round Midnight è solo una tappa del viaggio attraverso il repertorio di Monk, Evans, Ellington, alternato a composizioni originali del performer che sembra voler rendere al pubblico, in poco più di un’ora di sola musica, la sua articolata definizione del termine “jazz”. Il tempo di ringraziare con un frettoloso inchino e D’Andrea è di nuovo alla sua postazione. L’accostamento insistente di alti e bassi cercati agli estremi della tastiera crea una particolare drammaticità, una conversazione tra i personaggi di una racconto da cui affiorano, di tanto in tanto, citazioni di standards.

Prima della rituale uscita di scena finale e successivo rientro tra gli applausi c’è tempo ancora per un paio di brani: un accompagnamento ostinato regge solidamente cinque buoni minuti di pura e virtuosa improvvisazione, mentre la chiusura è affidata ad un’altra composizione a firma D’Andrea.
L’atteggiamento pacato non cambia durante i bis: l’apparente timidezza di uno cortese signore d’antan che fatica a raccogliere gli applausi cela un’ostentata consapevolezza di chi sa di non dovere spiegazioni. Un’ultima planata tra i classici non manca di sfiorare il Gershwin di I Got Rhythm prima che D’Andrea si congedi da un pubblico appagato da un ascolto tanto impegnativo quanto memorabile.

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