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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Giovedì Marzo 28, 2024
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Premessa: Tattoo You è un prodotto che di fatto presenta soltanto due canzoni nuove, Neighbours e Heaven, incise poco dopo l'uscita della prova precedente. Il resto sono outtakes, avanzi di cassetti, ripristini e sviluppi di idee appena accennate.

Ciò malgrado, trattasi di prodotto soddisfacente, per non dire notevole, che celebra il ritorno della band al rock puro e semplice, dopo che si poteva anche chiudere un occhio sulle contaminazioni funky (Some Girls), e peggio ancora discodance (Emotional Rescue) dei tempi recenti, ma con la ferma condizione che si riprendesse presto la strada maestra. It's Only Rock and Roll avranno ripensato i Glimmer Twins quando, verso la metà del 1981, si trovavano di fronte alla necessità di dover assemblare una nuova produzione per sostenere il tour mondiale che sarebbe partito di lì a breve. E da qui la decisione di tornare al primo amore.

 Tattoo You , che ha visto la luce alla fine di quell'agosto, è prodotto atletico e potente, sin dalla prima traccia, Start me up, il più grande successo nelle charts dai tempi di Angie, che ne detta la headline stilistica. Si congiunge senza soluzione di continuità con la brillante Hang Fire, ironica dissertazione sui dissesti finanziari dell'Inghilterra anni '70, "You know marrying money is a full time job/ I don't need the aggravation/ I'm a lazy slob", con coretti alla Who e riff vivaci. Il divertimento contagia, e porta alla naif Little T + A, così innocente e delicata malgrado la frigida interpretazione di Richards, che vi suona praticamente tutti gli strumenti.

La lezione di blues, che non manca mai in ogni lavoro timbrato Stones, consta di due sezioni. Slave è un grottesco, autocompiaciuto inciso strumentale ribadito ad libitum con la partecipazione (la complicità, meglio), nientemeno, di Billy Preston, Sonny Rollins al sax e Pete Townshend ai cori (il ragazzo stava contemporaneamente incidendo Face Dances, il primo parto post-Moon con Kenney Jones alla batteria). Black Limousine, la cui musica è primariamente parto di Ron Wood, funziona sul terreno pesante, e verrà presentata on stage per molti anni a venire. La succitata Neighbours, con quel middle eight forsennato e un Jagger sciatto e cruento come ai bei tempi, chiude la prima parte mantenendo l'acceleratore ben pigiato sul massimo.

Il secondo lato funziona in modo quasi altrettanto efficace. L’unica tristezza è l’impresentabile Heaven, concentrato di guaiti e gemiti senza vergogna, che persino il primo Prince, o la buon anima di Michael, avrebbero rifiutato di incidere. Per fortuna, il resto del materiale è eccellente.

Si parte subito forte, con Worried About You, l’episodio migliore, rhythm’n’ blues rabbioso, fremente, con chitarre tirate e falsetti lancinanti: il crescendo dell’ultima strofa è da antologia, ribollente di adrenalina. Magari, la produzione stoniana post-Exile on Main Street si fosse mantenuta su questi livelli! Tops è una nuova riesumazione: una prima versione era stata registrata una decina d’anni prima, ma non aveva trovato posto né su Goat’s Head Soup né su It’s only rock’n’ roll. Trova dunque una perfetta collocazione qui, con la parte di chitarra dell'ex Mick Taylor salvata dal remissaggio; ancora una volta, come in Start me up e Neighbours, il bridge è un irrinunciabile punto di forza.

No use in crying, cori duri e compatti e machismo a go-go, rappresenta il secondo credito per Wood, che come sempre deve sudar sangue per vedere il proprio nome stampato tra quelli dei compositori. E’ brano ispido e oscuro, che amplia la sezione soul di Tattoo You su versi tipici dell’egocentrismo jaggeriano, misterioso e affascinante. Per contrasto, Waiting on a Friend chiude (in bellezza) il lavoro con una punta d’intimismo. “Don't need a whore, I don't need no booze, don't need a virgin priest/ But I need someone I can cry to, I need someone to protect”. In definitiva, anche a livello di testo, è una classica, seppur accattivante, ballata-Stones che Sonny Rollins arricchisce di una nuova, suggestiva parte di sax.

Visto che è sempre per la musica che un’opera va giudicata, Tattoo you, per quanto raccogliticcio e in più d'una occasione non di primo pelo, è la prova migliore del gruppo da una decina d'anni a questa parte. Il resto della nuova decade, a parte certi sprazzi di Undercover, non sarà altrettanto interessante. Oltrettutto le tensioni Jagger-Richards stavano per acuirsi, mettendo in discussione l'intero futuro della band.

 

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Scintilla bagnata

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jeff buckley - storie di musica di Cesare G. RomanaQuando il fiume lo restituì, Jeff Buckley era un gonfio pupazzo di carne fracida, due ombre per occhi, il viso da serafino devastato dai pesci e dalla corrente. Otto giorni prima, quando il gorgo l'aveva inghiottito, era ancora il più bello tra i travagliati angeli del rock: diafano, lo sguardo sfuggente dei timidi, il sorriso malcerto di chi si porta appresso quella melanconia atavica che fa sentire le donne un po' amanti e un po' mamme. Apparteneva, insomma, alla razza apollinea dei Jim Morrison, dei Jackson Browne, dei Syd Barrett, dei Brian Jones. E di Tim Buckley, suo padre.

Era un crepuscolo di maggio, quando morì. L'aria di Memphis s'imporporava come in un distico di lui, Jeff: «C'è un orizzonte rosso/ fiammeggia urlando i nostri nomi». Buckley aveva lavorato per ore al nuovo disco, ora ascoltava i Led Zeppelin sulla riva del Wolf River, poco lontano cantava il Mississippi. Poi lo videro alzarsi, gettarsi vestito nell'acqua, sparirvi. Si mormorò di suicidio e si vociferò di incidente. Si evocò il fantasma del padre, morto diciotto anni prima di droga, detestato, adorato, eluso, bramato da questo figlio così simile a lui. «Ora, dovunque siano, sono davvero uniti», si consolò alle esequie Ann Marie, sorellastra di Jeff.
Il breve patrimonio della sua vita lo spese a inseguire un fantasma, suo padre. Per decidere se odiarlo o amarlo, esserne il calco o l'antitesi. Concluse il suo inutile viaggio in un gorgo del Mississippi, era il crepuscolo, l'acqua di maggio era tiepida e la morte dovette sembrargli mansueta. Ora, fu detto, lui e l'altro avrebbero potuto incontrarsi.

Questa è la storia di Jeff Buckley, musicista rock annegato a trent'anni. Storia strana ed estrema quella dei Buckley, Jeff annegato a trent'anni, Tim  ucciso dalla droga a ventotto. Mediamente noto, da vivo, il primo, e idolatrato in morte, amatissimo in vita il secondo, e quasi dimenticato poi. Al figlio, Tim aveva trasmesso di tutto: il viso d'angelo, il talento, la voce eterea ed estesa, la voglia e il rovello di vivere. Ma solo per via genetica: Buckley senior se ne andò da Los Angeles che la moglie Mary, diciotto anni, era ancora incinta di Jeff. Approdò a New York lasciando ad entrambi soltanto una canzone sbruffona e dolente d'addio: «Non so nuotare nelle tue acque - diceva alla donna - né tu camminare sulle mie terre». Poi una strofa su quel nascituro «fasciato di amare storie e mal di cuore/ mendico d'un sorriso». Versi feroci e facilmente profetici, ché a Tim bastava guardarsi allo specchio, per sapere come suo figlio sarebbe stato, e di quali patemi sarebbe vissuto.

E' il giugno '66, siamo ad Anaheim, Los Angeles.
Jeff nasce quattro mesi dopo, è il giugno '66. Cresce con Mary, i suoi amanti, una zia e una nonna, senza padre e tuttavia impregnato di lui. Carico di rancore per il suo abbandono, eppure mendico di quel sorriso, in una bipartizione dell'io che è l'anticipo della schizofrenia. Padre e figlio s'incontrano una sola volta, il ragazzo ha otto anni e il padre venti di più, ma una settimana di convivenza non sana il reciproco disagio né rafforza il reciproco radicamento: semmai dovette accrescere, in entrambi, il timore d'un possibile affetto, che nessuno dei due cercava ed entrambi inconsciamente volevano. E che li avrebbe come mutilati, Tim nella sua irresponsabilità vagabonda, Jeff nel suo bisogno d'identità: non il figlio di Tim Buckley, la star, ma semplicemente Jeff Scott Buckley, musicista.

Con quel vuoto dentro Jeff viene su, come vuole la convenzione biografica, "normalmente felice". Ma non troppo: una qualche saggezza già adulta, i capelli, alla nascita, quasi canuti, una connaturata mestizia inducono i familiari a chiamarlo el viejito, il vecchietto. La nonna materna ama citare, guardando il nipotino, Thomas Hardy e il suo Piccolo Padre Tempo: «Era la vecchiaia mascherata da giovinezza, così maldestramente che la sua vera identità trapelava dalle crepe». Ed è come se il piccolo cherubino crescesse con due anime: l'una colma di grazia, l'altra oscura, ribelle, da perseguitato. Mary gli suona le canzoni di Tim, lui dirà a tutti, per anni, di non averne mai sentita una: e intanto gli monta una gran voglia di conoscerlo, l'uomo che lo ha rifiutato. Per adorarlo, chissà, o per ferirlo a morte, per scegliere se esserne il doppio o l'antitesi.

La nonna gli regala una vecchia chitarra, lui si diverte a far rotolare tra le corde biglie di vetro, per cavarne liquescenze e sospiri. E' la radice delle canzoni future.
Quando Mary sposa Ron Moorhead, un meccanico appassionato di rock, Jeff assorbe quella passione ma non riesce a surrogare col patrigno il suo padre fantasma. La metà più ombrosa del suo carattere scatena il sarcasmo degli amici: «Sciocco moccioso», «Tonto caccoloso», «Scotty vasino» sono i soprannomi che gli infliggono, e peggio di tutti «Buckley-Fuckley». Anche per questo, all'asilo, lo iscrivono come Scott Moorhead. Ma alla morte di Tim si riprenderà il cognome paterno: «Non so perché lo faccio. O forse sì", spiegherà, senza spiegare.

Quell'assenza paterna, dunque, scandisce l'adolescenza di Jeff. E con essa la musica: quella che Mary suona al pianoforte o al violoncello (Chopin, Mendelssohn) e poi Bacharah, Edith Piaf, Led Zeppelin, Joni Mitchell. E Jim Morrison, grande amico di Tim. Poi la poesia:in una canzone a lui dedicata, i Cocteau Twins chiameranno Jeff «cuore di Rilke», ma un bisogno di filiazione lo spinge, piuttosto, verso i grandi visionari, quale era stato suo padre: Neruda, Lorca, Ginsberg una cui strofa - «Hipsters con la faccia d'angelo/ ardenti per l'antico contatto celeste/ fluttuanti sulle vette della città contemplando jazz» - sembra il suo ritratto.

Nel '75 Mary scopre che l'ex marito terrà un concerto a Hunkington Beach, un sobborgo di Los Angeles. Ormai Tim è un Icaro bruciato dai sogni e dalle droghe, il suo successo ha scalato il cielo ed è franato giù, nell'anticamera del dimenticatoio. Ma che importa: Mary conduce il figlio al concerto - «era tutto eccitato, gli fiammeggiavano gli occhi, non riusciva a stare seduto». Poi gli presenta il padre. Risultato: un abbraccio di dieci minuti e l'invito a trascorrere insieme le feste di Pasqua. Che, come si è detto, non spianano la strada ad un vero legame: i due sono troppo uguali per scoprirsi complementari, e perché sull'emulazione prevalga l'amore. Un mese dopo un'overdose si porta via Tim, e Jeff non va ai funerali: non l'hanno invitato.

Diventato adulto il giovane Buckley sbarca il lunario da centralinista e da commesso, fa il barista negli stessi locali in cui, smesso il grembiule e imbracciata la chitarra, intrattiene i tiratardi. Finché nel '90, a ventiquattro anni, fa la stessa scelta di Tim: lascia la California, "paese di selvaggi e di gente repressa", e se ne va a New York. Canta negli stessi locali dove aveva cantato suo padre, non dice a nessuno di esserne il figlio ma i meno immemori risconoscono in quell'atteggiarsi da bimbo smarrito la fragilità di Tim, il suo sguardo, la voce estesa ed eterea, intrisa di spleen e di sogni. E quando lo invitano a partecipare a un Tim Buckley Memorial, nella St. Ann's Church di Brooklyn, Jeff s'arrende, ma a patto che nessuno annunci il suo nome. Poi sale sull'altare e canta I never asked to be your mountain, la canzone con cui il padre, venticinque anni prima, si era congedato da Mary. E conclude attaccando Once I was a soldier: «Qualche volta mi domando - urla - se anche solo per un attimo/ ti ricorderai di me».

Ora Jeff Buckley è un musicista noto. Suona alla radio accompagnando, all'harmonium, le declamazioni di Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, tiene applauditi concerti al Sin-é, firma il contratto che gli consente di registrare Live at Sin-é, il suo disco d'esordio. Gira l'Europa e l'America. Le sue sono, formalmente, canzoni d'amore, ma il tema dell'abbandono vi domina e rimanda ad un'altra perdita, mai accettata. «Se solo tornassi da me», sospira in Mojo Pin. «Soffocano il mio nome, così facile da imparare», soggiunge in Lorca. «Non essere come colui che mi ha fatto invecchiare/ come chi ha lasciato dietro di sé solo un nome», chiede in Dream brother. Un giorno, a Parigi, durante un suo concerto, due hippy intonano un brano di Tim. Lui li guarda poi mima, sarcastico, una morte per overdose. A un giornale dichiara: «Che Tim Buckley sia mio padre non è affar mio. Non si dedicava a me, ha aperto delle porte ma io non le ho mai attraversate». Quando, però, gli mostrano una fanzine dedicata a Tim, Jeff la sfoglia, le mani gli tremano, gli occhi s'inumidiscono, vede una foto del padre e sussurra: «Qui doveva avere bevuto". Poi accarezza l'immagine, con una tenerezza che nessuno gli aveva mai visto.

Finalmente ha instaurato, col ricordo paterno, un rapporto positivo, esultano i familiari. E una sera del maggio '97, a Memphis, il giovane ascolta dischi in riva al Wolf River. Il Mississippi scorre poco lontano, il sole tramonta e ricorda una canzone di Jeff, «c'è un orizzonte rosso, fiammeggia urlando i nostri nomi». Gli amici vedono Buckley tuffarsi, vestito, e nuotare fino al gorgo che lo inghiotte. E' l'estrema illusione, il ritorno agognato tra le braccia paterne. E la celebrità ormai inutile, l'alluvione di inediti, gli omaggi postumi, Joni Mitchell che parla di «scintilla che sfreccia nel cielo della notte, verso uno strano posto», Bono che piange «quella pura goccia di suono, in un oceano di rumore».

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Amy WinehouseCon la scusa che nella settimana appena trascorsa avrebbe compiuto 28 anni, s’è tornati a (s)parlare di Amy Winehouse a nemmeno due mesi dalla prematura scomparsa.

Mi sono fatto un giro sui forum, e ne ho tratto lo stesso senso di fastidio di quel momento. La stragrande maggioranza dei commenti è stata ancora una volta sprezzante, al limite con il compiacimento. Si torna a parlare di “talento bruciato”, di “spreco imperdonabile”, da qualche parte ho persino letto che “questi giovinastri ricchi e viziati se la cercano una brutta fine e non meritano pietà!”. Inorridisco. Eppure, se si riesce a non farsi travolgere dall’onda emozionale del momento e a trattenersi dall’ergersi a giudice supremo di chi non si conosce che tramite rotocalco, la riflessione è elementare.

Una persona che ha il dono del genio, di qualsiasi campo si stia parlando, può, purtroppo, non essere altrettanto forte di carattere. Non essere salda mentalmente. Può soffrire per cose che a noi farebbero sorridere, pur non avendo magari il problema (ammetto: vantaggio non da poco) di tirar fine mese. Può, semplicemente, non farcela da sola. Ed allora, forse, non posso che parlare per intuizioni, diventa difficile resistere a tutte le pressioni. A chi da te, superstar, vuole sempre il sorriso sgargiante, il fisico da superman, una lucidità inappuntabile in ogni occasione, un gigantesco, perenne pelo sullo stomaco. E naturalmente non si può sbagliare un colpo, dato che lo showbiz è un ottovolante che ti spara alla stelle e ti precipita alle stalle in un nanosecondo, e chi resiste è deciso, cinico, spietato. Ma il genio s’accompagna, quasi sempre, ad un’eccessiva sensibilità, e spesso alla solitudine. E allora il cocktail può diventare micidiale.

Io penso che esaltare il mito del “club dei 27”, come hanno fatto i media, sia stata una solenne stronzata. In cosa consiste? Un gruppo di celebri personalità della musica accomunati dall’età che avevano al momento del trapasso, arricchito nel luglio scorso proprio dalla Winehouse. Kurt Cobain, Jimi Hendrix, James Joplin, Brian Jones e non so chi altro, forse andrebbero ricordati alle generazioni future come dei talenti tanto eccelsi quanto fragili, certamente come esempi da non seguire a livello umano, ma meritano quantomeno il rispetto accordato a chi, e innegabilmente è il loro caso, è rimasto schiacciato da responsabilità o dolori troppo grandi anche perché, forse, non avevano qualcuno al fianco al momento cruciale. O vogliamo credere che i cortigiani delle superstar siano l’ amico ideale sulla cui spalla piangere alla bisogna? Poi, è chiaro, l’ eroe che cade suscita esultanza nelle anime mediocri. E’ la rivincita della nostra invidia meschina. E tutti allora a (s)parlare, sbraitando insulsaggini e sparando sentenze sull’estro sciupato, su una “fine annunciata” e “meritata”, il che è facile ed a effetto da esprimere, ma anche orribile, disumano.

Così la tragedia lascia spazio al gossip, ai soliti, desolanti “lo sapevo io”, pronunciati in genere da chi non sa nulla, e non può sapere nulla, della vita privata di chi è costantemente sotto l’occhio lungo dei riflettori. Personalmente, mi metto tra questi, perché seppur scrivendo queste righe non sono ancora capace di cambiare questo demagogico, perdente atteggiamento mentale, nel quale tendo ancora, me ne vergogno, a ricadere. Comincerò a mutarlo quando, ripensando a Amy, Kurt e gli altri, tutto quello che saprò provare è il sincero anche se modesto dispiacere per un giovane che muore.

di Alfonso Gariboldi

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Il padre di tutti i concerti di beneficenza ha compiuto quarant'anni.

Era il primo agosto 1971, quando al Madison Square Garden di New York, di fronte a 40.000 persone, un emozionato George Harrison dava il via al Concert for Bangladesh. Fu un kolossal di rilevanza mondiale. Il frenetico mondo del rock, ancora sottosopra dopo una serie di eventi luttuosi che avevano caratterizzato gli anni a cavallo tra i '60 e i '70 (le tragiche fini di Brian Jones, Janis Joplin, Jimi Hendrix e quella, solo un mese prima, di Jim Morrison) veniva ricompattato da un alone di positività e vedeva il nuovo decennio caricarsi di grandi aspettative.

George Harrison s'era sacrificato in un immane lavoro di organizzazione, contatti, mediazioni e diplomazia nel corso della prima metà dell'anno e, forte anche della riacquisita considerazione presso gli addetti ai lavori (il suo esordio "reale" da solista, il triplo All things must pass, aveva riscosso l'unanime plauso di pubblico e critica), riuscì a mettere insieme alcuni tra i più carismatici nomi della scena dell'epoca. In primo luogo, Dylan e Clapton, per i quali in quel momento storico la vetrina del Madison era manna dal cielo. Il menestrello di Duluth proveniva da due dischi, Self portrait (disastroso) e New morning (passabile) che rischiavano di minarne l'alone di infallibilità che s'era costruito negli anni precedenti. Clapton navigava a vista tra supergruppi troppo fragili ed il su e giù d'un pericoloso flirt con l'eroina. Il concerto per il Bangladesh rilanciò prepotentemente le quotazioni di entrambi: la lamentevole chitarra solista di Eric sprigionò (specialmente in While my guitar gently weeps) tutto il suo fascino struggente; Zimmermann ritagliò per sé stesso un concerto nel concerto infilando cinque grandi successi di fila (da A hard rain's a-gonna fall a Just like a woman) nel delirio della folla.

Ma sarebbe riduttivo non citare gli altri musicisti di livello che calcarono in quell'occasione il palco del Madison, da Leon Russel a Billy Preston, che suonava con George (e altri tre amici) nelle sessions di Let it be, Ringo Starr, che presentava la sua hit dell'epoca, It don't come easy, brano che inopinatamente raggiunse le prime posizioni ai due lati dell'oceano, e naturalmente il musicista indiano Ravi Shankar. Alter-ego di Harrison nel progetto, Shankar si riservò l'intera prima parte dello show, inondando la sala con una prolungata jam session di musica sacra indiana. Ma la sua presenza era estremamente funzionale al progetto. Fu lui, che l'aveva introdotto alla conoscenza del sitar, a illuminare Harrison circa le proibitive condizioni di vita cui versavano le popolazioni di quella zona dell'Asia, riportò cifre e statistiche drammatiche, inducendo l’ex-Beatle a lanciarsi nella grande avventura di questo happening. Che, alla fine, fruttò un totale di 243,418.51 dollari, prontamente versati all'Unicef. (Gli incassi delle vendite del disco e del DVD relativi sono tuttora devolute al George Harrison Fund for Unicef).

Il più acclamato fu, ovviamente, lo stesso George, che prestò si dimostrò perfettamente a suo agio nei panni di padrone di casa e chiuse poi lo spettacolo con Bangladesh e l'acclamata Something, l'unico suo brano ad essere comparso su un lato A dei 45 giri dei Beatles.

Non mancarono defezioni eccellenti. McCartney rispose nì poi declinò l'invito. Il ponte tra Lennon e Harrison si sgretolò di fronte al netto diniego di quest'ultimo di lasciar salire Ono sul palco, come John avrebbe voluto. Per una volta Lennon e McCartney si dimostrarono meno infallibili del solito. A corollario dell'enorme successo dello show, Harrison e soci dovettero inghiottire qualche boccone amaro, come il fatto che, per circa un decennio, il capitale destinato alla beneficenza rimase invischiato nelle sabbie mobili di una cieca burocrazia. Ma il Concert for Bangladesh ebbe il merito di aprire la grande era degli spettacoli del genere, tra cui il Live Aid di geldofiana memoria e il più recente Live Eight, solo per citarne un paio.

It's only rock'n'roll, direbbe l'assente Jagger, però in questo caso era stato utile.

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