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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Martedì Dicembre 10, 2024
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Quasi a rendersi conto dell’eccessivo quantitativo di melassa che gravava su “Red rose speedway”, Mccartney imprime una svolta decisa, a livello stilistico, per il disco successivo, “Band on the run”. Poco prima di iniziare (a Lagos) le registrazioni, Seiwell e McCollough salutano la compagnia, da cui il titolo dell’opera; poco male, anzi meglio, visto che quello che scaturirà dalla trasferta nigeriana si dimostrerà un prodotto assai convincente. Torna il rock, opportunamente, con alcune espressioni notevoli quale “Jet”, uno stomp potente ed orecchiabile che pare scaturito dalla session di “The Mess”. Oppure l’elettrica “1985”, dalla scala discendente reiterata ed ipnotica, e il finale glorificato dall’orchestra, prima di una breve ripresa della title track.

 

La quale title track ripropone il recente feeling del Macca coi medley, che in questo caso consta di tre parti di cui l’ultima è introdotta da una pulitissima chitarra acustica e propone il cantabile ritornello che regalerà al singolo omonimo il primo posto di Billboard, oltre che una perfida stilettata ai compagni fuggiti (the rabbits on the run...). Tracce di rock prog anche in “Picasso’s last words”, che però la mette sul leggero e celebra la dipartita del grande artista a colpi di swing e slow-jazz; Ginger Baker, proprietario dello studio di registrazione, è della partita agitando le maracas. Le ultime parole di Picasso diventano un refrain dolce e ossessivo che riempie la mente e le orecchie dell’ascoltatore per quasi sei minuti, senza indurre in sonnolenza.

 

Segno della rinata vitalità della band, che continua a manifestare un minimo accenno di democrazia (i brani sono firmati da Paul e Linda, mentre Danny è coautore di “No words”), è anche l’intrigante semplicità di “Mrs.Vandebilt”, cantilena bucolica sostenuta da un giro di basso elementare, un vorace solo di sax ed asserzioni sagge ed irreprensibili (“What’s the use of worrying? What’s the use of everything? No use!).

 

Ma se uno è McCartney non potrà mai prescindere dalla melodia in senso stretto. Qui uno si allarma: sdolcinature in vista? Niente paura: le espressioni più soavi e gentili di “Band on the run” sono costantemente eccellenti. Il meglio, come sempre accade, è racchiuso in una canzone pressoché sconosciuta, che stranamente non verrà mai eseguita dal vivo, dal titolo “Mamunia”. Trattasi di gentile ballata per voce, chitarra acustica e cori che racchiude in sé la forza e il fascino dell’ambiente naturale dove era stata registrata. Il testo rientra nei clichè “positivi” del Macca, da “Hey Jude” a seguire, per intenderci, celebrando la pioggia come generatrice di vita e mondatrice di peccati…filosofie a parte, è davvero un buon pezzo, una delle gemme nascoste e inconsiderate che talvolta il baronetto dissemina nei propri album. La parte soft di “Band on the run” propone poi “Bluebird”, per la quale le affinità col capolavoro dell’album bianco non si limitano al titolo. Di “Blackbird”, si riprende il tema dello spiccare il volo, in questo caso con l'amata, prima che l’attimo fuggente faccia marameo. Niente basso e batteria, bensì un leggero tappeto di percussioni e il sassofono confidenziale di Howie Casey (vecchia conoscenza amburghese dei fab four).

 

Il contributo di Laine, “No words”, portato a termine con un little help dal suo friend Paul, è una dolce, innocente love song, il cui stile, ironicamente, richiama certe atmosfere harrisoniane. E restando di tema di ex, malgrado la smentita dell’autore, è fin troppo evidente che “Let me roll it” rappresenti un omaggio/attacco a John Lennon. Lo stile di chitarra che richiama, per non dire ricalca, le dure distorsioni di “Cold Turkey”, l’uso massiccio dell’eco. Poi non è nostro compito stabilire se fosse più ficcante il livoroso rancore di John o il mellifluo accomodamento di Paul; il pezzo mantiene lo standard elevato della raccolta e tanto basta.

 

La ristampa in CD presenta anche l’elementare r’n’r di “Helen Wheels”, pubblicata su 45 prima dell’uscita dell’LP. Peraltro, nulla essa toglie o aggiunge ai destini di un lavoro che ottiene un successo meritato, costituito com’è da tracce di notevole fattura. Il livello qualitativo di “Band on the run” riconquistò al Macca il favore di pubblico e critica, lanciando definitivamente la carriera degli Wings.

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Al termine della tourneè mondiale del 1976, immortalata nel possente progetto Wings over America, la band si trovò nella stessa situazione di quattro anni prima: ridotti a trio, lo stesso trio che poi avrebbe dato vita a Band on the run. I desaparecidos erano stavolta il batterista Joe English, che a dispetto del suo cognome se ne tornava in America, e McCulloch, che lasciava per unirsi ai Small Faces. I lavori per il disco nuovo erano già iniziati, così Paul, Denny e Linda si spartirono le parti soliste mancanti e materializzarono quest’ultima prova targata Wings. La peculiarità più evidente è la crescita di Denny Laine nel songwriting, il chitarrista è qui coautore di ben cinque pezzi, la quota più alta mai raggiunta tra i solchi delle Ali. Per inciso si tratta, in tutti i casi, d’episodi notevoli.



Si comincia con la title track: i personaggi della City muti, sconosciuti persino a sé stessi, smog e nebbia che ti sommergono dalle casse, direzioni smarrite: messaggio reso squisitamente con un rock sinfonico a tre voci, uno dei punti più alti della raccolta. Laine si piglia anche una voce solista, nella gentile Children children, intrisa di nostalgico country & western (“Children where are you now, Hiding in the forest playing in the rain - I hope not too far away for me to see again"). Segue Deliver your children,  il miglior pezzo dell'inedita coppia compositiva. Si tratta di un altro esercizio corale, in minore, nervoso, con scambi fulminei ed assai piacevoli tra strofa e ritornello, che ribadisce in sostanza i concetti del brano quasi omonimo succitato: "Deliver your children to the good good life - give'em peace and shelter and a fork and knife..."


La democratizzazione creativa prevede poi la meditabonda Don’t let it bring you down, curiosa con quella strisciante parte di zufolo che s'integra con la distorta di Denny, in un mix dall'effetto suadente. Infine, la "spaziale"  Morse moose and the grey goose, un possente dance-rock definito da quattro accordi chiave di pianoforte, con un cantato quasi rap sul refrain che poi sfocia in ballata sulla strofa. Una canzone che pare stilisticamente la naturale continuazione di 1985, con effetti e feedback a sbiadire sul finale, come da copione.

 


Gli altri brani sono firmati dal solo Paul, e anche qui c'è materiale di lusso. La proposta più notevole potrebbe essere Famous groupies, che riporta alle atmosfere gloriose di dieci (facciamo tredici) anni prima, con quel pizzico di humour che non stona e spruzzate cacofoniche di slide guitar; oppure il rock urbano, deciso di Cafè on the left bank, o anche quello isterico di I've had enough, che si segnala per la coraggiosa scelta dell’inciso su di una sola nota.
Dieci anni dopo Lady Madonna, ecco un nuovo omaggio ad Elvis, probabilmente meno riuscito, denominato Name and Address. Si lascia assai preferire la lunga sessione pop di WIth a little luck, piacevole e ruffiano esercizio scala classifiche, con coretti cinguettati all'unisono e positività a piene mani.

 


Naturalmente non manca, non potrebbe, essendo nella sua natura, il Macca più spiccatamente romantico, nel coccoloso accenno barocco di I'm carrying, gentile e remissiva nella sua vena nostalgica e,  per fortuna, mai pesante. Anche in London Town c’è, come quasi sempre negli album dei Wings, spazio per un medley. E’ la semi strumentale Backwards traveller/Cuff link, discretamente insapore, a dir la verità, poco più che un debole riempitivo. Il pollice verso è tutto per Girlfriend, pasticciaccio disco, dove i ragazzi giocano alla K.C.& The Sunshine Band ma alla fine se ne escono in una brodaglia annacquata che meglio sarebbe stato fermare a livello di intenzioni (la gireranno l’anno successivo a Michael Jackson che ne tirerà fuori una cosa ascoltabile: a Milano dicono, ofelè, fa el to mistèe). Sono queste ultime tracce a livellare il lavoro verso il basso, seppur non di molto.

 

London town resta un prodotto forte e variegato, il migliore dai tempi di Band on the run. E l’anno successivo andrà ancora meglio.

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Sotto il palco

Paul McCarney concerto MilanoQuesta non è una recensione imparziale. Vorrei mettere subito in chiaro le cose, quando ci sono i Beatles di mezzo il concetto di equidistanza mi diventa stranamente sconosciuto. Vien da sé (ma questo vale per tutti i resoconti critici, sebbene in molti sostengano il contrario) che sarà anche molto personale. Dicevamo dunque che questa è una recensione di parte, soggettiva, ma, garantisco, profondamente onesta. Premessa dovuta. La giornata è iniziata presto, un pranzo fugace, la partenza in auto, una coda di sei ore ai cancelli, la ressa all’apertura, la corsa per accaparrarsi un buon posto, e poi l’ultima attesa.

L’imminente apparizione di Paul McCartney è annunciata da un doppio filmato che scorre sui mega schermi collocati ai lati del palco. Immagini di repertorio e icone pop-rock in loop si susseguono fino a smaterializzarsi in astri che vorticano e si raggruppano in una costellazione dal profilo inconfondibile: un basso Höfner. La folla è pronta, le corde della nostalgia sono state toccate, le luci si spengono, e ‘Sir Paul’ fa il suo ingresso: completo scuro, giacca alla coreana, strumento in mano.

Le corde vocali di tutti sono già sotto sforzo quando, dopo i saluti di rito, si inizia con Hello Goodbye. Un balzo indietro di 44 anni, ossia più di quanti ne abbiano molti dei presenti. Dal volume dei cori davvero non si direbbe.

Non vorrei dilungarmi troppo sui dettagli della scaletta, quelli li potete trovare un po’ ovunque, mi limiterò a soffermarmi sui momenti salienti della serata. Vi basti sapere che la selezione spazia dai primi Beatles alla discografia recente, passando per Abbey Road e i Wings.

Le prime lacrime mi bagnano il viso quando parte All my loving, non siamo all’Ed Sullivan, ma sul maxischermo proiettano clip di A Hard days night. Chiudo gli occhi, il resto della band sparisce, accanto a Paul compaiono John e George, e sullo sfondo intravedo la testa ondeggiante di Ringo dietro la Ludwig: scherzi della mente.

Il ritorno alla realtà è immediato ed esplosivo con Jet, l’uso del video wall a volte è un po’ didascalico, ma spesso molto coinvolgente, come durante Helter skelter, a fine serata, quando la musica è accompagnata da un giro sulle montagne russe in soggettiva.

Lui scherza, interagisce con il pubblico in italiano, il copione è scritto parola per parola, ma almeno è un po’ più vario del solito “Ciao, come va? Tutto bene?”.

Purtroppo un vecchio problema che affliggeva i concerti dei Beatles non è stato risolto e si ripresenta: tutti cantano a squarciagola, e spesso le urla sovrastano l’unica voce che meriterebbe di essere ascoltata, inoltre chi ha assistito alla data di Bologna il giorno prima (o ha sbirciato su internet) conosce l’ordine dei brani, e gridando i titoli durante le pause rovina la sorpresa ai vicini. Le mani si alzano sollevando Union Jacks, vinili dei ‘Fab’ e striscioni con dichiarazioni d’affetto o proposte che difficilmente saranno soddisfatte («Why don’t we do it in the road?», domanda una ragazza a pochi passi da me…).

Il tempo purtroppo passa, e l’atmosfera diventa più introspettiva e malinconica con The Long and Winding Road, prima di una serie di performance pianistiche, che precedono il ritorno al periodo “Yeah, yeah!”, celebrato con I’ve Just Seen a Face.

Non mancano i tributi a chi non c’è più, con tanto di sguardo al cielo. Here Today per John, Something in versione ukulele per George, che, per la cronaca, mi provoca la seconda esondazione oculare quando il registro della canzone cambia, tornando all’originale, e sui monitor compaiono foto d’annata di un Harrison giovane e sorridente.

Bella la già splendida A day in the life, fusione perfetta della coppia Lennon-McCartney, che si conclude con Give Peace a Chance, altro omaggio all’ex compagno di viaggio.

La commozione diventa incontenibile, e io non riesco a sottrarmi all’onda emotiva, quando, ripreso il suo posto dietro il pianoforte a coda, esegue Let It Be. Dalle piccole luci di speranza alle fiamme però il passo è breve, e Live and Let Die è letteralmente un’esplosione, con sfere di fuoco che avvampano sul palco, razzi che lo attraversano, e un’ondata di calore che travolge le prime file.

Hey Jude è la festa della partecipazione popolare, con Paul che gioca con il pubblico e le telecamere che indugiano sul parterre, che può vedersi ritrasmesso in tempo reale. A questo punto i più sono rimasti con un filo di voce, ma di certo non il 69enne di Liverpool, che a dispetto dell’età stupisce ancora per estensione, pulizia, ma soprattutto resistenza, un prodigio della natura pensando a certi colleghi che ormai richiamano i fan più per meriti acquisiti che per l’effettivo valore artistico delle loro prestazioni. Un primo bis comprende All You Need is Love, Day Tripper e Get Back, un secondo Yesterday, Helter Skelter e il gran finale con la trilogia di Abbey Road Golden Slumbers -Carry That Weight-The End. E’ davvero la fine, dopo due ore e quarantacinque minuti di musica senza interruzioni.

L’addio è doloroso, il riaccendersi delle luci è inopportuno come il risveglio al termine di un sogno irripetibile. I volti sono stremati, ma appagati, tutti sanno di avere vissuto un’esperienza da raccontare. Il miracolo è avvenuto di nuovo, Paul è apparso a, e soprattutto per, i suoi fan, senza segni di cedimento, senza lasciar trasparire noia o indolenza per un repertorio tutt’altro che inedito. Lui ci ha sempre creduto e continuerà a crederci: il sogno è finito, bisogna andare avanti, ma almeno la memoria è salva. Paul is – not – dead, e finché ne avrà forza continuerà a gridarlo al mondo.

 

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