Ci ha abituati ad uscite di scena eclatanti, suicidi simbolici, morti inscenate, risurrezioni altrettanto sconvolgenti. Anche questa volta - mi dico – è la stessa cosa: “la sua arte vive e rinasce, oggi e per sempre”. Anche questa volta - mi dico – ma non è così.
La stella nera del suo ultimo album, impronunciabile, senza caratteri, senza colori, senza gioia, sembrava preannunciarlo. Le atmosfere tetre, il sapore acre degli arrangiamenti dissonanti, la sua voce (la solita) e i video intrisi di sofferenza si fondono nell’ennesimo capolavoro che Bowie ci ha regalato, festeggiando con l'uscita del videoclip Lazarus il giorno del suo sessantanovesimo compleanno, tre giorni prima della sua morte.
Anche questa volta ci ha stupiti - mi dico – ma sarà l’ultima.
Il rischio di cadere nel luogo comune quando si parla di David Bowie è altissimo. Vorrei cercare di andare al di la della solita definizione di artista camaleontico, dalle mille sfaccettature e mille identità, ecc., e concentrarmi invece solo su questa esibizione, che a Londra è vissuta come un evento irripetibile. A testimoniarlo il numero di prenotazioni: ben prima dell'inaugurazione sono terminati i biglietti acquistabili online per i primi mesi, e da oggi all'11 agosto, giorno di chiusura, non c'è più un solo ingresso disponibile. L'unico modo per tentare di entrare nel mondo di David Bowie is (questo il nome scelto dai curatori) è quello di svegliarsi presto, magari un giorno infrasettimanale, e mettersi in coda un'oretta prima dell'apertura dei portoni del Victoria and Albert Museum (le 10 in punto). Quotidianamente infatti viene messo a disposizione un piccolo numero di biglietti sottratti alla vendita online, ma la domanda è altissima, dunque occorre fare presto e giocare d'anticipo.
Raramente mi è capitato di assistere a un tale fenomeno di euforia collettiva per una mostra. Potere della pubblicità che tappezza ogni vetrina, ogni rivista e ogni stazione dell'Underground o al mondo esistono più fan di Bowie di quanto immaginassi? Difficile rispondere, ma di certo al V&A hanno fatto centro. Perfetta anche la tempistica, quasi sospetta.
A fine agosto, dopo mesi di inattività, David Bowie pubblica un post sul proprio profilo Facebook precisando di non avere partecipato in alcun modo all'allestimento, ma di essersi limitato a concedere ai curatori accesso al proprio archivio privato. Poi inizia la pubblicità, in autunno la copertina di Aladdin Sane, scelta come emblema dell'evento, è un po' dappertutto. A gennaio, contestualmente con l'uscita del singolo Where Are We Now?, viene annunciato il nuovo album, The Next Day, che vede la luce il 12 marzo, dieci anni dopo Reality, il suo ultimo lavoro in studio, e undici giorni prima del vernissage, che avviene in un clima di grande attesa e curiosità.
Il prezzo del biglietto, 14 sterline, è in linea con le altre esibizioni temporanee del V&A, adeguato agli sforzi creativi e tecnici dello staff, e comprende un'audioguida dinamica, connessa via wireless a una serie di trasmettitori posti lungo il percorso, che cambiano automaticamente la traccia a seconda della propria posizione e di ciò che si sta osservando.
La mostra è strutturata principalmente in ordine cronologico, dalla nascita in un vicolo della Brixton post seconda guerra mondiale a oggi, passando per le scorribande spaziali del Maggiore Tom, la nascita e la morte di Ziggy Stardust, Berlino, gli anni Ottanta, le apparizioni cinematografiche e tutto ciò che è stato rilevante nella carriera di un artista che probabilmente è stato più rivoluzionario dei rivoluzionari.
Alla fine degli anni Sessanta, quando tutta la musica rock spingeva verso la spontaneità portata ai suoi estremi, come se lo spogliarsi di ogni orpello fosse l'unica via percorribile per offrire profondità e onestà intellettuale, Davide Bowie prendeva un'altra strada, quella della messa in scena dichiarata, delle maschere, dei costumi, delle identità destinate ad affermarsi e poi sparire per lasciare spazio a un nuovo mondo, della ricerca continua di nuovi se stessi, pur con il pericolo di creare confusione tra il proprio io e la sua rappresentazione. Emblematico in questo senso il video The Mask, in cui un 22enne Bowie mima proprio il rischio di non riuscire più a levarsi dal volto la maschera indossata per compiacere il pubblico.
La collezione esposta nei corridoi e nelle teche è ricca, e per una visita non superficiale richiede almeno due ore e mezza, durante le quali si possono ammirare rarità come i testi scritti a mano di brani come Starman, Life on Mars e Rock 'n' Roll Suicide, bozzetti delle copertine dei suoi album, spesso auto prodotti e frutto della sua fantasia, così come molte scenografie dei suoi concerti, retaggio della sua passione per il teatro, oltre a performance live inedite o poco conosciute (ipnotica la versione di The Man Who Sold The World al Saturday Night Live del 1979, con la partecipazione di Klaus Nomi), e, ovviamente, decine di costumi, significativi quanto la sua produzione musicale.
E' difficile dire se il mito di Bowie avrebbe raggiunto certe dimensioni se si fosse limitato a indossare un jeans e una maglietta negli ultimi 45 anni, ma si può affermare senza possibilità di smentita che per lui l'abito è sempre stato parte del messaggio, quando non il messaggio stesso. La sua apparizione a Top of The Pops nel 1972, con tuta variopinta ispirata nel taglio ad Arancia Meccanica, stivali rossi e look androgino è ricordato come un evento mediatico che ha colpito come uno schiaffo al volto l'Inghilterra più tradizionalista, e stimolato la fantasia dei giovani allora sintonizzati sulla BBC. Perché in un periodo in cui ormai tutti potevano farsi crescere i capelli senza dare nell'occhio, per ribellarsi ad autorità e genitori bisognava giocare altre carte, come quella della confusione dei generi sessuali.
Sotto il tetto del Victoria and Albert Museum in questi giorni ci sono molti dei costumi che hanno scandito il viaggio di un artista che per decenni ha influito direttamente o indirettamente su chi è venuto dopo di lui, e che a volte non ha saputo, o voluto, riconoscere la paternità della propria ispirazione.
Cercare di racchiudere tutto ciò che David Bowie è e rappresenta fra quattro mura non dev'essere stato semplice, ma il risultato è eccellente, così come geniale è la scelta del titolo.
David Bowie is: la frase concludetela voi, se pensate che esista un aggettivo o un'espressione non limitante per il soggetto in questione.
Ultimo album prima della celebre trilogia berlinese, che fortunatamente consta di opere ben più consistenti di questa, Station To Station vede un Bowie non al massimo della forma dare vita ad un lavoro poco fantasioso, con testi ammiccanti al nonsense ed in più parti eccessivamente diluito.
La title track registra una lunghezza inusitata, oltre dieci minuti, ma il dipanarsi della canzone non pare, a livello puramente stilistico, giustificare una tale dilatazione. Il riff di base occupa l’intera prima parte del brano, il ritornello ribadito ossessivamente (It’s Too Late) tutta la seconda. In mezzo giacciono accenni prog non adeguatamente sviluppati ed il tutto si risolve poi in una goliardica festa rock impeccabilmente suonata e con almeno tre minuti di troppo. Una session in scioltezza tra musicisti generosamente trasportata su vinile. Segue il funky lento di Golden Years, che mantiene un tono minore per l’intera durata, offrendo variazioni poco immaginative e mancando dell’intuizione di qualità, del guizzo vincente a far decollare la canzone. Perché un mood tanto dimesso per un testo tutto sommato fiducioso e ottimista? Golden Years dimostrò un buon potenziale commerciale: offerta ad Elvis Presley, venne poi pubblicata dallo stesso Bowie come singolo allorchè il re del rock rigettò l’offerta; nel corso degli anni sarebbe stata tuttavia abbastanza ignorata dal vivo.
Il punto più alto di Station To Station è, facilmente, il caldo lirismo di Word On A Wing, manifesto della nuova dimensione religiosa raggiunta dal Duca, affascinante nel contrasto tra la linearità strutturale della strofa e le complicate intersecazioni delle altre parti. Un deciso step further nella ricerca stilistica del nostro, qui felicemente in grado di sposare gli elementi prog tipici del periodo con il proprio, personalissimo stile creando una delle sue più significative espressioni.
Peccato che la qualità di Word On A Wing abbia scarsi riscontri nelle altre zone di Station To Station. Il Rhythm & blues di TVC 15 è piuttosto insipido, ed anche in questo caso pretestuosamente dilatato e ripetitivo. Il ritornello, nonché il corettino ad opera dello stesso Duca, delinea un pezzo assai poco stimolante, piuttosto indegno del brano che ha seguito; la parte più divertente è il testo stravagante e allucinogeno, che almeno funziona a livello di scherzo.
Appena meglio la track successiva, l’ultima originale, ossia l’hard rock di Stay, che fa parte di quella categoria di pezzi urban nella quale potremmo catalogare tra gli altri i successivi Loving The Alien o This Is Not America; ma anche in questo caso non rappresenta molto di più di un brano d’atmosfera che sfila via senza suscitare particolare impressione.
Oscillante tra il funky rock di Young Americans, le vecchie tensioni glam e gli albori del nascente movimento punk, Station To Station non rappresenta insomma un’opera particolarmente ispirata; tra l’altro Bowie regala solo una trentina di minuti di materiale proprio, scegliendo poi di terminare il tutto con la cover di Wild Is The Wind, che detto per inciso è una delle più memorabili tracce nel disco, ma che ovviamente nulla toglie o aggiunge alla valutazione tecnica dello stesso. Poteva benissimo chiuderlo con Stay, anche se, volendo trovarne un risvolto positivo nella presenza del brano di Dimitri Tiomkin e Ned Washington , il Duca riesce quantomeno ad esaltare (memore di Pin Ups) le proprie qualità interpretative.
Teoricamente sarebbe un buon lavoro di un buon artigiano, ma la valutazione resta bassa in quanto da un David del 1976 si era già abituati a ben altre emozioni. Si rifarà subito, infilando poi una serie di capolavori (Low, Heroes, Lodger Scary Monsters), fino alla svolta brillantina di Let’s dance.
Chiariamo subito un punto. I puristi del suono interamente “suonato”, gli estremisti dello strumentismo, non ascoltino quest’opera. Siamo di fronte infatti ad una nuova fase del Bowie post-ottanta, e stavolta la scommessa è pesante: ricavare un prodotto ascoltabile, o addirittura di valore, utilizzando produzioni ed arrangiamenti pesantemente elettronici, uno stile sostanzialmente predecessore dell’attuale drum’n’bass.
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