Questa non è una recensione imparziale. Vorrei mettere subito in chiaro le cose, quando ci sono i Beatles di mezzo il concetto di equidistanza mi diventa stranamente sconosciuto. Vien da sé (ma questo vale per tutti i resoconti critici, sebbene in molti sostengano il contrario) che sarà anche molto personale. Dicevamo dunque che questa è una recensione di parte, soggettiva, ma, garantisco, profondamente onesta. Premessa dovuta. La giornata è iniziata presto, un pranzo fugace, la partenza in auto, una coda di sei ore ai cancelli, la ressa all’apertura, la corsa per accaparrarsi un buon posto, e poi l’ultima attesa.
L’imminente apparizione di Paul McCartney è annunciata da un doppio filmato che scorre sui mega schermi collocati ai lati del palco. Immagini di repertorio e icone pop-rock in loop si susseguono fino a smaterializzarsi in astri che vorticano e si raggruppano in una costellazione dal profilo inconfondibile: un basso Höfner. La folla è pronta, le corde della nostalgia sono state toccate, le luci si spengono, e ‘Sir Paul’ fa il suo ingresso: completo scuro, giacca alla coreana, strumento in mano.
Le corde vocali di tutti sono già sotto sforzo quando, dopo i saluti di rito, si inizia con Hello Goodbye. Un balzo indietro di 44 anni, ossia più di quanti ne abbiano molti dei presenti. Dal volume dei cori davvero non si direbbe.
Non vorrei dilungarmi troppo sui dettagli della scaletta, quelli li potete trovare un po’ ovunque, mi limiterò a soffermarmi sui momenti salienti della serata. Vi basti sapere che la selezione spazia dai primi Beatles alla discografia recente, passando per Abbey Road e i Wings.
Le prime lacrime mi bagnano il viso quando parte All my loving, non siamo all’Ed Sullivan, ma sul maxischermo proiettano clip di A Hard days night. Chiudo gli occhi, il resto della band sparisce, accanto a Paul compaiono John e George, e sullo sfondo intravedo la testa ondeggiante di Ringo dietro la Ludwig: scherzi della mente.
Il ritorno alla realtà è immediato ed esplosivo con Jet, l’uso del video wall a volte è un po’ didascalico, ma spesso molto coinvolgente, come durante Helter skelter, a fine serata, quando la musica è accompagnata da un giro sulle montagne russe in soggettiva.
Lui scherza, interagisce con il pubblico in italiano, il copione è scritto parola per parola, ma almeno è un po’ più vario del solito “Ciao, come va? Tutto bene?”.
Purtroppo un vecchio problema che affliggeva i concerti dei Beatles non è stato risolto e si ripresenta: tutti cantano a squarciagola, e spesso le urla sovrastano l’unica voce che meriterebbe di essere ascoltata, inoltre chi ha assistito alla data di Bologna il giorno prima (o ha sbirciato su internet) conosce l’ordine dei brani, e gridando i titoli durante le pause rovina la sorpresa ai vicini. Le mani si alzano sollevando Union Jacks, vinili dei ‘Fab’ e striscioni con dichiarazioni d’affetto o proposte che difficilmente saranno soddisfatte («Why don’t we do it in the road?», domanda una ragazza a pochi passi da me…).
Il tempo purtroppo passa, e l’atmosfera diventa più introspettiva e malinconica con The Long and Winding Road, prima di una serie di performance pianistiche, che precedono il ritorno al periodo “Yeah, yeah!”, celebrato con I’ve Just Seen a Face.
Non mancano i tributi a chi non c’è più, con tanto di sguardo al cielo. Here Today per John, Something in versione ukulele per George, che, per la cronaca, mi provoca la seconda esondazione oculare quando il registro della canzone cambia, tornando all’originale, e sui monitor compaiono foto d’annata di un Harrison giovane e sorridente.
Bella la già splendida A day in the life, fusione perfetta della coppia Lennon-McCartney, che si conclude con Give Peace a Chance, altro omaggio all’ex compagno di viaggio.
La commozione diventa incontenibile, e io non riesco a sottrarmi all’onda emotiva, quando, ripreso il suo posto dietro il pianoforte a coda, esegue Let It Be. Dalle piccole luci di speranza alle fiamme però il passo è breve, e Live and Let Die è letteralmente un’esplosione, con sfere di fuoco che avvampano sul palco, razzi che lo attraversano, e un’ondata di calore che travolge le prime file.
Hey Jude è la festa della partecipazione popolare, con Paul che gioca con il pubblico e le telecamere che indugiano sul parterre, che può vedersi ritrasmesso in tempo reale. A questo punto i più sono rimasti con un filo di voce, ma di certo non il 69enne di Liverpool, che a dispetto dell’età stupisce ancora per estensione, pulizia, ma soprattutto resistenza, un prodigio della natura pensando a certi colleghi che ormai richiamano i fan più per meriti acquisiti che per l’effettivo valore artistico delle loro prestazioni. Un primo bis comprende All You Need is Love, Day Tripper e Get Back, un secondo Yesterday, Helter Skelter e il gran finale con la trilogia di Abbey Road Golden Slumbers -Carry That Weight-The End. E’ davvero la fine, dopo due ore e quarantacinque minuti di musica senza interruzioni.
L’addio è doloroso, il riaccendersi delle luci è inopportuno come il risveglio al termine di un sogno irripetibile. I volti sono stremati, ma appagati, tutti sanno di avere vissuto un’esperienza da raccontare. Il miracolo è avvenuto di nuovo, Paul è apparso a, e soprattutto per, i suoi fan, senza segni di cedimento, senza lasciar trasparire noia o indolenza per un repertorio tutt’altro che inedito. Lui ci ha sempre creduto e continuerà a crederci: il sogno è finito, bisogna andare avanti, ma almeno la memoria è salva. Paul is – not – dead, e finché ne avrà forza continuerà a gridarlo al mondo.
Lui si diceva, autocritico fino all’assillo, “compositore di un-pa un-pa, afflitto da balbuzie melodica”. Ché non seppe mai, Fabrizio De André, di essere il gran musicista che illustri sodali, da Piovani a De Gregori, da Pagani a Milesi, onoravano in lui. «Oggi ecco la prova – dice Dori Ghezzi – che non era soltanto un poeta maiuscolo, se dalle sue musiche scaturisce un disco come questo». E indica Sogno n° 1, preziosa raccolta di canzoni di De André, dove è la gloriosa London Symphony Orchestra ad accompagnarne la voce, e sono gli arrangiamenti d’un grande Geoff Westley, registrati negli studi beatlesiani di Abbey Road, a tramutarne le melodie in affreschi sinfonici.
Si parte con Preghiera in gennaio, era un uggioso gennaio del ’67 quando a Ricaldone d’Acqui seguimmo la bara di Luigi Tenco, e Fabrizio quel testo l’aveva appena scritto. Oggi smaltito il dolore e illanguidito il ricordo il brano appare come svincolato dall’asprezza della cronaca, dunque nuovo: un inno solidale, il canto dei suicidi «che all’odio e all’ignoranza/ preferirono la morte» e che rialimenta la voce magica di De André, adagiata su un dolce intrico d’archi e fiati a sostituire l’organo onirico di Gian Piero Reverberi. Cui quarantaquattro anni dopo Westley avvicenda, appunto, reverberi metafisici, controcanti soavi, impennate cocenti, un viaggiare oltre la storia nei retroterra dello spirito.
Poi «luce luce lontana/ che si accende e si spegne/ quale sarà la mano/ che illumina le stelle»: ed ecco il ritmo elastico di Ho visto Nina volare, non c’è batteria, provvedono violoncelli e contrabbassi a scandire la melodia ampia, scritta con Ivano Fossati coautore ispiratissimo. E appare perfino brusco il passaggio da qui alle trasparenze impressioniste di Hotel Supramonte, riletta parrebbe da un Ravel prigioniero sui monti barbaricini intanto che la voce scava nel tumulto dell’anima e vi innesta il nerbo della ragione. E così sia in un caleidoscopio di colori e umori, di più, in una serrata dialettica di emozioni e lucidità: quell’implacabile lucidità di Fabrizio che – diceva Fossati – «fa quasi paura». E’ come se Geoff Westley riarrangiandolo smascherasse l’emozione sottesa di un brano tra i più lancinanti di De André, quell’emozione che lui sopra tutto temeva, senza riuscire a nasconderla.
Ecco perché questo Sogno n° 1 è un album all’apparenza discosto dallo stile, direi dal metodo di Fabrizio, di fatto contiguo alla sua vocazione più profonda, sebbene segreta. E dunque, in fondo, gli sarebbe piaciuto: perché, pur dissociandosene per antico vezzo, vi si sarebbe riletto. Ad onta di certe magniloquenze, di certi calligrafismi insistiti, forse impliciti alla forma sinfonica e, chissà, inevitabili. Ma è il dazio imposto alla passione con cui Westley si è speso in questa fatica commovente. Variamente apprezzabile, diciamolo, e tuttavia intrigante: come nella sbarazzina vivezza con cui viene riletto il Valzer per un amore, brano in sé non memorabile cui nulla aggiunge il canto non intonatissimo di Vinicio Capossela, e molto la nuova orchestrazione. O in Anime salve, rifatta col concorso introspettivo, assorto, lirico di Franco Battiato, sicché questa canzone che esalta la solitudine si tramuta in duetto, fruttuosa incongruenza.
Ma il vertice massimo eccolo in Laudate hominem, il coro conclusivo di La buona novella. Di cui Westley, la London Symphony e il coro diretto da Antonio Greco ricreano gli echi stravinskiani inventati nel ’70 da Reverberi, la fermezza ribollente delle voci e degli ottoni, la declinazione umanistica fatta musica. Aspetto importante, quest’ultimo: che nel rivestire a nuovo le melodie di De André Geoff Westley è arrivato anche al cuore dei testi, ne ha stanato la poesia acre e l’intrinseco umanesimo, e dunque la complicità col canto di Fabrizio, qui mai prevalente sull’orchestra e mai succube di essa, è stata totale.
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