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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Lunedì Ottobre 21, 2024
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Fino a pochi anni prima, sulla copertina dei loro dischi, i Queen imprimevano con orgoglio la scritta: ""And no synthesizers"". E se qualcosa era cambiato dalla pubblicazione di The Game, più di qualcosa stava evidentemente cambiando quando, una bella mattina dell'aprile 1982, i negozi si trovarono inondati dalla nuova fatica dei quattro.

 

Hot Space fu un colpo per i seguaci del gruppo ma anche per l'ascoltatore neutrale, in quando proprio sul sintetizzatore era largamente impostato. Il nuovo album propone, per tutto il primo lato e più sporadicamente nel secondo, venature funky e ritmi prettamente dance. Con premesse simili il rischio di un tuffo nella palta era straordinariamente alto, in quanto, se il cambiamento stilistico fosse rimasto fine a sé stesso, né critici né pubblico avrebbero avuto pietà  della band. Ma la prerogativa di Hot Space è proprio quella, per fortuna, di saper adattare l'elettronica al proprio sound più classico, creando una sorta di «hardn'rhytym» che porta a risultati (quasi sempre) efficaci.

 

Le espressioni più significative di questo new trendy abitano una di fianco all'altra e rispondono al nome di Dancer (di May) e Back Chat (di Deacon), ed il messaggio è trasparente: se proprio bisogna andare in discoteca, ci si va armati sino ai denti, con l'elettrica distorta a furoreggiare da inizio a fine. Il più attratto dal nuovo giocattolo stilistico pare essere, manco a dirlo, Freddie Mercury. Ma se Staying Power, modulata su toni bassi e smorzati, suona piacevole ed elegante, Body Language, che oltretutto i quattro ebbero la brutta idea di pubblicare come lead single, è roba davvero difficilmente digeribile, ricolma di gemiti e urletti ed adornata di un testo vuoto e insulso, quello si, ingrediente abituale delle dance halls di tutto il mondo. L' ingegnosa linea di basso che sostiene (è proprio il caso di dirlo) il brano non basta a risollevarne le sorti. E' anche vero che trattasi dell'unico, vero errore di Hot space, commesso probabilmente per il gusto dell' eccesso, che s'addiceva particolarmente al leader. Le canzoni di Roger Taylor sono accomunate da una ritmica incalzante e messaggi ottimisti: se Action This Day; con la chitarra all'unisono con il levare, è un deterrente alla staticità  di una soffocante esistenza metropolitana, Calling All Girls è l'allegro, sbarazzino richiamo a Play The Game» (of love, naturalmente) e diventa il primo pezzo del batterista a vincersi il lato A di un singolo.

 

Come accennato, il secondo lato dell'album rientra nei canoni più tradizionalmente Queen, e gli spasimi ""discorock"" assumono un profilo più dimesso. A dimostrazione, ecco la seconda prova di Brian May, forse il meno toccato dall'innovazione, che sprigiona la sua classica potenza heavy nella mordace Put Out The Fire. C'è tempo, a questo punto di Hot space, per un paio di momenti lirici davvero coinvolgenti: Life Is Real è la quintessenza del Mercury riflessivo, che omaggia John Lennon con una delle sue melodie più tenere ed emozionanti (e per non lasciare dubbi circa il destinatario della dedica, apre il pezzo con gli stessi tre tocchi di triangolo che iniziavano Starting over, l'ultima canzone incisa da John). Sbigottimento, angoscia, bisogno di certezze: tocca a Las palabras de amor, il Brian più intimo, riportare aspettative, speranza, con un brano acceso di coralità  fiduciose (E il ritornello in spagnolo, per ruffianare il mercato sudamericano). La succitata Calling All Girls e Cool cat, un'inusuale collaborazione Mercury-Deacon lento funky che dà  libero sfogo ai falsetti selvaggi del signor Bulsara, preparano il campo all'ultima traccia del lavoro, che merita tutta l'attenzione. Under Pressure, prima (ed ultima) collaborazione con David Bowie, è un'efficace pennellata glam-rock contro le nevrosi e le insanie della vita odierna, a discapito di rapporti sinceri e duraturi; messaggio in linea con il positive thinking dell'intero album che frutterà  ai quattro (cinque per una volta) il secondo singolo più venduto in assoluto dopo Another One Bites The Dust. E chiude in crescendo questo disco coraggioso ed innovativo, talvolta esagerato, bistrattato (non poteva essere altrimenti) all'epoca e rivalutato negli anni, che influenzerà  in misura variabile la restante produzione Queen del decennio in corso.

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Sarebbe facile liquidare la faccenda con un semplice «Bell'album, ma già  sentito», oppure tentare di spiegarsi il fascino del primo ascolto con un lapidario «Orecchiabile». Perché se l'impatto è quello di una musica piacevolmente familiare, le motivazioni non sono certo così superficiali.

 

Quando ascolterete gli Invisibles non cercate di decifrare influenze, somiglianze, non tentate di incasellarli in definizioni di genere né di cadere nella facile tentazione di un paragone con una lunga serie di più celebri cugini d'oltremanica: potreste averli già  persi vista.

 

Piuttosto bisogna lasciarsi trasportare dal timbro limpido e vibrante del vocalist e polistrumentista Vincenzo Firrera: fin dall'opener Gunny la linea della voce, staccandosi senza conflittualità  da una base elettronica di suoni aspri, distorti e all'occasione dissonanti, crea una sorta di rapporto confidenziale con l'ascoltatore; il finale swingato è una bella sorpresa a conclusione di un brano che già  non ne era privo.

 

Away,, pop esemplare, scorre via con la più classica delle strutture compositive. Con Cabaà§a ci troviamo decisamente più ad est: le scale, sostenute dalle sonorità , si spostano su intervalli mediorientali mentre le chitarre si alternano ed intrecciano in arrangiamenti sofisticati.
Per non farsi mancare nulla arriva anche la lingua francese su una vecchia giostra di valzer musette: «c'est finit» chiosa Vincenzo sullo spegnersi di Interludio.

 

L'ascolto di Good Dream Bad Dream, brano notevole e ruffiano, è un piacere: doppia voce con salto in falsetto di un'ottava, aperture spudoratamente melodiche a pieni strings; e l'effetto è assicurato.

 

Semplicemente chitarra acustica e due voci, passa senza dare troppo nell'occhio Frame. Nella successiva Looser, tra una strofa l'altra, mentre la linea melodica si muove su una struttura decisamente articolata, fa capolino addirittura una tromba, cui poi è affidato il finale: una sorta di botta e risposta free.

 

MIDI file è una sorta di track-spia la cui unica funzione sembra essere sottolineare l'importante componente sintetica dell'album; subito dopo, il classico arpeggio di Leaf prepara al congedo finale. La voce di un homeless ringrazia per gli spiccioli e arriva l'effettiva conclusione con la ghost Brother

 

Fortunatamente Simone Pomini, Matteo Marmonti e Vincenzo Firrera di cose da dire ne hanno ancora parecchie ed è così che trovano uno spazio bonus altre due tracce: la stupenda Emigration Song e una meno esaltante The Army.

 

Ad accrescere il valore di questa scarna formazione, tuttavia, è un elemento che purtroppo non si puಠevincere dall'ascolto di un album: durante l'esibizione dal vivo le idee e i suoni degli Invisibles prendono forma con la massima naturalezza ed espressività  e il riscontro del publico ne è una prova più che soddisfacente.

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In caso sussistano ancora dubbi sul fatto che i Blur rappresentino una delle più creative bands provenienti dal regno di Sua Maestà  tra gli Ottanta e i Novanta, è vivamente consigliato l'ascolto dell'opera omonima del 1997, in genere poco celebrata ma imbevuta di variegate innovazioni che la distaccano dalla massa informe dei gruppi indie-rock dell'epoca.
E'un piacevolissimo viaggio in un genere più colto, più maturo da parte dei quattro trentenni, evidentemente stufi dell'idolatria da teenager, sempre inversamente proporzionata alla considerazione degli addetti ai lavori, per quanto potesse importar loro.

 

Si apre con il middle rock di Beetle Bum, che va oltre il risaputo omaggio ai fab four, creando una melodia coprente e affascinante che non avrebbe ad esempio sfigurato tra i solchi del White Album. Il trash metal di Song 2, la cui sequenza d'accordi ricalca tortuosi sentieri garage punk, e della gemella Chinese bombs, è un gancio sul muso a chi definisce Coxon e soci come i fratellini gentili degli Oasis. In verità , la crescita versatile dei ragazzi, l' ampliamento della ricerca tecnica, è in quest' opera lampante. MOR strizza l'occhio al glam epocale di vent'anni prima senza perdersi in vani scimmiottamenti. E dato che dalla casa discografica avranno fatto notare che per campare ci vuole l'hit single, il gruppo sforna l'allegro tricorde di On Your Own, con quel fare goliardico che trasforma il brano in inno nel refrain. Ironicamente sarà  Song 2 ad avere più successo.

 

Il genio spesso sottostimato di Graham Coxon s'esprime nei 218 secondi di You're So Great, ballata acustico-distorta interpretata in modo sinistramente anticonvenzionale dal chitarrista. Pare che lo stesso sia stato il più acceso promotore di un progresso stilistico non più rimandabile e questo suo pezzo ne rappresenta brillante prototipo. Per il resto, le caratteristiche melodiche insite nel complesso sono presenti in toto. Vedi la colorata fantasia degli arrangiamenti, la dissonanza delle armonie, talvolta agli antipodi delle basi melodiche del brano eppure sempre magistralmente funzionali, vedi la «spazialità » aggiunta al piccolo blues di Country Sad Ballad Man, o la macchina del tempo di Theme From Retro arricchita di un Hammond profumato di psichedelia, o i tocchi trip-hop e la fuzz guitar della malinconia ipnotica di Death Of A Party. Ancora, la dilatazione della pacata Strange News From Another Star, trasportata su un'altra dimensione da un tappeto d' effetti sonori repentinamente disarmonici, che lascia campo al rock caustico di I'm Just A Killer For Your Love, con wah-wah, distorsioni e riffs gracchianti, cesellati insieme in una sorta di caos organizzato.

 

Look inside America rischia uno stridente auto plagio tramite una strofa troppo ammiccante a Country House, prima di virare su un inciso di tutt'altro spessore musicale, corroborato da una piacente parte di piano e arpa nel bridge. Il finale è tutto nel rock elettrico di Movin on. E naturalmente nell'ossessiva Essex Dogs, che riduce a brandelli l'immagine della popband sorridente e inutile con una mini picture soundtrack in minore, che se aspettavano tre anni potevano chiedere ai Radiohead d'inserirla in Kid A, con tanto di ghost track finale.

 

L'eclettismo della band permette ai quattro di evadere dal golden pop corner in cui lo stesso successo di Great Escape li aveva confinati e di assumere finalmente la meritata dimensione internazionale, a livello di critica intendo, perché di pubblico ce l'avevano già  da un decennio ormai, che meritavano. E il meglio doveva ancora venire, anche se sarebbe durato poco.

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Trainato da una manciata di singoli di discreto successo a cavallo dell’oceano, la prova n.14 dell’ammiraglio (Nelson) consiste in un doppio disco che segue la formula della rock opera e della stessa possiede tutte le prerogative: brani legati senza soluzioni di continuità, superflui stralci di dialogo denominati “segue”, e soprattutto una proposta stilistica ad ampio raggio, come succedeva tra i solchi multicolori di Parade o Sign of the Times, o come sarà per il prossimo futuro Emancipation.

 

Non c’è genere lasciato inesplorato nelle tracce di Love Symbol, ed opportunamente trattasi di esplorazioni succose e pregnanti. Nel primo lato è ancora la black side del rocker di Minneapolis ad essere preponderante. Solchi inondati da impronte di funk massiccio sempre dissimile e sempre coinvolgente, sia esso miscelato al jazz sofisticato di Sexy Mother Fucker, che si trasforma sul finale in una festa rhythym’n’blues dominata dal sax, oppure quello di strada di My Name Is Prince, ossessivo e spruzzato di metal, per chiudersi collo snello The Max, assaggio di trip-hop. Pace fatta grazie alle dolci atmosfere di Love to the 90s, flaccido slow per spazzole da batteria, e due dei più classici lenti made in Prince: tra di essi, Damn U si fa preferire a Sweet Baby, per una maggior articolazione del tema melodico. E l’ allegra marcetta reggae di Blue Light, dalla sequenza d’accordi talmente elementari da non parere nemmeno opera di Roger nostro, tiene il morale alto.

 

Dato che proprio non se ne può fare a meno, anche qui il ragazzo inserisce una pestifera roba dance denominata I Wanna Melt With You, ma è l’unica caduta di stile. Porgete piuttosto orecchio, cari ascoltatori, al blusaccio da taverna di The Morning Papers ove il ragazzo slaccia finalmente la museruola alla chitarra e si lancia in soli atrofizzanti, cosicchè uno si ricorda, “ah, si è proprio lui, quello di Purple Rain”, e considera anche che se egli si ricordasse di azionare un po’ più frequentemente il suo talento migliore (quello di chitarrista, appunto) e meno di sbirciare ragazzotte sculettanti (S.M. F. docet) l’astina del livello delle sue produzioni s’alzerebbe ancora di più.

 

Tuttavia uno non è genio a caso, e forse sarebbe troppo uno snaturarsi per lui, il cercare di darsi un minimo di ordine. Ed ecco allora che ti fa incazzare all’ascolto di The continental, hard rock a tutto spiano che chissà perché verso la fine resetta in stucchevoli coretti da amorini sulla spiaggia. Ritira la tavoletta da surf, ammiraglio Nelson, e mostraci anche sul lato B cosa sai fare. Fortunatamente la risposta è: Yes, Sir. Il primo frutto del rinsavimento è Seven, il pezzo di maggior successo di Love Symbol, una piacevole filastrocca corale intessuta di richiami epico- religiosi, nemmeno rarissimi nelle tematiche del principe, nella quale Roger inserisce anche un frammento di un duetto tra Otis Redding & Carla Thomas. Ma un deciso rialzo della lancetta del gradimento scaturisce dall'ascolto del micidiale medley Arrogance/The Flow. E' un’ incandescente cacofonia di hard-funk e r'n'b con i fiati lanciati a dissonanze selvagge, che evidenzia i virtuosismi della sua (semi) nuova backing band, The New Power Generation, che sposata alle intuizioni melodiche del principe scintilla fuochi d'artificio.


Così uno poi si rilassa volentieri, con l’eleganza della raffinata And God Created Woman, ma è una breve oasi di tranquillità. The sacrifice of Victor ributta tutti in pista, ok Mr. Nelson, anche per questo disco ci hai fatto ballare abbastanza, le trombe non ce la fanno più.

 

Così l’ uomo del Minnesota chiude con il finale che ti aspetti e che ci voleva. Ovvero con una traccia di progressive rock in cui rispolvera finalmente la potenza del suo strumento chiave: la chitarra. Three Chains o'Gold è stata da molti vista come omaggio a Mercury vista la struttura "a stadi" che ricalca quella di Bohemian Rhapsody; per quanto mi riguarda è un brano che riafferma, ce ne fosse ancora bisogno, una versatilità con pochi eguali e il fatto che anche in questo album, come in tutte le sue opere più riuscite, il piccolo Roger mostra un'irridente, inarrivabile maestria nel crear musica di qualsiasi sorta, senza paletti. Sempre che lo possa fare in pace, viste le uggiose traversie con le case discografiche a causa delle quali cambierà nominativi e diffonderà per un certo tempo lavori solo sul web. Ma che rimanga un artista con il raro dono della predisposizione al “tutto”, è in quest’opera ampiamente ribadito.

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La pubblicazione di Intensive care, nel 2005,era sostanzialmente servita a ribadire l'appartenenza di Mr. Williams allo status di popstar di fama mondiale,cui era assurto
ormai da alcuni anni. Ebbe anche però la peculiarità di confermare una sensazione già affiorata all'epoca di Escapology: il rischio che l'ormai trentunenne inglese stesse assorbendo i più deleteri crismi del musicista di successo: finto-trasgressivo e poi finto affrancato dallatrasgressione, finto-sofferente e finto-risorto, finto-in crisi e finto-
trionfante.

Cos'era andato perso negli anni? L'impronta personale di Williams, spontaneità, freschezza, un po’ di goliardia, a vantaggio di una formula “costruito-sicuro” i cui effetti artistici risultano, a detta di chi scrive, sensibilmente discutibili.
Manca l'essere realmente ribelle e scanzonato come i primi anni post- “Prendi Quello”.
Gli ultimi dischi, questo compreso, danno l'impressione di svendita, ossia di rinuncia di materiale davvero sentito, davvero genuinamente "Robbie", per privilegiare canzoncine pop-rock impeccabili quanto fredde, tanto orecchiabili quanto impersonali, che avrebbero potuto essere scritte, eseguite, cantate da chiunque altro.

Detto questo, si può poi analizzare il livello tecnico del disco e stabilirne che tutto è gelidamente bello, purtroppo anche troppo spesso deja-vu. L'opening Ghosts sembra il proseguimento di Come Undone, persino a livello di contenuto. Make Me Pure si basa su uno schema di ballata standard con una melodia discretamente "nuova", ma ha bisogno di ben quattro strofe prima di arrivare al dunque di un bridge che porti un'urgente variazione. Alcuni brani tuttavia, è giusto sottolinearlo, includono un qualche tentativo di sviluppo fuori dall'ordinario, come il middle eight della pimpante Spread Your Wings, che sfratta un
previdibilissimo refrain, rinviandolo a fine brano, stravolgendo il tran tran del pezzo. Oppure il primo singolo, Tripping, che vanta un indovinato arrangiamento reggae ed un ritornello meno banale di quanto minacciato dalla strofa. Molto ben riuscito anche Advertising space, cinica cronaca della fine di un mito, che riesce a mantenersi in un tono asciutto ed intimo senza affogare nella pomposità o nella sovrapproduzione.
Il momento migliore è rappresentato dalla struggente Please Don't Die, dove Williams riesce a contentere il suo voluttuoso talento e ad esprimersi in una preghiera accorata ma briosa, assorta ma serena, che cattura in pieno l'ascoltatore. Ma il resto dei brani non
riesce in realtà ad elevare l'opera oltre la soglia del compitino.

Your Gay Friend recupera l'energia primitiva di Life thru A Lens ma è penalizzata da incisi debolucci. Per Sin Sin Sin vale, musicalmente, il discorso di Ghosts, con un rivestimento elettropop che assicura il seguito nelle charts e in disco. Altri pezzi sono poveri d'attrattive, come le consecutive Random Act Of Kindness e The Trouble With Me, quest'ultima col curioso coretto "sudtirolese" a metà e fine corsa.

L'amicizia con Elton John deve aver salvato Robbie dall'accusa di plagio, a meno che sir Dwight non si sia accorto che il riff e il cantato di base di A place to crash siano pressochè
identici al suo vecchio cavallo di battaglia, Saturday Nisht's Alright For Fighting.

La meditativa King Of Bloke And Bird chiude il disco lasciando alcuni interrogativi senza risposta. Onestamente, non siamo ancora pronti per sentire Williams amareggiarsi con frasi come: "Then comes the evening that makes life worth living", come un vecchio disilluso, con il seguito di due minuti di tastiera soporiferamente uguale. Dopo dieci anni di carriera solistica, l'inventiva di Robbie e il suo clan segnala riserva. Serve linfa nuova negli arrangiamenti, nei temi, nei suoni.

Come reinventarsi? La bella sorpresa arriverà due anni dopo con Rudebox. Ascoltate quello, che è meglio.

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