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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Lunedì Ottobre 21, 2024
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Martedì 4 luglio, ore 21. Si spengono puntuali le luci del Teatro degli Arcimboldi di Milano e si accendono quelle di scena: inizia lo spettacolo del menestrello più famoso e influente nella «storia della canzone moderna» trasformatosi - in occasione del tour che ha accompagnato l’ingresso nei suoi 80 anni - da cantastorie a talentuoso pianista, centro gravitazionale di una serata blues memorabile.

 

Attorno a Dylan, disposti e attratti come satelliti in un moto sospeso, i musicisti dell’ensemble danno vita ad un sound fuori dallo spazio e dal tempo: chitarra blues, elettrica e acustica sono affidate ai due strumentisti in prima linea, Bob Britt e Doug Lancio; la steel guitar (alternata all’occorrenza a mandolino e violino) scivola sotto le sapienti dita di Donnie Herron, mentre il bassista elettrico e contrabbassista Tony Garnier veglia alle spalle di Dylan, coordinando la sezione ritmica, che forma insieme al giovane Charley Drayton. In questa atmosfera sonora, accarezzato da una luce fioca e calda, punteggiata dai faretti agganciati ai leggii, avvolto dai velluti rossi del teatro, Bob Dylan sembra decisamente a proprio agio, sereno, quasi di buon umore. È proprio vero «che le cose non sono più come prima».

 

La scaletta, ormai ampiamente sviscerata, prevede una serie di classici stravolti, come da tradizione, fin quasi all’irriconoscibilità, alternati a brani dell’album Rough and Rowdy Ways (2020). Cultura alta e bassa, amare riflessioni sulla condizione umana e sui tempi che viviamo, sono al centro della ricerca dell’ultimo Dylan, portata in scena con modi tutt’altro che «rozzi e turbolenti» in una chiave blues cupa, ipnotica a tratti ossessiva, non priva, tuttavia, di momenti brillanti e scherzosi, vissuti a colpi di note ben piazzate, botta e risposta decisi tra sei corde e pianoforte.

 

Watching the River Flow apre il concerto mentre Dylan prende le misure seduto al pianoforte; è sulle note di Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine che si alza in piedi (lo farà durante tutto il concerto, pur tenendo le mani ben ancorate ai tasti bianchi e neri, sempre inibiti alla vista della platea) quasi a voler cercare un contatto col pubblico. Sarà forse l’evidenza anagrafica ad aver smussato gli angoli di uno degli interpreti più incompresi dai suoi stessi fan, ma sentir uscire dalle sue labbra «Grazie, grazie, vi ringrazio» in modo così spontaneo e cortese, è stato estremamente toccante.

 

I Contain Multitudes riporta alla riflessione, la pacatezza dell’esecuzione rapisce gli astanti, grazie anche ad una performance vocale irreprensibile. Attacco honky-tonk per il blues nostalgico della nuova False Prophet, prima di tornare agli anni ‘70 di When i Paint my Masterpiece.

I brani in scaletta scivolano tra rhythm and blues e accenni rock-n’-roll, arpeggi e riff che si intrecciano, scontrano e poi procedono all’unisono, assoli di chitarra blues e steel, da cui emergono, dirompenti e a tratti dissonanti, le note del pianoforte. A momenti trascendenti, quasi mistici, si alternano siparietti in cui l’imprevedibilità di Dylan è sottolineata dall'atteggiamento dei musicisti intenti, nei passaggi più concitati, a scrutarne l'imperscrutabilità, per interpretare correttamente uno stacco trascinato o la chiusura del brano.

 

Di una cosa sicuramente saremo tutti grati al severo e intransigente Zimmerman: averci evitato il supplizio dei telefonini alzati, degli schermi luminosi, delle distrazioni che ci impediscono di godere in modo autentico dei momenti straordinari. Costringendoci ad ascoltare Dylan ci ha fatto il più regalo più bello, imprimendo indelebilmente questa esperienza nelle nostre memorie (non in quelle sintetiche e caduche dei dispositivi elettronici “usa e dimentica”).

 

Every Grain of Sand chiude l’esibizione, facendo esplodere il pubblico sulle note di armonica dell’assolo finale: sentire il respiro di Dylan che attraversa le lamelle è qualcosa che immancabilmente fa vibrare un fan nel profondo.

Ecco che tra gli applausi si alza e, non senza fatica, si porta alla destra del pianoforte per un saluto al pubblico. Subito dopo, le luci accese e il gran affaccendarsi degli attrezzisti sono un chiaro segnale: Bob Dylan non concederà alcun bis e ci dovremo “accontentare” di quanto concesso fino a quel momento, il privilegio di un accesso riservato, di un viaggio nel tempo e nell'intimità del suo universo sonoro.

Pubblicato in Blues

Quando Ted Neeley morì e resuscitò per la prima volta, artisticamente parlando, aveva meno di trent'anni, e forse non si rendeva nemmeno conto che lui, Yvonne Elliman, Carl Anderson e tutti gli altri, cantando in abiti hippy su melodie rock composte da un semisconosciuto poco più che ventenne di nome Andrew Lloyd Webber, stavano dando vita a uno degli eventi che avrebbe cambiato per sempre la storia del musical, se non la rappresentazione di Gesù nell'immaginario collettivo.

Pubblicato in Musical

Tori Amos agli Arcimboldi

TORI AMOS

Luogo: Teatro degli Arcimboldi, Milano
Data: 7 ottobre 2011
Evento:Tour 2011
Voto: 8


Drappi di velluto spiovono sul palco, luci blu soffuse, un lampadario a candelabro sovrasta un pianoforte a coda e una tastiera. In mezzo, su quella panca, destinata a una serata tutt'altro che tranquilla, tra poco ci sarà lei. Prima mezz'ora di intrattenimento con il giovane cantautore Mark Hole, poi si comincia.

Nella penombra prende posto il quartetto d'archi, unico accompagnamento strumentale, e dopo una breve introduzione appare Tori Amos, anticipata dal brusio della galleria che ha già adocchiato dall'alto i boccoli rossi che ricadono su un abito giallo canarino.

Un inchino d'ordinanza, gli applausi, poi le mani iniziano a muoversi sui tasti e a battere le note di Shattering Sea, prima traccia di Night of Hunters, l'ultima fatica della cantautrice americana, un concept album da lei stessa definita un «lavoro contemporaneo che consiste in un ciclo di canzoni ispirate ai temi della musica classica, usato per raccontare una storia moderna». La vicenda in questione è quella di una ragazza che vive la fine di una storia d'amore, e dopo una notte di dolore riesce a ritrovare se stessa e la forza di rialzarsi.

Come si potrà immaginare le atmosfere sono lontane dai brani della discografia più nota dell'artista, a tratti sono cupe come il cielo della Cornovaglia nei giorni più umidi (non è forse un caso che da qualche anno la Amos viva e registri proprio da quelle parti), ma a volte basta una frase brillante a riportare luce, colore e speranza.

La voce è argentina come sempre, il carisma immutato, le esecuzioni ai limiti della perfezione. Sempre in bilico sulla sua seduta, divisa tra le due tastiere, a volte ammicca al pubblico, altre si racchiude in una relazione quasi estatica con il suo strumento, mentre alterna pezzi recenti alle classiche Winter, Suede, Pretty Good Year, Little Earthquakes.

Le luci seguono in modo altrettanto impeccabile l'evoluzione dello spettacolo: un cielo stellato si accende sullo sfondo, un'esplosione di colore illumina a giorno il palco con riflessi viola e arancio, per contrarsi in un bagliore appena percepibile quando la melodia si fa più malinconica e introspettiva.

Passa un'ora e mezza, poi si alza, saluta, sembra che tutto sia finito, e il pubblico balza in piedi per omaggiarla. Peccato che sia la solita finta, ma purtroppo la folla di irrispettosi che ha abbandonato il proprio posto per avvicinarsi al palco non torna a sedersi, e copre la visuale al resto della platea. Le maschere del teatro Arcimboldi, che fino a qualche minuto prima si affaccendavano anacronisticamente per bloccare qualsiasi tentativo di catturare video o foto, sono sparite, ormai l'anarchia ha preso il sopravvento, e devo rassegnarmi a seguire gli ultimi scampoli della performance attraverso gli spiragli che si aprono di tanto in tanto davanti a me.

La chiusura è Big Wheel, i cinque minuti più movimentati di tutta la serata, forse una scelta non del tutto coerente con il resto della scaletta, ma comunque gradevole e apprezzata dagli astanti, che seguono il ritmo battendo le mani, incitati dalla stessa Tori, che, veloce e discreta come si era presentata, scompare dietro le quinte, lasciando dietro di sé una scia di talento puro screziato di sofferenza.

Pubblicato in Pop

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