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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Martedì Aprile 23, 2024
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Jaco Pastorius - Storie di Musica

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Il viso scarno, con l’ardore degli occhi e le labbra enormi, aveva una sua contrastata bellezza: con un’idea di carnalità, che stregava le donne, e un che di ascetico, che intrigava tutti. Rammentava, dissero, quello di Akenhaton, il faraone eretico e poeta. Del resto eretico, Jaco Pastorius, lo fu la sua parte: per come d’uno strumento gregario, il basso, fece un protagonista assoluto; per come smantellò le convenzioni del jazz con iniezioni di punk, psichedelia, Bach, funk, rhythm and blues; per come dalle quattro corde del suo strumento trasse di tutto: il sospiro d’un violoncello, i pigolii d’un violino, la levità d’una chitarra, i singulti d’un sax. E come spesso è capitato agli eretici, non morì di vecchiaia, né nel suo letto.

John Francis Pastorius nacque nel ’51 a Norristown, in Pennsylvania. Il padre, batterista jazz, gli insegnò ad usare bacchette e rullante, il suo sogno, in realtà, era diventare campione di baseball ma una pallonata, a 13 anni, lo sventò per sempre, fratturandogli un polso. Non restava che la musica e Jaco, da autodidatta, imparò a suonare il basso elettrico, la chitarra, il pianoforte, il sassofono. Due anni dopo i suoi si lasciarono: assistere impotente alla fine della sua famiglia aprì una ferita che non si sarebbe mai chiusa e due matrimoni falliti, divenuto adulto, l’avrebbero resa più dolente.

Per anni lo aiutò ad occultarla quel suo orgoglio di perdente che non voleva perdere, imparato sui campi di foot-ball e di baseball . Seguì il padre a Fort Laudendale, in Florida, a Miami imparò i ritmi ipnotici dei Caraibi, quei suoni gonfi di sole. Suonò in vari gruppi, col suo basso cui aveva tolto i tasti, spalmandolo di vernice impermeabile per barche: donde quel suono unico, carnoso, adatto ai fiati lunghi della melodia più che alla secchezza del ritmo. Transitò  nei Bakers Kozen, con Paul Metheny, e nei C.C. Riders, il cui leader gli disse: «Sei un meraviglioso, fottuto bassista, hai anima, suoni da ingordo, per notti intere». Poi conobbe Joe Zawinul, lo Zawa-head - capo - dei Weather Report. Gli si presentò col suo vestito stazzonato e i capelli aggrovigliati come serpi, disse: «Sono John Francis Pastorius III, il più grande bassista del mondo». E Zawinul: «Porta il tuo culo fuori di qui». «Ma ho preparato un nastro, almeno lo ascolti». Zawinul ascoltò: «C’è un sacco di strumenti, perché non hai usato anche il basso?». «Ho usato solo quello».

Nacque un’amicizia, e più avanti Jaco entrò nei Weather Report. Per loro scrisse Teen town, su un club di Fort Laudendale dove, da ragazzo, suonava per i coetanei. Le  sue esibizioni sul palco - «fiammeggianti», le definirono i critici - dilatarono la popolarità della band. Zawinul racconta: «Mi ricordava quand’ero un ragazzaccio invadente, mi presentai a Cannonball Adderley e gli dissi: “Sono il più cattivo“. Jaco aveva addosso una specie di magia, la stessa di Jimi Hendrix».

Quattro anni, e intanto la vecchia ferita continuava a dolere. Inasprita dalla fine del matrimonio con Ingrid, che gli aveva dato due gemelli, Julius e Felix. «Quando doveva suonare in città - racconta l’ex moglie - lo capivi dall’attesa eccitata che si spandeva nell’aria: che so, un’energia misteriosa, una specie di ronzio. Bastava informarsi su quando avrebbe suonato, e dove». Si conobbero, vissero insieme, «lui amava falciare l’erba del prato, riparare l’impianto elettrico, ridipingere le pareti. Con i figli era perfetto, li faceva sentire speciali, gli insegnava i suoi giochi di prestigio imparati in tournée con Joni Mitchell. Ricordo i campeggi, le gite in barca, le serate sulla spiaggia. E quando si esercitava a suonare: ore e ore, ogni volta rappresentando lo spettacolo della sua vita». Così nacquero Mr GoneHeavy weather, Punk jazzRiver people, Three views of a secret, ogni titolo un destino.

Ma la fine della sua famiglia d’origine gli aveva inoculato, a quest’uomo assetato di famiglia, i germi del nomadismo. Nel momento in cui vide in Zawinul la controfigura d’un padre, lo prese una voglia selvaggia d’andarsene. Disse a Zawinul: «Voglio guardare il mondo attraverso i miei occhi». E fondò i Word of Mouth. Ma la vecchia ferita, dal subconscio, non s’acqueta, anzi preme per salire alla luce. Il primo album solista di Jaco s’apre con un titolo premonitore, Chrisis: una corsa a rompicollo verso il baratro, tutti gli strumenti sobillati dal galoppante basso continuo di Jaco. E poi la melanconia raggelata di Views of a secret, a contrasto col solare miraggio di Liberty City. E la "Fantasia cromatica" di Bach reinventata come un poema spettrale, il beatlesiano Blackbird col basso elettrico che canta come un contrabbasso, l’arredo urbano di Word of mouth, John and Marie elegia metafisica, oltre la vita. Fin troppo ispirato, per i tempi che corrono: figuratevi Chagall a fare il designer in una fabbrica di computer. «Pastorius era buono, gentile - dice un amico -, portava il cuore sulla camicia: inerme, insomma. Specie nei confronti dell’industria musicale, che lo avrebbe masticato e poi sputato via». Il disco è comunque un successo, la fama di Pastorius sfiora le stelle. Lo chiamano «il Duke Ellington della nuova generazione», «il futuro Miles Davis». Joni Mitchell, che lo ha al suo fianco in Hejira, vede in lui «la faccia dell’uomo sulla luna», la vertigine dei suoi assolo lo mostra egualmente connesso - dirà Metheny - col cielo e la terra.

Ma naufragò anche una nuova unione, quella con Tracy. E l’antica ferita ne trasse pretesto per salire alla luce, suppurò. Un medico la definì «depressione maniacale bipolare», male oscuro per il quale, allora, non c’erano cure. Jaco ne inventa una: alcol e cocaina. Il resto è notti su notti senza dormire, i morsi della paranoia, l’autodistruzione inseguita con cocciuto puntiglio. Senza la vicinanza paterna di Zawinul il male monta, «l’uomo sulla luna» diventa un oltraggioso attaccabrighe, le sue stramberie fanno titolo. Un tour giapponese, nell’82, fu un interminabile incubo. Lo arrestarono che girava nudo, su una moto, per le vie di Tokyo, sul palco pareva voler sabotare la sua band: se era sobrio ritrovava, d’incanto, la vecchia magia, se era ubriaco arrivava in scena con la faccia impiastricciata coi pennarelli, si lanciava in corse folli, troncava un assolo e usciva, poi rientrava e suonava sequenze insensate, insultava la platea, faceva a cazzotti con i suoi musicisti.

Nell’83, a Rimini, precipita dal balcone d’un hotel: sei metri di volo, un polso e tre costole rotte. A un festival provoca un tumulto e lo trascinano giù dal palco, rimpatriato passa sei settimane al reparto psichiatrico del Bellevue Hospital: forte depressione con atteggiamenti paranoidi, dice la prognosi. Dimesso, gira scalzo per le vie di New York, insultando i passanti. E continua a «curarsi» con bourbon e droghe. Finché di nitido, nella sua mente, resta solo la voglia di distruggersi. Dice Othello Molineaux, musicista della sua band: «Aiutarlo non fu possibile: era un guscio vuoto, lo spirito se n’era andato. L’anima che lo aveva protetto per anni, nei momenti di desolazione e nelle notti insonni, non c’era più: lasciò che lo abbandonasse».

Tornò a Fort Lauderdale ridotto a uno spiritato fantasma. L’eretico sconfitto aveva decretato da solo il proprio autodafé. Una sera del settembre ’87 saltò sul palco dove suonava Carlos Santana, interruppe il concerto con lazzi e grida, fu malmenato e cacciato. Vagò fino alle quattro di notte per le vie suburbane, si fermò davanti a un club malfamato, forse cercava droga, forse una donna. Ma l’ingresso era riservato ai soci: il portiere chiamò il buttafuori, il buttafuori chiamò il proprietario. Costui, un omaccione, atterrò l’intruso a colpi di karate: la polizia trovò Jaco bocconi sul marciapiede, il cranio sfondato. Ricoverato, impiegò nove giorni a passare dal buio relativo del coma a quello assoluto della morte. Aveva trentacinque anni.

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Giradischi - Le speculazioni sul vinile«...si',ma due sono vinile blue,vuoi mettere!»

Ormai anche gli amanti del vinile sono spacciati. Ho fra le mani il catalogo delle ultime uscite "vinilitiche": Achtung Baby degli U2, disco mediocre, esce in versione 4 LP: due di colore blue, con una valanga di remix, tracce inedite, rare B-sides, alla modica somma di cento euroni.

Poi scorgo Nevermind di Kurt Cobain e soci. Sono riusciti a dilatare anche questo in 4 LP de luxe edition: fioccano inediti (?), rarità ed altre amenità. La cifra è sempre un centino.
Per non parlare di gente tipo Jimi Hendrix, Doors, Beach Boys, ecc. L'appassionato dovrebbe acquistare almeno dieci edizioni dello stesso disco. La lista e' lunga ed abbraccia ogni genere musicale. Cosa sta succedendo?

La RIIA, Recording Industry Association of America (ve lo ricordate il logo sui vecchi Capitol?), l'ente che ha il controllo dell'andamento del mercato statunitense dei vari supporti musicali, ha sentenziato il crollo nella vendita dei supporti "fisici". Sta aumentando rapidamente, invece, quella dei supporti "liquidi", anche se il download illegale ed il P2P ci stanno dando dentro. Stiamo parlando di un crollo del 25% nelle vendite dei CD.

Nello stesso momento la vendita del vinile aumenta ad un ritmo del 23% l'anno. Era dal 1990 che non avevamo queste cifre: 4/5 milioni di pezzi, sempre "robetta", ma il trend e' netto. Business is business, ed il mercato del vinile è in espansione.

Ecco quindi il prolifierare di inutili riedizioni 180gr/200gr a prezzi esorbitanti. Belle copertine cartonate (quelle USA di una volta), magari ad album, qualche foto inedita ed il gioco è fatto. Ufficialmente, la scusa è che vengono utilizzati i masters originali. Non scherziamo. Edizioni jazz anni 50, già spremute mille volte, vengono rimasterizzate dai cd. Avviene un aumento generale del volume degli strumenti incisi, appiattendo la dinamica. Bella forza. Il mercato è speculazione e si inventa sempre nuovi sbocchi. Siamo noi che cadiamo nella trappola.

Va bene il feticcio anti-tecnologico. Va bene l'effetto nostalgia degli anni andati. The summer of love! Facciamoci furbi.

 

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Respect Tradition

ERIC SARDINAS & BIG MOTOR

www.ericsardinas.com/

Luogo: Live Music Club, Trezzo sull'Adda (BG)
Data: 13 ottobre 2011
Evento: Tour 2011
Voto: 7


Egocentrico, esuberante, per alcuni eccessivo, Eric Sardinas fa parte di quella categoria di musicisti che una volta venivano definiti “animali da palcoscenico”.

Selvaggio, indemoniato, sudato nei pantaloni a zampa neri e attillati, con il cappello da cowboy calato sugli occhi, gli anelli in bella vista, lo slide al mignolo sinistro e l’inseparabile chitarra resofonica elettrificata a tracolla, Sardinas irrompe sul palco, da solo, passando sotto il telo nero ancora mezzo abbassato, parla al pubblico, si dimena battendo il tempo con i suoi stivali a punta sulle assi rimbombanti e non lesina pose plastiche e assoli funambolici di fronte agli obbiettivi della macchine fotografiche.

Questa, però, non è altro che la cornice. Nell’esibizione di Eric Sardinas e dei Big Motor c’è anche tanta, tantissima sostanza: c’è il blues, quello sporco e genuino del Delta del Mississippi, c’è il rock’n’roll scatenato degli anni ‘50 e ‘60, c’è l’influenza del gospel e dei grandi chitarristi degli anni ‘70, su tutti Jimi Hendrix. Con grandissima abilità tecnica e uno stile chitarristico innovativo, Sardinas trae spunto dalla tradizionale musica nera americana per creare una miscela unica, indefinibile ed esplosiva.

La scaletta proposta questa sera ripercorre, in un’ora e mezza abbondante, il percorso musicale intrapreso più di dieci anni fa dal chitarrista-cantante originario della Florida e spazia dal southern rock di Road To Ruin al rock’n’roll di Full Tilt Mama, tratte dal nuovissimo album Sticks and Stones, dal blues di Down to Whiskey alla strumentale Texola, tratte da Devil’s Train, fino all’attesissima I Can’t Be Satisfied.

La formazione di tre soli componenti è perfetta: mentre Sardinas lascia correre le sue mani lungo il manico della chitarra con una rapidità e naturalezza disarmanti, alle sue spalle il Big Motor composto da Chris Frazier alla batteria e da “big man Levell Price al basso supporta la veemenza del frontman con ritmiche scarne, precise e possenti.

Prima dei consueti bis c’è spazio per due pezzi acustici, due ciliegine sulla torta che vedono protagonisti, sotto le luci soffuse e nel silenzio generale, il solo Sardinas e la sua chitarra. I suoni ruvidi e la straordinaria intensità emotiva delle interpretazioni di un classico del repertorio delta-blues di Robert Johnson e della sua 8 Goin’ South ci portano, per qualche breve istante, in un luogo e in un tempo lontani e a noi sconosciuti.

Il concerto si conclude con l’inchino dei tre musicisti a raccogliere i meritati applausi. Il pubblico, benché non numerosissimo, risponde con grande calore e credo che tutti, anche i più scettici e i puristi, siano usciti con la convinzione che Eric Sardinas sia, prima che un animale da palcoscenico, un vero bluesman, uno che ha fatto del motto “Respect tradition!” il proprio credo.

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Amy WinehouseCon la scusa che nella settimana appena trascorsa avrebbe compiuto 28 anni, s’è tornati a (s)parlare di Amy Winehouse a nemmeno due mesi dalla prematura scomparsa.

Mi sono fatto un giro sui forum, e ne ho tratto lo stesso senso di fastidio di quel momento. La stragrande maggioranza dei commenti è stata ancora una volta sprezzante, al limite con il compiacimento. Si torna a parlare di “talento bruciato”, di “spreco imperdonabile”, da qualche parte ho persino letto che “questi giovinastri ricchi e viziati se la cercano una brutta fine e non meritano pietà!”. Inorridisco. Eppure, se si riesce a non farsi travolgere dall’onda emozionale del momento e a trattenersi dall’ergersi a giudice supremo di chi non si conosce che tramite rotocalco, la riflessione è elementare.

Una persona che ha il dono del genio, di qualsiasi campo si stia parlando, può, purtroppo, non essere altrettanto forte di carattere. Non essere salda mentalmente. Può soffrire per cose che a noi farebbero sorridere, pur non avendo magari il problema (ammetto: vantaggio non da poco) di tirar fine mese. Può, semplicemente, non farcela da sola. Ed allora, forse, non posso che parlare per intuizioni, diventa difficile resistere a tutte le pressioni. A chi da te, superstar, vuole sempre il sorriso sgargiante, il fisico da superman, una lucidità inappuntabile in ogni occasione, un gigantesco, perenne pelo sullo stomaco. E naturalmente non si può sbagliare un colpo, dato che lo showbiz è un ottovolante che ti spara alla stelle e ti precipita alle stalle in un nanosecondo, e chi resiste è deciso, cinico, spietato. Ma il genio s’accompagna, quasi sempre, ad un’eccessiva sensibilità, e spesso alla solitudine. E allora il cocktail può diventare micidiale.

Io penso che esaltare il mito del “club dei 27”, come hanno fatto i media, sia stata una solenne stronzata. In cosa consiste? Un gruppo di celebri personalità della musica accomunati dall’età che avevano al momento del trapasso, arricchito nel luglio scorso proprio dalla Winehouse. Kurt Cobain, Jimi Hendrix, James Joplin, Brian Jones e non so chi altro, forse andrebbero ricordati alle generazioni future come dei talenti tanto eccelsi quanto fragili, certamente come esempi da non seguire a livello umano, ma meritano quantomeno il rispetto accordato a chi, e innegabilmente è il loro caso, è rimasto schiacciato da responsabilità o dolori troppo grandi anche perché, forse, non avevano qualcuno al fianco al momento cruciale. O vogliamo credere che i cortigiani delle superstar siano l’ amico ideale sulla cui spalla piangere alla bisogna? Poi, è chiaro, l’ eroe che cade suscita esultanza nelle anime mediocri. E’ la rivincita della nostra invidia meschina. E tutti allora a (s)parlare, sbraitando insulsaggini e sparando sentenze sull’estro sciupato, su una “fine annunciata” e “meritata”, il che è facile ed a effetto da esprimere, ma anche orribile, disumano.

Così la tragedia lascia spazio al gossip, ai soliti, desolanti “lo sapevo io”, pronunciati in genere da chi non sa nulla, e non può sapere nulla, della vita privata di chi è costantemente sotto l’occhio lungo dei riflettori. Personalmente, mi metto tra questi, perché seppur scrivendo queste righe non sono ancora capace di cambiare questo demagogico, perdente atteggiamento mentale, nel quale tendo ancora, me ne vergogno, a ricadere. Comincerò a mutarlo quando, ripensando a Amy, Kurt e gli altri, tutto quello che saprò provare è il sincero anche se modesto dispiacere per un giovane che muore.

di Alfonso Gariboldi

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Il padre di tutti i concerti di beneficenza ha compiuto quarant'anni.

Era il primo agosto 1971, quando al Madison Square Garden di New York, di fronte a 40.000 persone, un emozionato George Harrison dava il via al Concert for Bangladesh. Fu un kolossal di rilevanza mondiale. Il frenetico mondo del rock, ancora sottosopra dopo una serie di eventi luttuosi che avevano caratterizzato gli anni a cavallo tra i '60 e i '70 (le tragiche fini di Brian Jones, Janis Joplin, Jimi Hendrix e quella, solo un mese prima, di Jim Morrison) veniva ricompattato da un alone di positività e vedeva il nuovo decennio caricarsi di grandi aspettative.

George Harrison s'era sacrificato in un immane lavoro di organizzazione, contatti, mediazioni e diplomazia nel corso della prima metà dell'anno e, forte anche della riacquisita considerazione presso gli addetti ai lavori (il suo esordio "reale" da solista, il triplo All things must pass, aveva riscosso l'unanime plauso di pubblico e critica), riuscì a mettere insieme alcuni tra i più carismatici nomi della scena dell'epoca. In primo luogo, Dylan e Clapton, per i quali in quel momento storico la vetrina del Madison era manna dal cielo. Il menestrello di Duluth proveniva da due dischi, Self portrait (disastroso) e New morning (passabile) che rischiavano di minarne l'alone di infallibilità che s'era costruito negli anni precedenti. Clapton navigava a vista tra supergruppi troppo fragili ed il su e giù d'un pericoloso flirt con l'eroina. Il concerto per il Bangladesh rilanciò prepotentemente le quotazioni di entrambi: la lamentevole chitarra solista di Eric sprigionò (specialmente in While my guitar gently weeps) tutto il suo fascino struggente; Zimmermann ritagliò per sé stesso un concerto nel concerto infilando cinque grandi successi di fila (da A hard rain's a-gonna fall a Just like a woman) nel delirio della folla.

Ma sarebbe riduttivo non citare gli altri musicisti di livello che calcarono in quell'occasione il palco del Madison, da Leon Russel a Billy Preston, che suonava con George (e altri tre amici) nelle sessions di Let it be, Ringo Starr, che presentava la sua hit dell'epoca, It don't come easy, brano che inopinatamente raggiunse le prime posizioni ai due lati dell'oceano, e naturalmente il musicista indiano Ravi Shankar. Alter-ego di Harrison nel progetto, Shankar si riservò l'intera prima parte dello show, inondando la sala con una prolungata jam session di musica sacra indiana. Ma la sua presenza era estremamente funzionale al progetto. Fu lui, che l'aveva introdotto alla conoscenza del sitar, a illuminare Harrison circa le proibitive condizioni di vita cui versavano le popolazioni di quella zona dell'Asia, riportò cifre e statistiche drammatiche, inducendo l’ex-Beatle a lanciarsi nella grande avventura di questo happening. Che, alla fine, fruttò un totale di 243,418.51 dollari, prontamente versati all'Unicef. (Gli incassi delle vendite del disco e del DVD relativi sono tuttora devolute al George Harrison Fund for Unicef).

Il più acclamato fu, ovviamente, lo stesso George, che prestò si dimostrò perfettamente a suo agio nei panni di padrone di casa e chiuse poi lo spettacolo con Bangladesh e l'acclamata Something, l'unico suo brano ad essere comparso su un lato A dei 45 giri dei Beatles.

Non mancarono defezioni eccellenti. McCartney rispose nì poi declinò l'invito. Il ponte tra Lennon e Harrison si sgretolò di fronte al netto diniego di quest'ultimo di lasciar salire Ono sul palco, come John avrebbe voluto. Per una volta Lennon e McCartney si dimostrarono meno infallibili del solito. A corollario dell'enorme successo dello show, Harrison e soci dovettero inghiottire qualche boccone amaro, come il fatto che, per circa un decennio, il capitale destinato alla beneficenza rimase invischiato nelle sabbie mobili di una cieca burocrazia. Ma il Concert for Bangladesh ebbe il merito di aprire la grande era degli spettacoli del genere, tra cui il Live Aid di geldofiana memoria e il più recente Live Eight, solo per citarne un paio.

It's only rock'n'roll, direbbe l'assente Jagger, però in questo caso era stato utile.

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