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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Giovedì Aprile 18, 2024
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Elfo sfuggente

Prince - Storia di musica di Cesare G. Romana

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Quella sera dell'88 che conobbi Roger Nelson, principe di Minneapolis, il Bois de Boulogne illanguidiva nel plenilunio parigino e nell'umidità novembrina. La limousine arrivò sul viale dove i trans magrebini esponevano al gelo i petti ricolmi e lui, dunque Prince, scese in una nube di visone: ché così lo si immaginava e tale apparve. Il party in suo onore era in un restaurant vicino, dopo un concerto a Bercy il cui titolo, Lovesexy, rendeva giustizia ai temi prediletti dal suo autore. L'elfo entrò, gettò la pelliccia e salutò tutti, camerieri cronisti e vip, col cortese distacco d'un re. Vestiva di seta, altissimi i tacchi, il bellissimo volto esaltato dal trucco. Spiazzò l'arrembaggio dei cronisti con risposte che erano musica pura: un sussurro melodioso, un carezzevole fruscio di vaghezze. C'era in un angolo un pianoforte: lo guatò, gli sorrise come chi sa che anche gli oggetti hanno un'anima, e lui l'aveva vista fluttuare nel bianconero dei tasti.

L'incontro non dissipò il mistero che avvolgeva i moventi del suo genio e le sue sapienti incongruenze: come un utero e insieme un salvacondotto verso il successo. Poche e incerte le tappe della sua biografia: nato nel 1958, o forse nel 1960, a Minneapolis, figlio di due jazzisti, infanzia serena. Nella zona nord di questa metropoli definita "un Eden soporifero, un buco del Midwest in mezzo al nulla", abitano i pochi neri della città: più che un ghetto, un accrocco lindo di case e strade, per famiglie non abbastanza numerose da far paura. Anche se per i musicisti di colore è difficile trovar lavoro, ed è la stessa polizia a dissuadere i gestori dall'ingaggiarli. Prince ne deduce quale sarà la sua missione: imporre la musica nera ai bianchi, scavalcando razze e frontiere.

La famiglia Nelson, intanto, si sfascia, mamma Mattie si risposa e tra il figliastro e il patrigno l'antipatia è immediata. Prince ha dodici anni quando si porta in camera la prima amichetta: scoperto e cacciato da casa, lo accoglie Bernadette Anderson, divorziata, sei figli. Con i nuovi fratelli Roger inventa torridi amori di gruppo, con sottofondi funk e ragazze pendenti dal soffitto. Odia tutte le intemperanze, le droghe, l'alcol, salvo quelle sue fregole di puledro con ardori da stallone. Alla scuola di Jim Hamilton, pianista di Ray Charles, lo definiscono allievo entusiasta ma non eccelso: ma sa tutto su contratti e diritti d'autore, su come trattare coi sindacati o vendere un demo. A tredici anni il piccolo principe suona già pianoforte, chitarra, batteria, violoncello, violino, basso e arpa. Sogna un futuro da calciatore, sul campo è veemente e inafferrabile ma la statura, un metro e cinquantatré, non è quella d'un campione. Resta la musica: manuale di resistenza e salvacondotto verso la gloria. «Mi lavo i denti e sento lo spazzolino vibrare - racconta -. Allora capisco che correre al pianoforte». Così fonda i Grand Central, poi ribattezzati Champagne: provano in solai, in scantinati casuali, in asfittici retrobottega, si esibiscono gratis in concerti aleatori, lui passa nottate sul letto a scrivere, riscrivere, registrare, cancellare.

Da musicista s'impone una disciplina d'acciaio, da futura star comincia a tessere la cortina di mistero che ne alimenterà il mito: «Devo essere controverso e sfuggente - teorizza - se voglio che la gente compri i miei dischi».

E all'altrui curiosità oppone reticenze o fandonie: «La mia musica viene dal ghetto, sono il primo di nove figli, cresciuti tra miseria e zuppe d'avena». E ancora: «Non sono di nessuna razza, le riassumo tutte. Ho una sola ambizione, la senilità, e ci sono vicino». Non ha ancora vent'anni.

Va a New York, fa un provino, fallisce. Ma l'arrendevolezza non è tra le sue virtù: alla fine tre major se lo contendono, lui ne sceglie una e per l'album d'esordio ottiene centomila dollari, che è una cifra da superstar. For you, il primo disco, è il viaggio d'un ventenne nell'iperspazio e nell'ipersesso, nei crediti appare «un ringraziamento speciale a Dio», è epoca di disco music ma anche di talenti centrifughi - Kate Bush, Talking Heads, Ian Dury - e lui pilucca qua e là, preso dalla sua utopia interrazziale. Nei primi album racconta storie d'incesto, terrorismo, schizofrenia. E misticismo.

S'inventa una teologia da bucaniere, fondata su un sillogismo obliquo e tuttavia rigoroso: se il sesso è l'antitesi della guerra, e Dio è la pace suprema, Dio è anche sesso. Così lo si vedrà, in scena, rotolarsi su un letto cantando: «Ho una canna da zucchero da smarrire dentro di te/ voglio sfinirti e farti urlare», e poi ascendere al cielo su una pedana, annunciando che «ci sarà pane per tutti/ se sosterremo la Croce».
E' il suo modo ulteriore di coltivare il mistero, nella difformità delle apparenze. Mascherando l'urgenza della virilità dietro vezzi femminei, costruendo fantasmagorie visionarie col puntiglio d'uno Strehler o d'un Visconti: palchi mutati in ritagli di metropoli o in Eden senza tempo, caos strumentale e sontuose polifonie, ritmi neri e colori da Stravinskij elettronico. Non si era mai visto un più eclettico signore della scena, germina nelle sue metamorfosi un fregolismo mozzafiato: dandy edoardiano e un attimo dopo gangster da fiaba, candido Lucifero e paggio lascivo. Né meno screziato è il suo stile di ballerino: guizza su per le casse dell'amplificazione con l'angelica levità d'un Nurejev, danza col corpo ma anche con la sua voce di farfalla, e intanto inanella falsetti stellari, vertigini di carnalità, vocalizzi da acrobata. Conscio, con James Baldwin, che «nero vuol dire vivido, ricco di sfumature come l'arcobaleno, caldo, veloce, vitale come la vita».

Pian piano il mondo s'inchina al miracolo del suo talento. Al suo primo concerto, a Minneapolis, lo ascoltano cento persone, al secondo il teatro trabocca. «E' il Duke Ellington degli anni Ottanta», sentenzia Miles Davis. «E' è un'icona rabelaisiana che redime la lussuria con l'arte», decretano altri. «E' un genio o uno stronzo?», si chiedono i suoi musicisti, che ne subiscono il fascino ma ne patiscono il dispotismo. Lui sta al gioco: «Questo è il mio periodo viola», annuncia paragonandosi a Picasso, quasi a fonderne insieme il periodo blu e il periodo rosa. E, coerentemente, pubblica Purple Rain: dove il viola è il significante, Dio, la poesia, l'irrazionalità chiaroveggente. E, ancora una volta, il mistero: «Non sono né donna né uomo - canta -, sono quello che non capirete mai».

La musica si fa traghetto verso l'universo, Around the world in a day è Ravel e Charlie Parker, Europa e James Brown, e saga postindustriale, stupore infantile, trame di violoncello, liuto arabo, flauto, percussioni da mantra. Il grande traguardo è raggiunto, il suo sogno apolide galleggia tra voli dello spirito e motivetti circensi, da Mahler del pop. E Sign 'o' The Time celebra la felice degenerazione della follia, il miraggio d'una negritudine con tutti i colori dell'iride.

Ormai famosissimo, Prince tramuta un magazzino fatiscente nel megaprogetto di Paisley Park: studi, campi da gioco, ristoranti, un monumento alla musica e soprattutto a se stesso. «Idiota posatore, effeminato egocentrico, mentecatto in libertà», ghignano i giornali. Lui ribatte con nuovi capolavori, trova nella Parigi interetnica di Fitzgerald, Modì, Picassò, Sidney Bechet la città del cuore per sé e per le sue magnifiche amanti. E attizza la sua fama con nuove bizzarrie. Come il Black album, bloccato alle soglie della pubblicazione badando, però, che migliaia di copie sfuggano al veto e girino il mondo.

Ma incombe il declino. Nel disco, il genio di Prince riluce in gemme sporadiche, più spesso s'ingolfa nella coazione a ripetere. È come se lo sfrenarsi dell'estro l'avesse logorato, o forse è la rivincita del destino sull'ottimismo della volontà. Lui tenta, con ulteriori trovate, di ravvivare il proprio mito: cambia nome e si firma l'artista che un tempo chiamavano Prince, accusa le multinazionali di politica fellona e gira con la parola "schiavo" scritta in faccia, dirama i suoi dischi soltanto su Internet. Ma il re è sempre più nudo. E più umano: il matrimonio con una sua ballerina, Mayte Garcia, sembra l'ennesima mossa per spiazzare i fan, ma è un matrimonio d'amore, sbocciato in tournée e cresciuto nella magia di Parigi. E' il '96, lei è incinta. Il piccolo Boy Gregory nasce col cranio deforme, e muore dopo una settimana.

E' qui che l'aereo folletto si fa persona, ripudia il proprio mistero e si svela. Ha un bel dire, Mayte, che «avremo altri figli, lui continuerà a scrivere e a cantare, la vita non si ferma»: niente sarà più come prima, il flessuoso Napoleone del pop ha trovato la sua Waterloo, e ne esce schiantato. Scrive, pubblica dischi e i nuovi spettacoli non lesinano ritmo, movimento e neppure allegria. Ma è l'allegria desolata d'un clown ferito a morte.

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 Fragile frastuono di libertà

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Juliette Gréco - Storie di Musica di Cesare G. RomanaAnche nella morsa della Gestapo Parigi era smagliante. Ai piedi di boulevard Saint Michel la statua dell'Arcangelo era un inno alla luce, nei giardini del Luxembourg il verde straripava. La ragazza, sedici anni, passò rapida, con i seni da matriarca in affanno e i pantaloni da uomo sformati dall'incuria. Si fermò soltanto nel pronao del teatro, tra le colonne dove i clochard passavano la notte e dove ogni giorno andava a sognare e a dimenticare: sognare un futuro improbabile di palcoscenici, per dimenticare il presente.

È la prima immagine che i biografi - ultimo lo splendido libro di Bertrand Dicale, intitolato all'artista e fresco di stampa per l'editrice Le Lettere - ci tramandano di Juliette Gréco. L'antefatto è invece a Bordeaux, nel quartiere iper-borghese di Talence che nel '27 le dà i natali: un'infanzia da bambina ostica, per padre un poliziotto egocentrico e brutale, per madre una letterata altera, distante, persa tra miraggi di grandezza e utopie da femminista avant lettre. La donna chiama la figlia Toutoute, come una trovatella: «Non t'ho fatta io - le ripete -, t'ho comprata dagli zingari». Quando il padre se ne va, solo amico di Juliette resta un grosso, soave orso di pezza: la madre glielo butta via, «era fatta per cose gloriose - dirà la figlia -, la tenerezza le era estranea».

Ancora implume, in vacanza a Périgord, Toutoute s'innamora. Lui è un gitano sordomuto, vive in una roulotte ed è ammalato, come lei, di libertà. Ma è un amore di soli sguardi: muto, e in più platonico. A svelare a Juliette il mistero del sesso è, in collegio, la suora che una notte si infila nel suo letto, e poi la notte dopo e altre ancora. Finché Toutoute, accusata di furto, litiga con la superiora e l'espellono.

Tornata in famiglia vive con la madre, le sue amanti e i suoi amanti. Viene come un cardo selvatico, solitaria e spinosa. A tredici anni prende a schiaffi la signora Gréco e poi fugge in un fienile: i gendarmi la ritrovano a notte fonda, tremante di gelo e di terrore. A scuola non lega con nessuno, i giochi dei coetanei la irritano. Passa ore nella toilette a declamare Racine, un'insegnante ne nota "gli occhi di marmo nero, da Cleopatra, e la voce da attrice tragica".

Intanto le schiere di Hitler hanno invaso la Francia, la madre di Juliette entra nella Resistenza, fornisce falsi documenti ai partigiani e l'arrestano. Una mattina, Toutoute aspetta la sorella, Charlotte, in place de la Madeleine, quando quattro figuri l'afferrano. Trascinata su un cellulare prende a schiaffi gli uomini della Gestapo e ne è picchiata con foga selvaggia. Nella prigione di Fresnes una kapò, perquisendola, la deflora, poi la chiude, sanguinante, in una cella illuminata giorno e notte, con tre puttane che ne odiano da subito il riserbo insolente, poi finiscono per amarne la fragilità.

Tornata libera Toutoute alloggia in una pensione vicino a Saint Sulpice, a un fiato da Saint-Germain-des-Prés. Nell'appartamento si gela, il cibo manca e per scaldarsi non resta che sradicare pezzi di parquet e dargli fuoco. Uno studente, Bernard Quentin, offre a Juliette i suoi vestiti e il suo letto, per mangiare Toutoute deruba chiunque abbia una baguette o una fetta di formaggio. Quando, a diciannove anni, resta incinta una mammana l'aiuta ad abortire: le gambe intrappolate in un cerchio di metallo, uno strazio di ferri adunchi, carni ferite, emorragie che si susseguono per giorni e giorni. Juliette è un bucaniere alla deriva, ma è proprio l'indole da bucaniere a salvarla dal naufragio. E un chirurgo di buon cuore: che la vede svenire per strada, la soccorre e la cura, gratuitamente.

Finisce la guerra, i tedeschi sfollano via, De Gaulle annuncia la riacquistata libertà. E sulla Francia soffia un vento d'allegria ritrovata: "È la dittatura del piacere", titola un piscia-fogli, come nelle caves della Rive Gauche chiamano i giornalisti. Nei bar di Saint-Germain si reimpara a ridere, si ama, s'inventa. E si beve, a fiumi: «Un po' perché l'alcol non mancava - dirà Simone de Beauvoir -, un po' per sfogo, per festa, per oblio». Juliette e Quentin vivono, ora, in una mansarda da vie de bohème, oltre l'abbaino fumano i mille comignoli di Parigi, lui dipinge e lei sogna. O legge: Kierkegaard, Marx, Gide, Teresa d'Avila. Si iscrive al partito comunista, vende l'Humanité, con Marguerite Duras, su per il boulevard Saint-Michel, poi scopre che la militanza è una gabbia, non s'addice al suo animo volatile e restituisce la tessera. Fa la comparsa alla Comédie Française in un dramma di Claudel, intona "costruiremo un domani che canta" a fianco di Trenet e Josephine Baker, recita in Victor o i bambini al potere, di Roger Vitrac, con la regia di Antonin Artaud. Il dramma racconta, dice quest'ultimo, "la disgregazione del pensiero moderno in favore di chissà cosa", Juliette se ne accende con tale veemenza che un critico le riconosce "una precoce autorevolezza". Ora i copains di Toutoute sono un professore gentile e ironico, uscito da un lager tedesco, che si chiama Jean-Paul Sartre, e con lui la Beauvoir, Camus, Queneau, Prévert. E Boris Vian, fresco dello sdegnato successo di Sputerò sulle vostre tombe, che suona la tromba in un gruppo jazz e le è maestro di euforie e depressioni. Senza avere mai girato un film o inciso un disco, Juliette si ritrova famosa: per le sue risse, gli amori spiazzanti, le amicizie eterodosse. Per aver preso a ceffoni un ministro troppo galante, per aver messo al tappeto il figlio d'Alfred Cortot, per "la furia selvaggia con la quale fa a pugni", scrive France Dimanche. Ma soprattutto perché nessuno, nella Francia rinata, sa impersonare, come lei, lo scandalo, la gloria, il frastuono della libertà.

Declinano intanto, nell'euforia e nell'incertezza del futuro, i tumultuosi anni Quaranta e a Juliette portano in dono il più grande amore della sua vita, e il più feroce dolore. Lui è un campione automobilista, eroe della Resistenza, ingegnere, si chiama Jean-Pierre Wimille, ha gli occhi verdi, le tempie grigie e ventitrè anni più di lei. È mondano quanto lei è schiva, allegro quanto lei è ombrosa. Li avvince la legge degli opposti: si conoscono, si guardano e la passione divampa. Insieme girano Parigi, Antibes, Capri. Dopo la prima notte d'amore, in sogno, Toutoute vede l'uomo morire sulla sua auto, col petto dilaniato dal volante. Ed è esattamente così che Jean-Pierre se ne va il 29 gennaio '49, sul circuito di Buenos Aires, slittando su una cunetta.

Per Juliette è una fine senza fine, una disperazione che s'allunga sugli anni a venire. Si guarda vivere con occhi da estranea, si fa ancor più introversa, le leggendarie baruffe sono solo un ricordo. Cerca sollievo, vanamente, in liaisons provvisorie. Con Miles Davis, per esempio: lui, ventitrè anni, è soltanto un cupo, misogino genio in fieri, ma Juliette lo vede "bello come un dio egizio" e gli suscita un amore senza scampo. Per addolcirle il risveglio Davis, immerso nella vasca da bagno, suona Bach, insieme ciondolano ore e ore, mano nella mano, su e giù per il Lungosenna. Finisce tre settimane dopo: Miles torna a New York e sprofonda nell'eroina. Poi Marlon Brando: giovane, bellissimo e già famoso, sfreccia per Parigi con la sua moto enorme. La conquista senza fatica, e senza fatica la perde. Passano tre anni e Toutoute sente incombere il momento di reinventarsi. Lascia i pantaloni sformati e le scarpe da uomo, s'inguaina in tubini neri, muta le forme tozze in una magrezza da naufrago. E trasforma la ragazzaccia della rive gauche in una lady altera. Comincia col cinema: è Circe in Ulysse, di Alexandre Astruc, con Simone Signoret che fa Penelope, Jean Cocteau che è Omero e Jean Genet che dovrebbe essere Polifemo, ma non si fa vedere. Poi le consigliano di diventare cantante. Sartre la guida nella scelta dei brani: liriche di Queneau (Si tu t'imagines), Laforgue (L'éternel féminin), Prévert (Les feuilles mortes) e dello stesso Jean-Paul (La rue des Blancs-Manteauxz).

Joseph Kosma scrive le musiche e al debutto, in un club della rive droite, applaudono Mauriac, Allégret, Resnais, Erskine Caldwell. Juliette canta con Wimille nel cuore, neppure l'innata alterigia argina l'urgenza del rimpianto. Azzarda Les feuilles mortes e, quando canta "en ce temps là la vie était plus belle", dalla gola filtra solo un sussurro: il resto è pianto rattenuto. La voce è fosca e imprecisa, ma Sartre ne scrive: "Le parole hanno una bellezza sensuale, e Juliette ce la ricorda: attizza il fuoco che nascondono, ha nella gola milioni di poesie mai scritte".

Il dado è tratto, il successo di Juliette Gréco dilaga nel mondo, i maggiori teatri l'accolgono e, tra i primi, quello dei suoi sogni di bambina. Il resto è storia: successi, diatribe, scandali e un rosario lungo d'amici, mariti ed amanti. Musicisti come Sacha Distel, produttori come Darryl Zanuck, attori come Michel Piccoli, Philippe Lemaire che la sposa e ne nasce Laurence-Marie, bionda e ridente e bellissima, Rolande Alexandre che s'uccide col gas, travolto dal disamore di lei. Poi gli amici: Françoise Sagan, Eddie Constantine, Brassens, Léo Ferré, Serge Gainsbourg, Yves Montand, Aznavour. Più un giovane belga con gli occhi di febbre e il viso scarnito, che un giorno le fa ascoltare le proprie canzoni e lei dice: "Non saprei interpretarle come te, cantale tu". Lui si chiama Jacques Brel, suo pianista e coautore è un tale Gérard Jouannest. Ha modi cortesi, è schivo e tenace. Quando Jacques si ritira a morire nella quiete delle Marchesi, diventa il pianista di Juliette e il suo nuovo marito. Lo è ancora.

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Nino D'Angelo - Storia di musica n. 3Che suo figlio Gaetano potesse diventare, un giorno, Nino D'Angelo non era negli estri profetici di Totonno 'o Baffotto, calzolaio per servirla. In San Pietro a Patierno l'orizzonte era quello stretto dei bassi, consentiva sogni avari: una stradina, 'O Pizzo Casale, dove il cielo di Napoli s'affacciava parco e le botteghe degli scarpari s'inseguivano a contatto di gomito. Poi l'aeroporto e, di là, il prato dove gli studenti, fuggiti da scuola, consumavano amori da tirocinanti. Qui abitavano i D'Angelo: Gennaro 'o Pazzo, il nonno, e Maria sua sposa, spazzina al Maschio Angioino. Eppoi Totonno con la moglie, Emilia 'a Casoria, e i sei figli badati da zia Marialuce, detta 'a mugliera d''o preveto per un antico amore con un seminarista. Nino è uno scugnizzo industrioso, discolo al giusto grado e col buonsenso degli umili, alias della sua gente. La statura non proprio imponente gli attira il soprannome di Semmenziella, poi di Miezumetro, quando, a quattro anni, comincia a cantare a 'o conciertino dell'Addolorata, poi nei ristoranti e ai matrimoni, e diventa «chillo cantante sicco sicco cu'o vestito verde", unico abito buono di cui i fratelli dispongano, scambiandoselo secondo urgenze. È il nonno a insegnargli l'arte aspra del sopravvivere: Gennaro ha la sagacia dei naviganti, uscito da un ictus chiede la pensione d'invalidità, gliela negano, lui si finge pazzo e va in manicomio. Ama il Napoli, Gimondi e i comunisti, che sono «quelli che si sentono uguali a noi», spiega. Tra i nipoti predilige Giuseppe 'o Muorto, che di tutti è il più smunto. Ogni tanto gli allunga un centolire, che non si sappia: ma agli altri lo sanno, e 'o Muorto finisce, ogni volta, derubato. I fratelli, del resto, si rubano a vicenda i cerchioni dell'auto, poi li rendono previo compenso perché l'arte del sopravvivere, nei bassi, è anche questo.

È Gennaro 'o Pazzo a imparare a Nino le canzoni in voga a Piedigrotta, o tra i posteggiatori del lungomare. Quanto a Totonno, regala al figlio una fisarmonica, ma avverte: «Fatti un mestiere, di musica non si campa». E Nino, obbediente, accarezza un domani da calciatore. Gioca nella Sandrina, una squadra rionale, è scattante e veloce ma la stazza non è da campione. Non ha nemmeno un pallone con cui allenarsi: lo chiede alla Befana, ma la vecchietta, con gli anni, ha perso i riflessi, gli porta, ogni anno, una pistola giocattolo, e hai voglia a scriverle chiedendo un pallone, o una batteria, poi un'auto. Gli regalano, per consolarlo, una bici di nome Graziella, e pedalando scopre che di là da San Pietro a Patierno, fuor dal Quartiere d''e Scarpare, abita, inatteso, il mondo. Ben oltre «quel cielo periferico - scriverà nella sua autobiografia - dove gli aerei svegliavano i sogni delle persone che avevano visto la guerra». E ben oltre quel selciato lunatico, dove «l'emarginazione e la disoccupazione camminavano strette nei cappotti consumati di facce abituate al niente, in quella strada senza marciapiede dove l'odore del ragù domenicale arrivava fino agli altari delle messe».

A scuola Nino non brilla, l'insofferenza per i libri è una virtù di famiglia. Di francese impara soltanto pardon e je t'aime, in musica gli danno due, ma la maestra lo sente cantare e ne è incantata: «Così piccire', sei già meglio di Rondinella, guaglio'», sospira. E all'esame di francese - lui fa scena muta -, gli offre un appiglio insperato: «Cantami la Marsigliese», propone. Nino salta all'inpiedi sulla sedia, esegue ed è promosso. Di studiare, del resto, ha poche occasioni: uno zio apre un negozio di scarpe, di quelli dove i clienti pagano solo a Natale, quando arriva la tredicesima. Il negozio tiene aperto di notte, Semmenziella intrattiene gli acquirenti cantando, s'addormenta mentre quelli si provano le scarpe, nelle pause corre in una chiesa vicina, abbandonata, a fumare. Tra i commessi c'è Antonio, sposato, gran barzellettiere: un giorno lo trovano stecchito nell'auto, incolpano la camorra, poi scoprono, come in una sceneggiata, che a pagare i sicari è stata la moglie. E Nino impara che non c'è sceneggiata più talentosa, e più verace della vita.

E la vita, per come lavedelui, è a tempo di musica. Nel teatrino della parrocchia don Raffaello, 'o preveto, organizza serate canore, Nino partecipa con Voce 'e notte e da allora non c'è festa, o sponsale, o cresima dove non lo reclamino. Càpita un impresario e sentenzia: «Con quel fisico puoi cantare soltanto storie di guai». E lui, ligio, obbedisce: ai pranzi nuziali racconta di spose in lutto, mariti ammazzati, malemmi sciupafamiglie, vedi un via vai di mani che s'abbassano sotto i tavoli e gli scongiuri subissano gli applausi. Intanto 'o Semmenziella frequenta, con i risultati consueti, l'istituto tecnico. Ma dura poco: a Totonno, che adesso fa il barista al buffet della stazione, gli prende un infarto e il figlio lo sostituisce. Poi vende gelati sulle pensiline, all'in piedi sul carrettino intona uapparia, e i gelati vanno via più veloci dei treni. Passa Alberto Lupo, lo sente, gli regala ventimila lire, un cappotto e l'indirizzo d'un impresario. «Ti farà fare un disco - dice, con la sua voce impostata -, credo che farai strada». L'impresario vuole mezzo milione, Nino lo racimola da parenti ed amici, l'altro intasca, lo convoca per l'indomani ma muore nella notte. «Neanche 'a Maronna addulurata, ormai, può guarirmi dalla jella», si rassegna Nino. E dice addio al mezzo milione e alla musica. Fino a che, in un circolo di Casavatore, conosce tal Toni Coppola, detto Cuppulella, cantante. Che gli presenta don Vincenzo Gallo, fabbricante d'ombrelli e paroliere per sfizio. Si riparla di fare un disco: i soldi li presta una strozzina, don Vincenzo ci mette il testo, Nino la musica ed esce A storia mia. Nel testo un ragazzo scippa i passanti per curare la madre morente: «Storia vera - s'inventa Nino, facendo il giro dei negozi -, è capitata a un mio fratello, e con i soldi del disco spero di tirarlo fuor di galera». È il suo primo successo.

Ora 'o Semmenziella è quasi una star. Nelle radio spopola, il suo cachet sale, da diecimila che era, a trentamila lire, Annamaria, la figlia di Gallo, gli offre trepidando il suo cuore. Lei ha quindici anni e lavora in una fabbrica di jeans, un incendio incenerisce il laboratorio, muoiono in tre ma lei si salva. E diventa la signora d'Angelo. La luna di miele, a Roma, costa duecentomila lire e pone le premesse per la nascita del piccolo Toni. L'evento ispira a Nino 'A parturente, che scala le classifiche e lo scugnizzo di Pizzo Casale è subito un divo. Lo accolgono, al primo tour, alberghi a quattro stelle «e perfino il bagno in camera», rileva, stranito. E non solo: le ragazze gli strappano i vestiti di dosso, Mario Abate va in camerino e lo chiama collega, all'ingresso dei teatri la folla sventola le bandiere del Napoli.
Nascono, sul modello di Merola, le prime sceneggiate firmate da D'Angelo. Con personaggi fissi - isso, issa e 'o malamente - e titoli che cambiano. Ecco Monaca e mamma, poi 'A discoteca: un fratello vuole avvelenare il protagonista per soffiargli l'eredità, la platea s'immedesima: «Nino nun t''e piglià - urlano -, frateto te vo' accirere". E a Pino Prestieri, che interpreta il ruolo del cattivo, i baristi rifiutano il caffè. Convinto che porta bbuono, lo scugnizzo adotta i capelli a caschetto che hanno reso famose la Carrà e la Caselli, il regista Ninì Grassia lo ingaggia per un film con Regina Bianchi, Celebrità, Mario Merola lo vuole al suo fianco in Tradimento e in Giuramenti, e un nuovo film, 'Nu jeans e 'na maglietta, sancisce nel mondo la fresca popolarità. Ora anche i grandi s'inchinano all'astro nascente: Maradona lo vuole incontrare e nasce un'assidua amicizia, Miles Davis ascolta un suo brano, alla radio d'un taxi, e vorrebbe suonarlo. Ma Nino cade dalle nuvole:«È un po' che non leggo il Corriere dello Sport», si scusa, convinto che Davis sia un calciatore.

Nei suoi testi palpita una Napoli allegra e desolata, sconfitta e beffarda: quella di sempre. Lo applaudono in Germania e in Belgio, poi a New York, Chicago, Toronto. Solo il mondo della cultura, e le satrapie dello star system, lo snobbano: lo chiamano «l'intellettuale del trash», un cronista ciancia, nientemeno, di «fenomeno che bisogna reprimere». Nino debutta a Sanremo e l'accoglie il gelo, i ras della canzonetta non perdonano il piccolo parvenu che riempie le piazze. Quando qualcuno gli sbriciola a pistolettate i vetri di casa, lui si trasferisce a Roma. Muoiono i suoi genitori e la depressione lo inchioda per tre interminabili anni. Ma dentro quel corpo da scricciolo cova una volontà da titan: 'o Semmenziella si taglia il caschetto, legge Raffaele Viviani e ne trae uno straordinario spettacolo, ascolta Peter Gabriel e la sua musica si fa vibrazione del mondo: tepori mediterranei, ritmi e colori del Magreb, andamenti di danza rubati alla fuga dei secoli.

Lo scugnizzo che credeva Miles Davis un calciatore è ora un musicista completo. La metamorfosi lascia attoniti detrattori e fan. Una regista, Roberta Torre, chiede a Nino le musiche per Tano da morire, film sulla camorra in forma di musical. Lui va a lambire i ritmi scoscesi del Bronx, trasloca sotto il sole di Napoli l'urgenza nera del rap, e anche gli intellettuali devono far di cappello: Goffredo Fofi sdogana il nome di D'Angelo nei sinedrii della cultura ufficiale, il David, eppoi un Nastro d'argento premiano il Morricone dei bassi, l'ateneo di Salerno gli spalanca l'aula magna e Bassolino la ribalta gloriosa del Mercadante. Anche a San Pietro a Patierno il tempo ha arato e raccolto: i ciabattini d'allora sono diventati ricchi, i poveri sono sciamati nelle roulottes del post-terremoto. Lui ci torna, ogni tanto: si guarda attorno, cerca «la povertà di chi ha sempre aspettato domani per vivere meglio», e non la trova più.

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Serge Gainblourg - Storie di Musica di Cesare Romana

Suo padre, un ebreo moscovita fuggito a Parigi dopo la débâcle dello zar, portò con sé la famiglia, l'opera omnia di Dostoevskij e un sogno: suonare Rachmaninov all'Opéra. Un fato malevolo lo confinò a strimpellare canzonette nei cabaret, e lui si vendicò imponendo ai figli lo studio del pianoforte, e una mal digerita vocazione al concertismo. L'ultimogenito, Lucien, si vendicò a sua volta, snobbando Rachmaninov e strimpellando canzonette nei cabaret, a riscatto di un'infanzia condannata alla solitudine da un'aerofagia patologica: "Balie e governanti - svelerà nell'autobiografico Evguénie Solokov - ne erano atterrite. È vero, una mi istruì sull'alfabeto cirillico, un'altra m'insegnò a suonare l'harmonium, ma le più fuggirono, inorridendo ai miei cinguettii di bebé emessi par derrière".
Ad acuire la sua selvatichezza provvide l'occupazione nazista, che lo costrinse a girare con la stella di David cucita sulla camicia, "rischiando ogni giorno d'essere issato su un vagone piombato": "Ho vinto una stella gialla", canterà anni dopo, con raggelante sarcasmo. E intanto mutò in Serge Gainsbourg il nome e il cognome d'origine, Lucien Ginsborg, e a undici anni debuttò, travestito da diavolo, nel music-hall di Fréhel, regina della rive droite. Fu un pompiere in servizio ad offrirgli la prima Gitane della sua vita: l'ultima l'avrebbe fumata cinquantadue anni dopo, sul letto di morte, dopo aver cantato che "Dio è un fumatore di Avana/ è stato lui a svelarmi/ che il tabacco porta in paradiso".


Il teatro gli ispirò un amore lunatico, com'era nella sua indole. Passò alla pittura, deciso ad emulare l'estro frenetico di Delacroix, che si vantava di eseguire un ritratto nei pochi attimi in cui un suicida lascia il balcone per sfracellarsi sul selciato. Lo attrasse il dadaismo di Picabia, poi lo sedusse l'asserzione di Paul Klee, che "solo i bambini, i pazzi e i primitivi hanno ancora il potere di vedere". S'iscrisse all'Académie di Montmartre, quindi al liceo Condorcet. Fu apprezzata una sua copia del Perseo di Benvenuto Cellini, del quale lesse l'autobiografia e mutuò la sregolatezza. L'antisemitismo vigente nulla poté contro il nitore del suo talento, salvo il fatto che "la spontaneità dei miei schizzi fu presto irreggimentata dai pedagoghi, che non sapevano cosa farsene dei miei palloni cubici, dei conigli a scacchi, dei maiali blu e di altri embrioni fantastici. Eccelse ai corsi di nudo, finché i corpi delle modelle, gonfi o ossuti che fossero, non scatenarono la sua misoginia. Ma agevolarono in lui "una vera maestria nel disegno, inferiore soltanto a quella dei miei peti": che imparò ad attribuire, per sottrarsi all'imbarazzo, a Mazeppa, il suo bulldog dai dolci occhi rosei e perennemente stupiti.


L'espediente non gli evitò l'espulsione dall'accademia. Morto il padre, ne dilapidò l'eredità in bagordi e macchine d'epoca, si guadagnò da vivere insegnando disegno, facendo da baby sitter ai figli dei rifugiati israeliti, colorando le foto dei divi del cinema e suonando nei piano-bar. Passava di casa in casa - Salvador Dalì fu tra i suoi anfitrioni - e d'amore in amore, corteggiatissimo nonostante il viso corrucciato e le orecchie a sventola. E tuttavia sprezzante, nei confronti delle amanti, fino a dedurre che "è meglio la tua assenza della tua incoerenza": come cantò per una di esse nel disco d'esordio, affollato di controllori del tram che sognano il suicidio, battone che biascicano chewing gum durante l'amore, amanti persi "nella noia mortale che provo con te/ tanto che d'amore in amore prendo una penna/ e riempio di nero le A e le O del giornale".


A scriver musica aveva cominciato nel '54, celandosi dietro lo pseudonimo di Julien Grix, in omaggio all'eroe stendhaliano e al pittore cubista Juan Gris. Fece il pianista e il direttore d'orchestra, debuttò in radio e in una boîte degli Champs Elysées conobbe Boris Vian, che sul Canard enchaîné inneggiò al nuovo talento: "Se abbaiate contro le false canzoni e i falsi della canzone - scrisse - comprate questo disco". Alludeva a Le poinçonnier de lilas, primo successo di Serge. Un critico vi scoprì che "Gainsbourg usa le parole per strappar loro la maschera, e dietro la maschera c'è il vuoto": e d'altronde "meglio non pensare a niente che non pensare affatto/ niente è assai meglio di tutto", aveva decretato Serge, imprigionando il proprio destino in un ossimoro, quello d'un anarchico senz'ombra di utopie. E per tutta la vita avrebbe continuato, da nihilista assoluto, a bollare, sì, le ipocrisie dei perbenisti, la corruzione dei potenti, le devastazioni del nazismo elencate in Rock Around The Bunker, ma nella certezza che contro l'eclisse dell'etica non c'è redenzione: "Quando ho finito le mie otto ore - scrisse - non mi restano, per sognare, che gli orribili fiori della carta da parati".


Né l'amore gli offrì scampo: Je t'aime... moi non plus, il suo brano più noto, apparve, con i suoi sospiri orgasmatici, un tributo alla forza vivificante dell'eros. Fu, invece, la constatazione che l'ossessione sessuale non è che un ripetitivo agitarsi, ché "l'amour phisique est sans issue". Trovò tuttavia in Jane Birkin la passione più grande della sua disamorata esistenza: giunta dopo due mogli, due paternità e altrettanti divorzi, e dopo l'effimera liaison con Brigitte Bardot, per la quale quella canzone fu scritta, per essere poi interpretata a due voci con Jane.


Con l'epopea dei grandi chansonniers ebbe un rapporto da guastatore: praticò il jazz, precorse la world music, s'adattò allo yé yé per demolire l'illusione, letteraria e teatrale, di cui s'era alimentata la grande chanson française. E per fare soldi: "Se scrivo dodici capolavori e li metto in un disco - confidò - due di essi avranno successo, gli altri saranno ignorati. Se scrivo dodici canzoni per altrettanti interpreti, i successi saranno dodici". Brigitte Bardot, Dionne Warwick, Donna Summer, France Gall, Petula Clark, Dalida, Juliette Gréco furono tra le interpreti d'un canzoniere che aggregava humour nero, levità strafottente, vicende di depressione, malattie, droga. E il cui autore si definiva, con tetra civetteria, "fiero, maldestro, violento", e ancora "ladruncolo, grande falsario, depresso forsennato".


Si costruì una tematica imponendosi un'esistenza spericolata: vodka e champagne per prima colazione, cinque pacchetti di Gitanes al giorno, le notti passate per strada a fraternizzare con gli spazzini, o nei commissariati in cerca di ladri, spacciatori e puttane cui rubare il segreto del non vivere. Invitato a recitare in uno sceneggiato sulla Rivoluzione francese, pretese per sé il ruolo del marchese di Sade. In un varietà televisivo bruciò una banconota da cinquecento franchi, prima d'intonare la Marsigliese a ritmo di reggae. Bissò lo scandaloso successo di Je t'aime... moi non plus registrando, con la figlia Charlotte, una sulfurea Lemon incest. I grandi maledetti del jazz, Charlie Parker, Thelonius Monk, Miles Davis alimentarono il "cubismo ritmico" e la tensione perversa della sua musica, ma fu Charles Baudelaire il definitivo modello. Refrattario alla fede dei suoi avi, e per nulla imbevuto di religione dell'uomo, Gainsbourg trovò nei Fleurs du mal un appropriato vangelo. Fece sua la metafora baudelairiana del Trismegisto, "Satana culla il nostro spirito incantato/ sul guanciale del Male/ ogni giorno scendiamo d'un passo verso l'inferno/ senza orrore", e concordò col poeta nel delegare alla morte, che "ogni giorno scende, fiume invisibile, nei nostri polmoni", l'approdo liberatorio al nulla. Che lo soccorse nel 1991: quando il fegato cirrotico, i polmoni ingrommati, il cuore disinnescato e ribelle lo condussero pietosamente alla fine. È lecito intuire il sollievo con cui Serge Gainsbourg, dal disilluso dandy ch'era stato, s'abbandonò a quel Niente inseguito per tutti i sessantatrè anni della sua vita. "La seule solution c'était de mourir", aveva cantato del resto, con Brigitte Bardot, in Bonnie et Clyde. Nella bara ottenne che gli mettessero un pacchetto di Gitanes e una bottiglia di whisky.

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