«Grazie degli auguri sempre graditi. Io non sto benissimo mentre i mici stanno molto bene».
Nei primi giorni di novembre cade il suo compleanno. Ci scambiamo ogni anno qualche battuta in questa e, ormai, poche altre occasioni. I mici sono la sua priorità: più del suo stato di salute gli interessa che stiano bene gli amici felini, una compagnia a lui molto gradita; più di quella degli esseri umani.
Quando ho conosciuto Cesare – era il dicembre del 2007 – era prossimo al pensionamento, «un Eden» l’avrebbe definito qualche mese più tardi quando lo ricontattai per un parere, seguendo una sua indicazione di cui conservo ancora lo scritto originale:: «Sono io a dirle […] - sinceramente, fuor di prammatica - che se mai le fosse utile un parere o un consiglio non deve esimersi dal sollecitarmelo: sarò felice di esserle utile. Cordialità e molti auguri».
Da quel momento, fino a pochi giorni fa, non mi ha mai fatto mancare né mi ha fatto attendere una sua risposta: ogni qualvolta per i motivi più disparati ho avuto bisogno di un suo consiglio o, semplicemente, di una sua battuta in risposta ad un mio sms, l’ho avuto nel giro di pochi minuti.
Cesare era capace, con i suoi racconti, di trasportarmi in epoche e situazioni eccezionali, mitiche, estremamente distanti dalla realtà in cui vivevo, con una lucidità ed una narrazione impeccabili ed incredibilmente coinvolgenti. Avete presente quando il protagonista di «Midnight in Paris» (Woody Allen) si trova ad ascoltare affascinato le storie di vita di Ernest Hemingway narrate dallo stesso scrittore? Ecco, con la stessa forza e lo stesso entusiasmo ero rapita mentre Cesare ricordava appassionato una serata al Premio Tenco o un bicchiere in compagnia di Francesco Guccini; amava ripetermi di uno scambio di battute nell’ufficio di Indro Montanelli, sottolineandone sempre la grandezza; o, ancora, aveva a cuore le avventure dei suoi primi anni dopo il liceo, periodo in cui ha voluto ad ogni costo - mettendo a repentaglio la sua stessa esistenza – intraprendere il mestiere che avrebbe svolto con devozione per il resto della sua vita; ricordava con nostalgia, ma molto divertito, le nottate trascorse assieme agli operai che facevano “il lavoro sporco” della tipografia, tra un’imprecazione e l’altra, formando le sequenze con i caratteri mobili in piombo: i lavori più importanti ed affascinanti, secondo lui, erano quelli umili; e delle occupazioni più umili ha sempre avuto grandissimo rispetto.
Anarchico, generoso, integerrimo ed estremamente coerente, preferiva la compagnia di chi frequentava i bassifondi a quella dei salotti bene. Le sue avventure di vita vissuta erano ambientate tra i caruggi di Genova, la Borsa di Arlecchino, i trani («a gogò», avrebbe cantato Giorgio Gaber) e tutti gli ambienti in cui gli incontri si facevano autentici.
Non amava mettersi in mostra e se lo faceva era solo per qualche suo articolo che gli era proprio impossibile far passare inosservato. (Forse quello di cui andava più fiero riguardava Edith Piaf: era stato pubblicato su Il Giornale all’epoca della direzione di Maurizio Belpietro, mi pare; campeggiava incorniciato all’ingresso di casa sua e ne parlava spesso). Infatti, ogni volta che c’era da prendersi un merito, a lui piaceva che il merito fosse di qualcun altro: di «Nicoletta» (Patty Pravo) che gli aveva fornito l’ottimo materiale di cui scrivere e che gli avrebbe fatto vincere un importante premio, o di Belpietro che gli aveva dato la libertà di scrivere quell’articolo su Edith Piaf, solo per citare un paio di casi.
Questo era il suo carattere. Cesare era schivo ed estremamente sicuro di sé; talmente sicuro da non aver bisogno di altri riscontri.
La sua professione è stata tutto per lui. Mi diceva: «è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una penna», senza ovviamente attribuirsi la paternità dei versi. Dalla canzone «Amico fragile» aveva anche preso ispirazione per il titolo di uno dei suoi libri su Fabrizio De Andrè, amico fraterno e artista stimatissimo.
Tra i racconti di Cesare, i più intensi erano indubbiamente quelli in cui condivideva il ricordo di «Fabrizio»; in queste occasioni non riusciva a contenere la commozione. Ricordava i dettagli dei loro incontri, senza omettere - e senza mai giudicare - i pregi e i difetti di quello che considerava un genio.
Grandissima la stima che nutriva verso «Dori» (Ghezzi); credo abbia avuto modo di dirglielo anche di recente, quando nel film «Fabrizio De André - Principe libero» ha voluto inserire il suo personaggio in un breve passaggio. La cosa gli aveva fatto un immenso piacere.
La sua compagna e compagnia era la musica classica. Quando mi raccontava il libretto di un’opera sapeva far rivivere i personaggi come fossero stati realmente parte della sua vita; e, in un certo senso, lo sono stati nell’ultimo decennio che ha trascorso tra l'ascolto di musica classica (criticava Fabio Fazio quando la chiamava «musica d’arte») e la lettura e rilettura dei romanzi che lo appassionavano.
Già, perché dopo una vita passata a «dover ascoltare canzonette», non voleva più sentirne nemmeno parlare (c’erano ovviamente alcune eccezioni). Tra i suoi racconti più esilaranti, ricordo quelli delle serate Sanremesi: con tutta l’ironia di cui sono capaci i grandi, mi parlava del Festival - soprattutto negli ultimi anni di attività - come di un supplizio, alleviato dai compagni d’avventura (Mario Luzzatto Fegiz, Marinella Venegoni, Gino Castaldo erano i più citati), per i quali riservava sempre belle parole.
Per chi non ha avuto la fortuna di ascoltare le parole di Cesare "dal vivo", ci sono queste Storie di Musica che, di comune accordo, abbiamo deciso di ripubblicare su AMAmusic. Anche in questo caso - a dimostrazione del fatto che la coerenza fosse indubbiamente un tratto inconfondibile del suo carattere - il merito di questa rubrica non era suo: «Grazie - mi disse - per aver dato alle mie storie l’opportunità di rivivere». Incorreggibile.
Se fossi stata una brava giornalista (o almeno avessi raccolto i suoi numerosi incoraggiamenti) avrei preso nota, giorno dopo giorno, di tutti i suoi racconti e avrei scritto un pezzo più accurato.
Il mio scopo, ora, è solo rendergli omaggio e aiutare qualcuno a ricordarlo. Il mio pensiero va a suo fratello, cui sono vicina.
Suo padre, un ebreo moscovita fuggito a Parigi dopo la débâcle dello zar, portò con sé la famiglia, l'opera omnia di Dostoevskij e un sogno: suonare Rachmaninov all'Opéra. Un fato malevolo lo confinò a strimpellare canzonette nei cabaret, e lui si vendicò imponendo ai figli lo studio del pianoforte, e una mal digerita vocazione al concertismo. L'ultimogenito, Lucien, si vendicò a sua volta, snobbando Rachmaninov e strimpellando canzonette nei cabaret, a riscatto di un'infanzia condannata alla solitudine da un'aerofagia patologica: "Balie e governanti - svelerà nell'autobiografico Evguénie Solokov - ne erano atterrite. È vero, una mi istruì sull'alfabeto cirillico, un'altra m'insegnò a suonare l'harmonium, ma le più fuggirono, inorridendo ai miei cinguettii di bebé emessi par derrière".
Ad acuire la sua selvatichezza provvide l'occupazione nazista, che lo costrinse a girare con la stella di David cucita sulla camicia, "rischiando ogni giorno d'essere issato su un vagone piombato": "Ho vinto una stella gialla", canterà anni dopo, con raggelante sarcasmo. E intanto mutò in Serge Gainsbourg il nome e il cognome d'origine, Lucien Ginsborg, e a undici anni debuttò, travestito da diavolo, nel music-hall di Fréhel, regina della rive droite. Fu un pompiere in servizio ad offrirgli la prima Gitane della sua vita: l'ultima l'avrebbe fumata cinquantadue anni dopo, sul letto di morte, dopo aver cantato che "Dio è un fumatore di Avana/ è stato lui a svelarmi/ che il tabacco porta in paradiso".
Il teatro gli ispirò un amore lunatico, com'era nella sua indole. Passò alla pittura, deciso ad emulare l'estro frenetico di Delacroix, che si vantava di eseguire un ritratto nei pochi attimi in cui un suicida lascia il balcone per sfracellarsi sul selciato. Lo attrasse il dadaismo di Picabia, poi lo sedusse l'asserzione di Paul Klee, che "solo i bambini, i pazzi e i primitivi hanno ancora il potere di vedere". S'iscrisse all'Académie di Montmartre, quindi al liceo Condorcet. Fu apprezzata una sua copia del Perseo di Benvenuto Cellini, del quale lesse l'autobiografia e mutuò la sregolatezza. L'antisemitismo vigente nulla poté contro il nitore del suo talento, salvo il fatto che "la spontaneità dei miei schizzi fu presto irreggimentata dai pedagoghi, che non sapevano cosa farsene dei miei palloni cubici, dei conigli a scacchi, dei maiali blu e di altri embrioni fantastici. Eccelse ai corsi di nudo, finché i corpi delle modelle, gonfi o ossuti che fossero, non scatenarono la sua misoginia. Ma agevolarono in lui "una vera maestria nel disegno, inferiore soltanto a quella dei miei peti": che imparò ad attribuire, per sottrarsi all'imbarazzo, a Mazeppa, il suo bulldog dai dolci occhi rosei e perennemente stupiti.
L'espediente non gli evitò l'espulsione dall'accademia. Morto il padre, ne dilapidò l'eredità in bagordi e macchine d'epoca, si guadagnò da vivere insegnando disegno, facendo da baby sitter ai figli dei rifugiati israeliti, colorando le foto dei divi del cinema e suonando nei piano-bar. Passava di casa in casa - Salvador Dalì fu tra i suoi anfitrioni - e d'amore in amore, corteggiatissimo nonostante il viso corrucciato e le orecchie a sventola. E tuttavia sprezzante, nei confronti delle amanti, fino a dedurre che "è meglio la tua assenza della tua incoerenza": come cantò per una di esse nel disco d'esordio, affollato di controllori del tram che sognano il suicidio, battone che biascicano chewing gum durante l'amore, amanti persi "nella noia mortale che provo con te/ tanto che d'amore in amore prendo una penna/ e riempio di nero le A e le O del giornale".
A scriver musica aveva cominciato nel '54, celandosi dietro lo pseudonimo di Julien Grix, in omaggio all'eroe stendhaliano e al pittore cubista Juan Gris. Fece il pianista e il direttore d'orchestra, debuttò in radio e in una boîte degli Champs Elysées conobbe Boris Vian, che sul Canard enchaîné inneggiò al nuovo talento: "Se abbaiate contro le false canzoni e i falsi della canzone - scrisse - comprate questo disco". Alludeva a Le poinçonnier de lilas, primo successo di Serge. Un critico vi scoprì che "Gainsbourg usa le parole per strappar loro la maschera, e dietro la maschera c'è il vuoto": e d'altronde "meglio non pensare a niente che non pensare affatto/ niente è assai meglio di tutto", aveva decretato Serge, imprigionando il proprio destino in un ossimoro, quello d'un anarchico senz'ombra di utopie. E per tutta la vita avrebbe continuato, da nihilista assoluto, a bollare, sì, le ipocrisie dei perbenisti, la corruzione dei potenti, le devastazioni del nazismo elencate in Rock Around The Bunker, ma nella certezza che contro l'eclisse dell'etica non c'è redenzione: "Quando ho finito le mie otto ore - scrisse - non mi restano, per sognare, che gli orribili fiori della carta da parati".
Né l'amore gli offrì scampo: Je t'aime... moi non plus, il suo brano più noto, apparve, con i suoi sospiri orgasmatici, un tributo alla forza vivificante dell'eros. Fu, invece, la constatazione che l'ossessione sessuale non è che un ripetitivo agitarsi, ché "l'amour phisique est sans issue". Trovò tuttavia in Jane Birkin la passione più grande della sua disamorata esistenza: giunta dopo due mogli, due paternità e altrettanti divorzi, e dopo l'effimera liaison con Brigitte Bardot, per la quale quella canzone fu scritta, per essere poi interpretata a due voci con Jane.
Con l'epopea dei grandi chansonniers ebbe un rapporto da guastatore: praticò il jazz, precorse la world music, s'adattò allo yé yé per demolire l'illusione, letteraria e teatrale, di cui s'era alimentata la grande chanson française. E per fare soldi: "Se scrivo dodici capolavori e li metto in un disco - confidò - due di essi avranno successo, gli altri saranno ignorati. Se scrivo dodici canzoni per altrettanti interpreti, i successi saranno dodici". Brigitte Bardot, Dionne Warwick, Donna Summer, France Gall, Petula Clark, Dalida, Juliette Gréco furono tra le interpreti d'un canzoniere che aggregava humour nero, levità strafottente, vicende di depressione, malattie, droga. E il cui autore si definiva, con tetra civetteria, "fiero, maldestro, violento", e ancora "ladruncolo, grande falsario, depresso forsennato".
Si costruì una tematica imponendosi un'esistenza spericolata: vodka e champagne per prima colazione, cinque pacchetti di Gitanes al giorno, le notti passate per strada a fraternizzare con gli spazzini, o nei commissariati in cerca di ladri, spacciatori e puttane cui rubare il segreto del non vivere. Invitato a recitare in uno sceneggiato sulla Rivoluzione francese, pretese per sé il ruolo del marchese di Sade. In un varietà televisivo bruciò una banconota da cinquecento franchi, prima d'intonare la Marsigliese a ritmo di reggae. Bissò lo scandaloso successo di Je t'aime... moi non plus registrando, con la figlia Charlotte, una sulfurea Lemon incest. I grandi maledetti del jazz, Charlie Parker, Thelonius Monk, Miles Davis alimentarono il "cubismo ritmico" e la tensione perversa della sua musica, ma fu Charles Baudelaire il definitivo modello. Refrattario alla fede dei suoi avi, e per nulla imbevuto di religione dell'uomo, Gainsbourg trovò nei Fleurs du mal un appropriato vangelo. Fece sua la metafora baudelairiana del Trismegisto, "Satana culla il nostro spirito incantato/ sul guanciale del Male/ ogni giorno scendiamo d'un passo verso l'inferno/ senza orrore", e concordò col poeta nel delegare alla morte, che "ogni giorno scende, fiume invisibile, nei nostri polmoni", l'approdo liberatorio al nulla. Che lo soccorse nel 1991: quando il fegato cirrotico, i polmoni ingrommati, il cuore disinnescato e ribelle lo condussero pietosamente alla fine. È lecito intuire il sollievo con cui Serge Gainsbourg, dal disilluso dandy ch'era stato, s'abbandonò a quel Niente inseguito per tutti i sessantatrè anni della sua vita. "La seule solution c'était de mourir", aveva cantato del resto, con Brigitte Bardot, in Bonnie et Clyde. Nella bara ottenne che gli mettessero un pacchetto di Gitanes e una bottiglia di whisky.
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