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Giovedì, 07 Giugno 2012 17:15

Storia di musica n. 16 - Prince

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Elfo sfuggente

Prince - Storia di musica di Cesare G. Romana

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Quella sera dell'88 che conobbi Roger Nelson, principe di Minneapolis, il Bois de Boulogne illanguidiva nel plenilunio parigino e nell'umidità novembrina. La limousine arrivò sul viale dove i trans magrebini esponevano al gelo i petti ricolmi e lui, dunque Prince, scese in una nube di visone: ché così lo si immaginava e tale apparve. Il party in suo onore era in un restaurant vicino, dopo un concerto a Bercy il cui titolo, Lovesexy, rendeva giustizia ai temi prediletti dal suo autore. L'elfo entrò, gettò la pelliccia e salutò tutti, camerieri cronisti e vip, col cortese distacco d'un re. Vestiva di seta, altissimi i tacchi, il bellissimo volto esaltato dal trucco. Spiazzò l'arrembaggio dei cronisti con risposte che erano musica pura: un sussurro melodioso, un carezzevole fruscio di vaghezze. C'era in un angolo un pianoforte: lo guatò, gli sorrise come chi sa che anche gli oggetti hanno un'anima, e lui l'aveva vista fluttuare nel bianconero dei tasti.

L'incontro non dissipò il mistero che avvolgeva i moventi del suo genio e le sue sapienti incongruenze: come un utero e insieme un salvacondotto verso il successo. Poche e incerte le tappe della sua biografia: nato nel 1958, o forse nel 1960, a Minneapolis, figlio di due jazzisti, infanzia serena. Nella zona nord di questa metropoli definita "un Eden soporifero, un buco del Midwest in mezzo al nulla", abitano i pochi neri della città: più che un ghetto, un accrocco lindo di case e strade, per famiglie non abbastanza numerose da far paura. Anche se per i musicisti di colore è difficile trovar lavoro, ed è la stessa polizia a dissuadere i gestori dall'ingaggiarli. Prince ne deduce quale sarà la sua missione: imporre la musica nera ai bianchi, scavalcando razze e frontiere.

La famiglia Nelson, intanto, si sfascia, mamma Mattie si risposa e tra il figliastro e il patrigno l'antipatia è immediata. Prince ha dodici anni quando si porta in camera la prima amichetta: scoperto e cacciato da casa, lo accoglie Bernadette Anderson, divorziata, sei figli. Con i nuovi fratelli Roger inventa torridi amori di gruppo, con sottofondi funk e ragazze pendenti dal soffitto. Odia tutte le intemperanze, le droghe, l'alcol, salvo quelle sue fregole di puledro con ardori da stallone. Alla scuola di Jim Hamilton, pianista di Ray Charles, lo definiscono allievo entusiasta ma non eccelso: ma sa tutto su contratti e diritti d'autore, su come trattare coi sindacati o vendere un demo. A tredici anni il piccolo principe suona già pianoforte, chitarra, batteria, violoncello, violino, basso e arpa. Sogna un futuro da calciatore, sul campo è veemente e inafferrabile ma la statura, un metro e cinquantatré, non è quella d'un campione. Resta la musica: manuale di resistenza e salvacondotto verso la gloria. «Mi lavo i denti e sento lo spazzolino vibrare - racconta -. Allora capisco che correre al pianoforte». Così fonda i Grand Central, poi ribattezzati Champagne: provano in solai, in scantinati casuali, in asfittici retrobottega, si esibiscono gratis in concerti aleatori, lui passa nottate sul letto a scrivere, riscrivere, registrare, cancellare.

Da musicista s'impone una disciplina d'acciaio, da futura star comincia a tessere la cortina di mistero che ne alimenterà il mito: «Devo essere controverso e sfuggente - teorizza - se voglio che la gente compri i miei dischi».

E all'altrui curiosità oppone reticenze o fandonie: «La mia musica viene dal ghetto, sono il primo di nove figli, cresciuti tra miseria e zuppe d'avena». E ancora: «Non sono di nessuna razza, le riassumo tutte. Ho una sola ambizione, la senilità, e ci sono vicino». Non ha ancora vent'anni.

Va a New York, fa un provino, fallisce. Ma l'arrendevolezza non è tra le sue virtù: alla fine tre major se lo contendono, lui ne sceglie una e per l'album d'esordio ottiene centomila dollari, che è una cifra da superstar. For you, il primo disco, è il viaggio d'un ventenne nell'iperspazio e nell'ipersesso, nei crediti appare «un ringraziamento speciale a Dio», è epoca di disco music ma anche di talenti centrifughi - Kate Bush, Talking Heads, Ian Dury - e lui pilucca qua e là, preso dalla sua utopia interrazziale. Nei primi album racconta storie d'incesto, terrorismo, schizofrenia. E misticismo.

S'inventa una teologia da bucaniere, fondata su un sillogismo obliquo e tuttavia rigoroso: se il sesso è l'antitesi della guerra, e Dio è la pace suprema, Dio è anche sesso. Così lo si vedrà, in scena, rotolarsi su un letto cantando: «Ho una canna da zucchero da smarrire dentro di te/ voglio sfinirti e farti urlare», e poi ascendere al cielo su una pedana, annunciando che «ci sarà pane per tutti/ se sosterremo la Croce».
E' il suo modo ulteriore di coltivare il mistero, nella difformità delle apparenze. Mascherando l'urgenza della virilità dietro vezzi femminei, costruendo fantasmagorie visionarie col puntiglio d'uno Strehler o d'un Visconti: palchi mutati in ritagli di metropoli o in Eden senza tempo, caos strumentale e sontuose polifonie, ritmi neri e colori da Stravinskij elettronico. Non si era mai visto un più eclettico signore della scena, germina nelle sue metamorfosi un fregolismo mozzafiato: dandy edoardiano e un attimo dopo gangster da fiaba, candido Lucifero e paggio lascivo. Né meno screziato è il suo stile di ballerino: guizza su per le casse dell'amplificazione con l'angelica levità d'un Nurejev, danza col corpo ma anche con la sua voce di farfalla, e intanto inanella falsetti stellari, vertigini di carnalità, vocalizzi da acrobata. Conscio, con James Baldwin, che «nero vuol dire vivido, ricco di sfumature come l'arcobaleno, caldo, veloce, vitale come la vita».

Pian piano il mondo s'inchina al miracolo del suo talento. Al suo primo concerto, a Minneapolis, lo ascoltano cento persone, al secondo il teatro trabocca. «E' il Duke Ellington degli anni Ottanta», sentenzia Miles Davis. «E' è un'icona rabelaisiana che redime la lussuria con l'arte», decretano altri. «E' un genio o uno stronzo?», si chiedono i suoi musicisti, che ne subiscono il fascino ma ne patiscono il dispotismo. Lui sta al gioco: «Questo è il mio periodo viola», annuncia paragonandosi a Picasso, quasi a fonderne insieme il periodo blu e il periodo rosa. E, coerentemente, pubblica Purple Rain: dove il viola è il significante, Dio, la poesia, l'irrazionalità chiaroveggente. E, ancora una volta, il mistero: «Non sono né donna né uomo - canta -, sono quello che non capirete mai».

La musica si fa traghetto verso l'universo, Around the world in a day è Ravel e Charlie Parker, Europa e James Brown, e saga postindustriale, stupore infantile, trame di violoncello, liuto arabo, flauto, percussioni da mantra. Il grande traguardo è raggiunto, il suo sogno apolide galleggia tra voli dello spirito e motivetti circensi, da Mahler del pop. E Sign 'o' The Time celebra la felice degenerazione della follia, il miraggio d'una negritudine con tutti i colori dell'iride.

Ormai famosissimo, Prince tramuta un magazzino fatiscente nel megaprogetto di Paisley Park: studi, campi da gioco, ristoranti, un monumento alla musica e soprattutto a se stesso. «Idiota posatore, effeminato egocentrico, mentecatto in libertà», ghignano i giornali. Lui ribatte con nuovi capolavori, trova nella Parigi interetnica di Fitzgerald, Modì, Picassò, Sidney Bechet la città del cuore per sé e per le sue magnifiche amanti. E attizza la sua fama con nuove bizzarrie. Come il Black album, bloccato alle soglie della pubblicazione badando, però, che migliaia di copie sfuggano al veto e girino il mondo.

Ma incombe il declino. Nel disco, il genio di Prince riluce in gemme sporadiche, più spesso s'ingolfa nella coazione a ripetere. È come se lo sfrenarsi dell'estro l'avesse logorato, o forse è la rivincita del destino sull'ottimismo della volontà. Lui tenta, con ulteriori trovate, di ravvivare il proprio mito: cambia nome e si firma l'artista che un tempo chiamavano Prince, accusa le multinazionali di politica fellona e gira con la parola "schiavo" scritta in faccia, dirama i suoi dischi soltanto su Internet. Ma il re è sempre più nudo. E più umano: il matrimonio con una sua ballerina, Mayte Garcia, sembra l'ennesima mossa per spiazzare i fan, ma è un matrimonio d'amore, sbocciato in tournée e cresciuto nella magia di Parigi. E' il '96, lei è incinta. Il piccolo Boy Gregory nasce col cranio deforme, e muore dopo una settimana.

E' qui che l'aereo folletto si fa persona, ripudia il proprio mistero e si svela. Ha un bel dire, Mayte, che «avremo altri figli, lui continuerà a scrivere e a cantare, la vita non si ferma»: niente sarà più come prima, il flessuoso Napoleone del pop ha trovato la sua Waterloo, e ne esce schiantato. Scrive, pubblica dischi e i nuovi spettacoli non lesinano ritmo, movimento e neppure allegria. Ma è l'allegria desolata d'un clown ferito a morte.

Letto 6767 volte Ultima modifica il Giovedì, 03 Gennaio 2013 13:30
Cesare G. Romana

Cesare G. Romana Genovese doc, amico intimo di Fabrizio De André e suo compagno di strada, è il decano dei giornalisti musicali italiani. Critico de “Il Giornale”, è autore di un fortunato libro su Gino Paoli, e, per Arcana, di Quanta strada nei miei sandali. In viaggio con Paolo Conte e Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con De André.

Ciao Cesare, vogliamo ricordarti così