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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Venerdì Marzo 29, 2024
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 Fragile frastuono di libertà

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Juliette Gréco - Storie di Musica di Cesare G. RomanaAnche nella morsa della Gestapo Parigi era smagliante. Ai piedi di boulevard Saint Michel la statua dell'Arcangelo era un inno alla luce, nei giardini del Luxembourg il verde straripava. La ragazza, sedici anni, passò rapida, con i seni da matriarca in affanno e i pantaloni da uomo sformati dall'incuria. Si fermò soltanto nel pronao del teatro, tra le colonne dove i clochard passavano la notte e dove ogni giorno andava a sognare e a dimenticare: sognare un futuro improbabile di palcoscenici, per dimenticare il presente.

È la prima immagine che i biografi - ultimo lo splendido libro di Bertrand Dicale, intitolato all'artista e fresco di stampa per l'editrice Le Lettere - ci tramandano di Juliette Gréco. L'antefatto è invece a Bordeaux, nel quartiere iper-borghese di Talence che nel '27 le dà i natali: un'infanzia da bambina ostica, per padre un poliziotto egocentrico e brutale, per madre una letterata altera, distante, persa tra miraggi di grandezza e utopie da femminista avant lettre. La donna chiama la figlia Toutoute, come una trovatella: «Non t'ho fatta io - le ripete -, t'ho comprata dagli zingari». Quando il padre se ne va, solo amico di Juliette resta un grosso, soave orso di pezza: la madre glielo butta via, «era fatta per cose gloriose - dirà la figlia -, la tenerezza le era estranea».

Ancora implume, in vacanza a Périgord, Toutoute s'innamora. Lui è un gitano sordomuto, vive in una roulotte ed è ammalato, come lei, di libertà. Ma è un amore di soli sguardi: muto, e in più platonico. A svelare a Juliette il mistero del sesso è, in collegio, la suora che una notte si infila nel suo letto, e poi la notte dopo e altre ancora. Finché Toutoute, accusata di furto, litiga con la superiora e l'espellono.

Tornata in famiglia vive con la madre, le sue amanti e i suoi amanti. Viene come un cardo selvatico, solitaria e spinosa. A tredici anni prende a schiaffi la signora Gréco e poi fugge in un fienile: i gendarmi la ritrovano a notte fonda, tremante di gelo e di terrore. A scuola non lega con nessuno, i giochi dei coetanei la irritano. Passa ore nella toilette a declamare Racine, un'insegnante ne nota "gli occhi di marmo nero, da Cleopatra, e la voce da attrice tragica".

Intanto le schiere di Hitler hanno invaso la Francia, la madre di Juliette entra nella Resistenza, fornisce falsi documenti ai partigiani e l'arrestano. Una mattina, Toutoute aspetta la sorella, Charlotte, in place de la Madeleine, quando quattro figuri l'afferrano. Trascinata su un cellulare prende a schiaffi gli uomini della Gestapo e ne è picchiata con foga selvaggia. Nella prigione di Fresnes una kapò, perquisendola, la deflora, poi la chiude, sanguinante, in una cella illuminata giorno e notte, con tre puttane che ne odiano da subito il riserbo insolente, poi finiscono per amarne la fragilità.

Tornata libera Toutoute alloggia in una pensione vicino a Saint Sulpice, a un fiato da Saint-Germain-des-Prés. Nell'appartamento si gela, il cibo manca e per scaldarsi non resta che sradicare pezzi di parquet e dargli fuoco. Uno studente, Bernard Quentin, offre a Juliette i suoi vestiti e il suo letto, per mangiare Toutoute deruba chiunque abbia una baguette o una fetta di formaggio. Quando, a diciannove anni, resta incinta una mammana l'aiuta ad abortire: le gambe intrappolate in un cerchio di metallo, uno strazio di ferri adunchi, carni ferite, emorragie che si susseguono per giorni e giorni. Juliette è un bucaniere alla deriva, ma è proprio l'indole da bucaniere a salvarla dal naufragio. E un chirurgo di buon cuore: che la vede svenire per strada, la soccorre e la cura, gratuitamente.

Finisce la guerra, i tedeschi sfollano via, De Gaulle annuncia la riacquistata libertà. E sulla Francia soffia un vento d'allegria ritrovata: "È la dittatura del piacere", titola un piscia-fogli, come nelle caves della Rive Gauche chiamano i giornalisti. Nei bar di Saint-Germain si reimpara a ridere, si ama, s'inventa. E si beve, a fiumi: «Un po' perché l'alcol non mancava - dirà Simone de Beauvoir -, un po' per sfogo, per festa, per oblio». Juliette e Quentin vivono, ora, in una mansarda da vie de bohème, oltre l'abbaino fumano i mille comignoli di Parigi, lui dipinge e lei sogna. O legge: Kierkegaard, Marx, Gide, Teresa d'Avila. Si iscrive al partito comunista, vende l'Humanité, con Marguerite Duras, su per il boulevard Saint-Michel, poi scopre che la militanza è una gabbia, non s'addice al suo animo volatile e restituisce la tessera. Fa la comparsa alla Comédie Française in un dramma di Claudel, intona "costruiremo un domani che canta" a fianco di Trenet e Josephine Baker, recita in Victor o i bambini al potere, di Roger Vitrac, con la regia di Antonin Artaud. Il dramma racconta, dice quest'ultimo, "la disgregazione del pensiero moderno in favore di chissà cosa", Juliette se ne accende con tale veemenza che un critico le riconosce "una precoce autorevolezza". Ora i copains di Toutoute sono un professore gentile e ironico, uscito da un lager tedesco, che si chiama Jean-Paul Sartre, e con lui la Beauvoir, Camus, Queneau, Prévert. E Boris Vian, fresco dello sdegnato successo di Sputerò sulle vostre tombe, che suona la tromba in un gruppo jazz e le è maestro di euforie e depressioni. Senza avere mai girato un film o inciso un disco, Juliette si ritrova famosa: per le sue risse, gli amori spiazzanti, le amicizie eterodosse. Per aver preso a ceffoni un ministro troppo galante, per aver messo al tappeto il figlio d'Alfred Cortot, per "la furia selvaggia con la quale fa a pugni", scrive France Dimanche. Ma soprattutto perché nessuno, nella Francia rinata, sa impersonare, come lei, lo scandalo, la gloria, il frastuono della libertà.

Declinano intanto, nell'euforia e nell'incertezza del futuro, i tumultuosi anni Quaranta e a Juliette portano in dono il più grande amore della sua vita, e il più feroce dolore. Lui è un campione automobilista, eroe della Resistenza, ingegnere, si chiama Jean-Pierre Wimille, ha gli occhi verdi, le tempie grigie e ventitrè anni più di lei. È mondano quanto lei è schiva, allegro quanto lei è ombrosa. Li avvince la legge degli opposti: si conoscono, si guardano e la passione divampa. Insieme girano Parigi, Antibes, Capri. Dopo la prima notte d'amore, in sogno, Toutoute vede l'uomo morire sulla sua auto, col petto dilaniato dal volante. Ed è esattamente così che Jean-Pierre se ne va il 29 gennaio '49, sul circuito di Buenos Aires, slittando su una cunetta.

Per Juliette è una fine senza fine, una disperazione che s'allunga sugli anni a venire. Si guarda vivere con occhi da estranea, si fa ancor più introversa, le leggendarie baruffe sono solo un ricordo. Cerca sollievo, vanamente, in liaisons provvisorie. Con Miles Davis, per esempio: lui, ventitrè anni, è soltanto un cupo, misogino genio in fieri, ma Juliette lo vede "bello come un dio egizio" e gli suscita un amore senza scampo. Per addolcirle il risveglio Davis, immerso nella vasca da bagno, suona Bach, insieme ciondolano ore e ore, mano nella mano, su e giù per il Lungosenna. Finisce tre settimane dopo: Miles torna a New York e sprofonda nell'eroina. Poi Marlon Brando: giovane, bellissimo e già famoso, sfreccia per Parigi con la sua moto enorme. La conquista senza fatica, e senza fatica la perde. Passano tre anni e Toutoute sente incombere il momento di reinventarsi. Lascia i pantaloni sformati e le scarpe da uomo, s'inguaina in tubini neri, muta le forme tozze in una magrezza da naufrago. E trasforma la ragazzaccia della rive gauche in una lady altera. Comincia col cinema: è Circe in Ulysse, di Alexandre Astruc, con Simone Signoret che fa Penelope, Jean Cocteau che è Omero e Jean Genet che dovrebbe essere Polifemo, ma non si fa vedere. Poi le consigliano di diventare cantante. Sartre la guida nella scelta dei brani: liriche di Queneau (Si tu t'imagines), Laforgue (L'éternel féminin), Prévert (Les feuilles mortes) e dello stesso Jean-Paul (La rue des Blancs-Manteauxz).

Joseph Kosma scrive le musiche e al debutto, in un club della rive droite, applaudono Mauriac, Allégret, Resnais, Erskine Caldwell. Juliette canta con Wimille nel cuore, neppure l'innata alterigia argina l'urgenza del rimpianto. Azzarda Les feuilles mortes e, quando canta "en ce temps là la vie était plus belle", dalla gola filtra solo un sussurro: il resto è pianto rattenuto. La voce è fosca e imprecisa, ma Sartre ne scrive: "Le parole hanno una bellezza sensuale, e Juliette ce la ricorda: attizza il fuoco che nascondono, ha nella gola milioni di poesie mai scritte".

Il dado è tratto, il successo di Juliette Gréco dilaga nel mondo, i maggiori teatri l'accolgono e, tra i primi, quello dei suoi sogni di bambina. Il resto è storia: successi, diatribe, scandali e un rosario lungo d'amici, mariti ed amanti. Musicisti come Sacha Distel, produttori come Darryl Zanuck, attori come Michel Piccoli, Philippe Lemaire che la sposa e ne nasce Laurence-Marie, bionda e ridente e bellissima, Rolande Alexandre che s'uccide col gas, travolto dal disamore di lei. Poi gli amici: Françoise Sagan, Eddie Constantine, Brassens, Léo Ferré, Serge Gainsbourg, Yves Montand, Aznavour. Più un giovane belga con gli occhi di febbre e il viso scarnito, che un giorno le fa ascoltare le proprie canzoni e lei dice: "Non saprei interpretarle come te, cantale tu". Lui si chiama Jacques Brel, suo pianista e coautore è un tale Gérard Jouannest. Ha modi cortesi, è schivo e tenace. Quando Jacques si ritira a morire nella quiete delle Marchesi, diventa il pianista di Juliette e il suo nuovo marito. Lo è ancora.

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 «Sono livornese, anarchico e comunista»

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Piero Ciampi - Storie di musica

Per viatico chiese un fiore e un bicchiere di vino fresco. Poi vide i fianchi dell'infermiera sparire rotondi oltre la corsia, e finalmente scivolò nel nulla. Sorridendo di sollievo, come mai gli aveva concesso la vita. Furono pochi i giornali che annunciarono la morte di Piero Ciampi, in quel diaccio gennaio del 1980 che lui coronò il sogno di un'esistenza «tutta passata a morire, ad ogni cosa che faccio». Parlarono invece i poeti: «Cantò la normale stranezza della realtà - lo descrisse Maurizio Cucchi - con voce così poco canora che non potevi fare a meno di considerarla viva e parlante». Gino Paoli fece eco: «Mi ricordava Vian, Bianciardi e Céline, visse come scriveva: iroso, acre, tenero, assurdo». «Preferiva alla rabbia il litigio, alla provocazione la bagarre», disse Paolo Conte. E Carmelo Bene, compagno di litigiose partite a dama, ringhiò: «Scompare, al solito, una delle rare persone eccezionali che abbiamo, e ci si accorge di lui troppo tardi».

Fu l'epitaffio più sferzante, quello che Ciampi avrebbe prescelto come il più consentaneo alla sua anima buona e rissosa. Sarebbe stato il più dolce degli epicedi, per la sua boria indifesa e per la sua anima fragile, rafforzata dalle zuffe. «Di mestiere farò il poeta, ma se va male lavorerò in porto dove i cazzotti non mancano mai», confidava ai parenti, ancora bambino.

Ché furono, i cazzotti, un suo modo di far poesia, insieme al vino e agli amori: pochi, allegri e devastati dall'incuria e dal malanimo, come in fondo fu tutta la sua esistenza. Imparò a fare a pugni fin dall'infanzia, figlio d'un venditore di perle e d'una madre morta giovane, che gli aprì nel cuore una ferita perpetua. Un giorno, con un fratello, diede fuoco alla casa paterna: per allegria, per sfregio o per vedere l'effetto che fa. Studiò di contraggenio, come s'addice alle menti profonde, ebbe amici rissosi come lui e, diplomatosi, emigrò a Milano per compiacere il padre, che lo voleva ingegnere. Ma Milano era euforica, torbida e senza mare, lui era un pirata, abituato al maestrale e al salino. Era un rock'n'roll di cantieri e motori, lui misurava il tempo di vivere sui ritmi lunghi delle onde. Così se ne tornò a Livorno e alle sue asprezze, ché «noi livornesi - diceva, orgoglioso - siamo toscani come gli altri, solo più antipatici».

Si guadagnò da vivere vendendo lubrificanti, e da sopravvivere scrivendo poesie come questa: Ho visto/ un cuore/ giacere rossastro/ sulla strada/ e un gatto/ mangiarlo/ tra gente/ indifferente. Nel '55, compiuti i ventun anni, andò al Car di Pesaro, in servizio di leva. Tra le reclute c'era Gianfranco Reverberi: musicista, baffi guasconi, risata pronta. All'attesa per le assegnazioni, Gianfranco sentì «una voce da menefreghista - disse - che articolava un blues», la raggiunse, si presentò e i due furono subito amici. Misero su un complessino, tennero banco nelle balere fino a ferma conclusa. Ciampi scriveva canzoni sui tovaglioli delle osterie, Reverberi ne lesse alcune e disse: «Strane come sono, piacerebbero in Francia». E Ciampi partì per Parigi.

Portò con sé una camicia, la chitarra e il biglietto d'andata. Sul passaporto pretese che scrivessero: Ciampi Pietro, Livorno 20 settembre 1934, professione poeta. Visse due anni tra ammezzati, conventi e cantine. A mezzogiorno sfilava dai frati per un piatto di brodo, al pomeriggio faceva la questua in Boulevard Saint Germain, la sera cantava nei bistrot, tre locali ogni sera, la ruggine in gola e uno pesudonimo, Piero Litaliano, che i francesi pronunciavano tronco, Litalianò. In un bar del quartiere latino un uomo magrissimo lo ascoltò e poi lo invitò al suo tavolo. Aveva la voce impastata nel cognac ed era Louis-Ferdinand Céline, ormai vicino a morire. Trovò nel livornese allampanato un altro se stesso, gli insegnò il mestiere sottile dell'autodistruggersi, che è un modo di vivere senza il peso di esistere.

Gli amori francesi di Ciampi furono brevi come fiati di vento: brevi, veementi. Gli chiesi, anni dopo, se ne avesse mai avuto uno felice, che dai suoi versi non si sarebbe detto. «Un paio, ma così corti», rispose brusco. E accennò alla strofa, famosissima, che in una sera parigina gli aveva bofonchiato Céline, appunto: Plasir d'amour ne dure qu'un moment/ chagrin d'amour dure toute le vie. Gli domandai come fosse, Céline. «Aveva una voce d'agonia e un sarcasmo da ciclope, non capii mai se, sotto sotto, amasse più la vita o la morte», ricordò, e fu tutto. Mi parve di vederli, il livornese con gli occhi azzurri che gesticolava senza requie, e di fronte a lui il vecchio fragile, arrivato al termine della notte, che ansimava con ironia di morente.

Lasciata la Francia, Piero Litalianò vagò tra Inghilterra, Spagna e Irlanda. Seguiva una sua geografia sbilenca, fondata su un atlante arbitrario: la Calabria è un'isola, diceva, l'Irlanda è un paradiso e l'America non esiste più. Quando non trovava dove esibirsi faceva la fame, ma senza rancore: d'altronde «un poeta - spiegava - può andare a cena soltanto sulle stelle». Proponeva canzoni piene di tenerezza furtiva e d'esplicita rabbia, spiegando che cantava «per non ammazzare», e dicendosi «sempre incazzato per tre buoni motivi: sono livornese, anarchico e comunista». Alle sue risicate platee parlava spesso di Livorno, «che è un'isola ma è anche il mondo, e io ne sono il Robinson Crusoe». Infatti ci tornò, senza un soldo come quando l'aveva lasciata, costretto dal rimpianto e dal fatto che all'estero non aveva mai ottenuto, tutte insieme, le quattro cose che più gli premevano: una frittata di cipolle, un bicchiere di vino, un caffé caldo e un taxi alla porta.

A una festa, a Genova, incontrò un'irlandese alta, snella e bionda. Il suo estro di navigante gliela fece apparire bellissima e in lei s'arenò, la ragazza apprezzò, di lui, la faccia ribalda e la timidezza aspra. Si sposarono, ebbero due figli, poi l'irlandese se ne fuggì: Piero l'amava dal pirata che era, lei cercava il tepore della stabilità. La rincorse in America, non la trovò perché l'America non è Livorno, è un universo dai confini impossibili, dove c'è tutto e nulla. Così si risposò, ma con l'alcol: che non tradisce, alla pari d'un amore s'infiltra nel sangue e pian piano ti consuma. Pochissimi da allora lo videro sobrio. Diceva: «In tutto quello che faccio c'è un po' di morte».

Visse tra Roma e Livorno con quello squarcio nell'animo. Gino Paoli lo impose alla Rca, gli procurarono un contratto e una casa, lui firmò, prese i soldi e sparì. Fece dischi con etichette rionali, firmandosi ora Piero Litaliano, ora Ramsete, poi col suo nome e cognome, e ogni volta con lo stesso insuccesso. Sul palco arrivava quasi sempre ubriaco, dimenticandosi i testi e reinventandoli all'impronta, con la logica storta e la coerenza bambina del poeta che credeva di essere, e probabilmente non fu. Del valore dei soldi non ebbe mai cognizione, gli piaceva la fama ma mal sopportava le telecamere: «Se vogliono riprendermi paghino - diceva -, sono ricchi, questi signori della tivù: portano mocassini da diecimila lire». Cantanti e cantautori? Se ne sentiva disamato, li chiamava "pezzi di merda" e preferiva frequentare pittori e scrittori: Bevilacqua, Turcato, Schifano, Carmelo Bene. E tuttavia Paoli gli incise vari brani, Aznavour lo volle al suo fianco in tivù, altre sue cose le interpretarono Gigliola Cinquetti, Connie Francis, Milly, Nicola di Bari, Morandi. E Nada la livornese, stregata da quel suo sguardo «dolce, triste, profondo: lo sguardo d'un bambino che sa ma non sa come fare». Ché piaceva, in fondo, l'impudicizia del suo mettersi a nudo, la voglia di autoritrarsi in pagine come questa: Ha tutte le carte in regola/ per essere un artista/ ha un carattere malinconico/ beve come un irlandese...

Trascorse così vent'anni: tribolando e divertendosi tra lucidissime sbronze, prestiti mai restituiti, contratti disattesi, parchi successi, turbolenti concerti, amicizie e inimicizie egualmente riottose. E per vent'anni, sorso dopo sorso, preparò la sua fine, aspettando che il fegato gli si spappolasse nell'alcol: invece il destino gli giocò l'ultima beffa, uccidendolo di cancro alla gola. Un ospedale romano gli fu ultima casa e ultima spiaggia, finché se ne andò come in una pagina del suo Céline, l'ultima di Voyage au bout de la nuit: «È crollato, tranquillo, tra enormi sospiri. Ha dormito. Che non se ne parli più». Gli restò, sul viso, un sorriso di pace, come mai la vita gli aveva concesso. Non fu difficile, trasferirlo dal letto alla bara: il male aveva reso il suo corpo sottile come una vela, tanto che sotto il lenzuolo - fu detto - rimaneva soltanto la sua intelligenza. Quando gli portarono il vino del commiato e il fiore della tregua, cadde nel sopore della buona morte. Tra i poeti, veri, che gli dissero addio, l'epicedio più bello glielo dedicò Francesco De Gregori: «Nella noiosa foresta della Gente Muta, le sue canzoni sono i sassolini che ci portano alla spianata da cui, con un po' di buona sorte, puoi vedere un pezzetto di luna».

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