Avete letto bene. Nonostante quanto riportato sulla copertina del disco, non me la sento di avallare fino in fondo questa come la dodicesima opera dei Pink Floyd. A seguito dell’ erezione del muro, e forse già da qualche tempo prima, nulla era rimasto della band. Nessuna traccia degli incubi psichedelici di barrettiana memoria, peraltro già svaniti da tempo con il suo profeta. Ma nemmeno le indimenticabili suite progressive che avevano caratterizzato la produzione del decennio successivo, da Atom a Animals. E neppure, infine, gli elementi della band. Wright defenestrato, Gilmour, impigrito ed adombrato, ridotto a session man del suo stesso gruppo. Mason che cerca di seguire le correnti contrastanti con palese mancanza d’entusiasmo. Responsabile unico del progetto Final Cut è Waters, e il progetto è da lui stesso definito nelle note di copertina: “Requiem per il sogno del dopoguerra”.
E’ un viaggio crudele, agghiacciante attraverso la coscienza e lo spirito della società umana fuoriuscita dal secondo conflitto mondiale, al termine del quale l’uomo si scopre devastato, inesorabilmente privo di speranze circa un futuro vivibile. Non solo per i danni causati dalla guerra, ma anche per le fosche prospettive che trapelano da un avvenire che si ciberà del nucleare (Two Suns In The Sunset), e che vedrà la predominanza di guide politiche cieche e potenze commerciali-economiche senza scrupoli (Not Now John - The Post War Dream). Un viaggio che analizza spietatamente l’incubo del reduce, attraverso le atmosfere grevi di Your Possible Pasts o The Hero’s Return, storie di sopravvissuti che si raffronteranno in eterno con reminiscenze tanto drammatiche quanto indelebili. Oppure disillusi da ingannevoli promesse di grandezza, che ora annegano nell‘alcool (Paranoid Eyes).
L’ immagine migliore dello stato d’animo di chi torna dalla guerra è resa superbamente dalla frase di apertura di Southampton Dock: "Sbarcarono in 45, nessuno rideva, nessuno parlava. C’erano troppi buchi tra le linee." Non manca la cronaca della fine di un soldato ("The Gunner’s Dream"), che nell’approssimarsi del momento supremo lascia la poetica e fievole eredità di un sogno di pace. Il Waters più prettamente politico emerge in "Get your filthy hands off my desert", sul combattimento delle Falkland, e nel miraggio pazzoide di The Fletcher Memorial Home, nel quale anela alla fondazione di una speciale casa di riposo per politici dei quali evidentemente non doveva aver eccessiva stima; oltre all’immancabile Thatcher figurano Reagan, Begin, Nixon, Brezhnev. L’uomo medio del postwar, secondo l’allegro Ruggero, non può che meditare il suicidio, che però non ha il coraggio di attuare (The Final Cut).
E la musica? Strepitosa. Dolorosamente struggente, schizofrenica, fortunatamente più minimalista che sontuosa, il che aggira la trappola della retorica. Pianoforti dimessi e malinconici, fiati tormentati ed ardenti. L’efficace parentesi del rock duro di Not Now John, non a caso l’unico contributo vocale di David Gilmour, che comunque pennella interventi notevoli in Fletcher e Your Possible Pasts. L’apocalittico timbro del sax che chiude Two Suns In The Sunset, il pezzo migliore e dunque il più adatto a porre fine al disco, mentre i due soli al tramonto (quello naturale e quello radioattivo) calano il sipario su un’opera emotivamente irraggiungibile, una sentita, sofferta, irripetibile trasposizione in musica di uno dei momenti più oscuri e crudeli della storia dell’ umanità.