In un momento di impasse imbarazzante per la musica italiana, tra l’inadeguatezza delle nuove proposte ed il rimbambimento ineluttabile di alcuni storici esponenti, Prendere e lasciare rappresenta un deciso segno di non-allineamento. Una somma di oltre vent’anni di lavoro, ove tutto si esprime con compiutezza e sostanza, con due sole tracce di cantautorato nell’accezione classica del termine, ossia nella title-track, presentata in doppia versione nonché nella commovente Stelutis Alpiinis. Prendere e lasciare è un brano che scalcia e disgrega il mito del cantautore quale gestore di segreti e verità: “…bisogna fare e disfare, prendere e lasciare, siamo come cani senza padrone..”, impietosa e dissacrante ammissione della necessità di una guida; il secondo pezzo è un poetico racconto alpestre impreziosito dalla chitarra classica che crea un’atmosfera rarefatta e suggestiva.
Ma siamo felici di registrare come sia il rock, un rock deciso e per nulla banale, a farla da padrone nell’album. Vedasi il singolo L’agnello di Dio, introdotto dal secco suono di un rullante funky, un brano solo in apparenza risaputo, con le sue molteplici denunce socio/morali; la peculiarità consiste però nella costernazione, nella richiesta d’aiuto a un Entità superiore, coinvolgente nella sua semplicità: “aiutami a fare come si può..prenditi tutto quello che ho..dovunque sarai, sarò”. Una preghiera accorata, un attestato di fede magari sorprendente visto il personaggio, ma non per questo meno sincero. Positività, dunque. Ribadita, con forza anche nella vigorosa Tutti hanno un cuore, il che è innegabile, nonostante le vite marginali descritte nel testo. L’anelare al perdono; la voglia di espiazione. Condizioni espresse nella cruenta Fine di un killer, tardivo pentimento di un lestofante colto da un presagio di sventura, massacro descritto con una saltellante andatura “irish”. Con decisione sono narrate anche le conflittualità imperanti tra simili, siano esse quelle dell’ambigui protagonisti di Compagni di viaggio o dei complici di Baci da pompei; in entrambi i casi un latente senso di speranza permane nel vago sfumare dei brani.
La delicatezza di Jazz riporta ad esortazioni più leggere e terrene (“fa che duri il tempo..”), ma non per questo meno pressanti per l’uomo; reiterate qui e la nella sublime Rosa rosae, così struggente nel breve intermezzo strumentale, e nella sensuale Prendi questa mano zingara. Il punto più alto del disco è senza dubbio Un guanto. Una dolce melodia accompagna questo piccolo ed indifeso protagonista attraverso mille ed una situazioni, e simboleggia la fuga dalle inibizioni, lo scacciare la paura di vivere. Lo svincolarsi da tutto ciò che ci impedisce di volare “oltre il luogo, l’azione, il tempo consentito", fino a posarsi nel “quadro infinito ove psiche e cupido governano insieme”. Un affresco che chiude in bellezza un disco davvero convincente, meno cupo ed ermetico di altre opere del cantautore, aperto al futuro che avanza ingombrante sotto forma di nuovo millennio.