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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Venerdì Marzo 29, 2024
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Per la sua rentrèe nel music biz dopo quattro anni d’inattività, sulla quale si è parlato quasi sempre a sproposito, John sceglie una formula inattesa, cioè l’alternare il proprio materiale a quello della mogliettina orientale. E malgrado non sia semplice analizzare con obiettività un prodotto che vede la luce ventidue giorni prima dell’omicidio del suo autore, a parere di chi scrive si tratta d’ un disco brillante di luce propria, indipendentemente dai fatti dell’8 dicembre.

 

Le canzoni di Lennon sono intimiste ed emozionanti; l’ex-baronetto mostra, forse con un po’ di pudore, il suo lato sentimentale riuscendo, opportunamente, a non scivolare nella melassa. Si comincia con il singolo trainante, (Just like) starting over, un tuffo nelle atmosfere patinate delle dance hall anni ’50, che contiene la dichiarazione d’intenti espressa nel titolo, una bella pietra sopra, ripartire da capo, andarsene lontano. Cleanup time è invece un esercizio mid-tempo nel quale il concetto di rinascita si amplia affrontando il tema della rinuncia all’alcool e alle droghe, con rivelazioni sulla vita coniugale della coppia post-'75: “The queen is in the counting house/Counting out the money/The king is in the kitchen/Making bread and honey”.

Ad appesantire il clima idilliaco provvede il rock cupo di I’m losing you. Lennon affida a un sincopato lamento in minore, liricamente assai valevole, il timore di perdere Yoko, una volta riconquistatala con fatica a metà decennio. Sarà purtroppo lei a perdere lui. E’comunque l’unico momento tetro: il pezzo successivo, Beautiful boy è un’incantevole dedica a Sean, che vanta un middle eight d’alto spessore melodico e alcune frasi che è impossibile ascoltare senza un doloroso sentimento d’afflizione:“life is what happens to you/while you’re busy making other plans”.

 

Watching the wheels, il punto più notevole dell’intero lavoro è una sognante marcetta dominata dal pianoforte, con la quale John si rivolge al suo pubblico, razionalizzando con leggerezza di spirito la lunga assenza dalle scene. Musicalmente sarebbe stato il punto di partenza perfetto, per il suo futuro artistico. Livello mantenuto alto anche dalla successiva Woman, il brano di maggior successo di Double Fantasy, love song d’intensità maccartiana, colma d’elogi e onori diretti alla metà giapponese, che ha pochi uguali, nel genere, nell'intera produzione di Lennon. Sempre Yoko la destinataria inconfutabile dell'ultima sua traccia, un'allegra cantilena sostenuta dall'armonica a bocca, con invocazioni vagamente iettatorie, visto quanto sarebbe poi successo, ("Your spirit s' watching over me, Dear Yoko"...) e positività a mille.

 

Le espressioni della succitata Yoko sono pregne d'accenti new wave, il che la porta a cavalcare l'onda, se non addirittura a originarla (le opinioni divergono) di bands come B'52 o la Lovich. Tra di esse, la più accessibile è certamente il rock scattante, deciso di I'm moving on, che funziona quasi come da risposta ai fantasmi di I'm losing you, alla quale segue senza soluzione di continuità. 

Kiss kiss kiss, col coitus ininterruptus da sol levante che ne occupa l'intero minuto finale e Give me something, nevrotiche e frastagliate, suonano in effetti più moderne (il che non è quasi mai sinonimo di migliori) rispetto alle proposte del marito. La meglio Ono la troviamo peraltro in Beautiful boys, ove si veste da donna del mistero e cesella una melodia fosca e intrigante, con più d'una frase evidentemente autobiografica ("Don't be afraid to go to hell and back").

 

I'm your angel è un valzerotto piuttosto abusato che par preso di peso da un musical dimenticato; meglio lo ska rallentato di Everyman has a woman who loves him. Chiude l'album un brano il cui titolo è tutto un programma, la corale, quadrata, Hard times are over, che riporta alla mente il Bowie di Young Americans. In essa, l'autrice dichiara che i tempi duri erano finiti, almeno per un pò. Esattamente per 22 giorni.

 

Al netto d'ogni emozionalità, un'opera ragguardevole, questa dei coniugi Lennon; per John sarebbe stato un nuovo inizio, il destino ha voluto diversamente. Lo sfruttamento comincerà presto e durerà almeno un trentennio: da John Lennon collection del 1982 a (per ora) Double Fantasy Stripped (!) nel 2010.

 

 

 

 

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Il dato più significativo rapportabile a quest'undicesima prova da solista di Harrison, che vede la luce cinque anni dopo il leggero Gone Troppo, è che, come risulta chiaro fin dal titolo, George fa finalmente pace con sé stesso e il suo passato. E crea musica definitivamente scevra da solenni attestazioni filosofico-religiose, che farcivano, non sempre in modo del tutto opportuno, i solchi dei suoi dischi della prima metà  degli anni settanta, ma anche da livorosi riferimenti alla golden age di vent'anni prima.

 

Le intenzioni sono chiare sin dal blues d'apertura, la claptoniana Cloud 9, sodo e coprente omaggio a Lennon, di cui prende in prestito una delle espressioni preferite, che diverrà  uno dei caposaldi della tourneé giapponese di qualche stagione più avanti. L'amore, dunque, la gioia; ecco le muse ispiratrici di Cloud 9. Grazie anche all' aiuto di Jeff Lynne (Electric Light Orchestra), amico e coautore dei due brani, il nostro fornisce esempi davvero belli in This Is Love and When We Was Fab, specialmente nella seconda, un affettuoso tributo alla beatle-era che riesce a non cadere mai nel patetico. Tra i fumi di un primitivo sogno psichedelico, un pizzico di flower-power e l'inconfondibile tocco di Mr. Starkey alla batteria, il muro tra il signor Harrison e il cucciolo George viene definitivamente sbriciolato. La disperazione è un qualcosa d'intangibile, che non abita (più) qui. Ulteriore dimostrazione la presenza a fine album della vecchia hit di Rudi Clark, Got My Mind Set On You, un twist seducente che risale ai tempi di Amburgo, che completa il restauro d'immagine del ragazzo (e gli restituisce una hit mondiale sei anni dopo All Those Years Ago. N.1 in America e Canada e 2 in patria). Ma anche Fish On The Sand, Wreck Of The Hesperus e sopratutto il rock possente di That's What It Takes sono fresche e coinvolgenti.

 

Momenti di riflessione, in ogni caso, non ne mancano. Il lirismo di Just For Today è manifesto di una nuova, saggia semplicità . E Someplace Else, in versione riveduta e corretta (e migliorata) rispetto alla soundtrack di Shangai Surprise, si candida ad essere una delle espressioni melodiche più riuscite del suo intero catalogo solista. Palma del brano migliore alla straordinaria Devil's Radio, fremente rock da strada che si risolve in un attacco frontale al gossip e al male derivante da certe disinvolte insinuazioni, con più di un riferimento a un certo insistito eclissarsi di Harrison dalle luci dello star system («You wonder why I don't hang »˜round much, I wonder how you can't see..»), risalente ad esempio agli anni delle sue controversie giudiziarie della metà  del decennio precedente. Un pezzo che non avrebbe mal figurato in nessun' opera del George migliore (1968- 1971), sia coi tre soci che in autonomia.

 

L'eterea, soffice Breath Away From Heaven completa un quadro idilliaco, nel punto in cui inopinatamente è l'intera carriera solistica dell'ex beatle a chiudersi. Negli anni novanta per lui ci sarà  ampio spazio per collaborazioni di successo (L'avventura dei Traveling Wilburys e la riunione con Paul e Ringo per Anthology), ma a livello solistico non riuscirà  a portare a termine il lavoro per Brainwashed, i cui ritocchi saranno a cura dei suoi collaboratori e del figlio Dhani Anche alla luce di quest'ultimo lavoro, che uscirà  postumo nel novembre del 2002, Cloud 9 resta comunque il miglio disco di George dai tempi di All Things Must Pass. Con la sostanziale differenza che in quell'occasione il capolavoro scaturiva dall'amarezza, dalla disillusione, dal fatalismo. Qui siamo invece di fronte a toni rinfrancati, positivi, divertiti addirittura, e il materiale resta costantemente pressoché privo di sbavature. Una prova che svela una maturità  ormai metabolizzata, senza più risentimenti, giustamente premiata da critica e pubblico.

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Edito nel momento in cui la golden age del prog europeo (Italia compresa) andava malauguratamente sbiadendo, sfiancata dall' ondata punk prima e disco poi, questo nono album degli Yes, Tormato, nasce con un doppio, ambizioso fine. Quello di proseguire comunque una tradizione che l'anno prima aveva inanellato un nuovo, considerevole tassello con Going For The One, senza rinunciare ad arricchire la fortunata vena di pezzi brevi e potenzialmente scalatori di charts, inaugurata da Wonderous Stories, estratta proprio da quel penultimo lavoro.


Il primo di questi due passi viene portato a compimento aggiungendo alla sonorità  peculiarmente seventy della band una ventata di toni nuovi, che strizzano l'occhio alla new age, come salta all' orecchio dall'ascolto della opener Future Times, creativamente l' unica espressione collettiva del gruppo, quasi a dimostrare una precisa unità  d'intenti nel procedere verso una direzione del genere.


Sempre in questo settore, più classicheggiante suona un brano come Circus Of Heaven, colmo di visioni oniriche, divinità , animali e personaggi fantastici, il «circo» del prog riproposto nella sua eccezione più tipica e forse talvolta un po' kitsch.



La più peculiare messa in pratica del secondo scopo è la presenza del potente stomp animalista di Don't Kill The Whale, che gioca le sue carte in cento secondi, dando poi ampio spazio alle articolate scale di Steve Howe seguite dai gotici arzigogoli di Wakeman (e da un ridondante corettino inserito nel finale). Il rinnovamento in corso s'arricchisce d'un senso di «spazialità », che pervade l'intera opera, con particolare riferimento in alcuni testi (Arriving UFO o Madrigal) e in certi arrangiamenti (Future Times/Rejoice). Non mancano raccolti momenti di devoto lirismo, come la succitata Madrigal, nostalgica ode a un' anima pura che «ci guidi verso un era nuova»(!), cui l'harpsicord e la chitarra spagnola forniscono un delicato tappeto pastorale. Oppure Onward, il momento in cui le luci convergono su Chris Squire per il suo raccolto canto di amore, dove non c'è nulla da sviscerare, da iperprodurre: solo una melodia riflessiva su poche semplici, intime righe.


Spazio a parte per Release Release, atletico rock caratterizzato da nutrite variazioni di tempo, il cui refrain è introdotto da uno snello giro tricorde, e che avrebbe regalato agli Yes una hit minore in madrepatria. Atmosfere da stadio per un consistente solo del drummer Alan White, prima che Squire e Howe riportino il brano sui binari iniziali, una delle manifestazioni più convincenti di Tormato.



Meglio anche del finale, On The Silent Wings Of Freedom, cooperazione Anderson/Squire, che associa frenetiche modernità  (con dilatato uso del wah-wah), ad un pensoso intermezzo che pare riecheggiare perdute tracce psichedeliche.



All'epoca fans e critica avevano storto il naso sino quasi a spaccarselo di fronte a quest'album, adducendo ad esempio imprecisioni di produzione (come il timbro del basso di Squire, meno robusto del solito), oppure il mancato sviluppo, in qualche caso, delle buone idee che germogliavano in studio. In effetti certo materiale avrebbe potuto prendere una direzione più compiuta e omogenea, (Vedi Don't Kill The Whale o anche Circus of Heaven). Senza contare che il 1978 vedeva serpeggiare piccole tensioni nell'ambito della band, che trovavano spunti di disaccordo persino sulla sede delle registrazioni. Il futuro riserverà  qualche mutamento nella line-up.


Ma Tormato resta un'opera in grado di reggere il passare del tempo e delle mode; il gruppo si ricicla decorosamente da alfieri del rock progressivo al rock puro e semplice, (come diverrà  lampante negli anni ottanta) e il risultato è almeno discreto, purchè non ci si attenda più, in futuro, un nuovo Fragile o Close To The Edge. (La versione rimasterizzata »“ 2004 »“ di Tormato contiene ben otto canzoni aggiuntive, di cui la più pregevole è la deliziosa Abilene, all'epoca pubblicata come retro del singolo Don't Kill The Whale).

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Sarebbe facile liquidare la faccenda con un semplice «Bell'album, ma già  sentito», oppure tentare di spiegarsi il fascino del primo ascolto con un lapidario «Orecchiabile». Perché se l'impatto è quello di una musica piacevolmente familiare, le motivazioni non sono certo così superficiali.

 

Quando ascolterete gli Invisibles non cercate di decifrare influenze, somiglianze, non tentate di incasellarli in definizioni di genere né di cadere nella facile tentazione di un paragone con una lunga serie di più celebri cugini d'oltremanica: potreste averli già  persi vista.

 

Piuttosto bisogna lasciarsi trasportare dal timbro limpido e vibrante del vocalist e polistrumentista Vincenzo Firrera: fin dall'opener Gunny la linea della voce, staccandosi senza conflittualità  da una base elettronica di suoni aspri, distorti e all'occasione dissonanti, crea una sorta di rapporto confidenziale con l'ascoltatore; il finale swingato è una bella sorpresa a conclusione di un brano che già  non ne era privo.

 

Away,, pop esemplare, scorre via con la più classica delle strutture compositive. Con Cabaà§a ci troviamo decisamente più ad est: le scale, sostenute dalle sonorità , si spostano su intervalli mediorientali mentre le chitarre si alternano ed intrecciano in arrangiamenti sofisticati.
Per non farsi mancare nulla arriva anche la lingua francese su una vecchia giostra di valzer musette: «c'est finit» chiosa Vincenzo sullo spegnersi di Interludio.

 

L'ascolto di Good Dream Bad Dream, brano notevole e ruffiano, è un piacere: doppia voce con salto in falsetto di un'ottava, aperture spudoratamente melodiche a pieni strings; e l'effetto è assicurato.

 

Semplicemente chitarra acustica e due voci, passa senza dare troppo nell'occhio Frame. Nella successiva Looser, tra una strofa l'altra, mentre la linea melodica si muove su una struttura decisamente articolata, fa capolino addirittura una tromba, cui poi è affidato il finale: una sorta di botta e risposta free.

 

MIDI file è una sorta di track-spia la cui unica funzione sembra essere sottolineare l'importante componente sintetica dell'album; subito dopo, il classico arpeggio di Leaf prepara al congedo finale. La voce di un homeless ringrazia per gli spiccioli e arriva l'effettiva conclusione con la ghost Brother

 

Fortunatamente Simone Pomini, Matteo Marmonti e Vincenzo Firrera di cose da dire ne hanno ancora parecchie ed è così che trovano uno spazio bonus altre due tracce: la stupenda Emigration Song e una meno esaltante The Army.

 

Ad accrescere il valore di questa scarna formazione, tuttavia, è un elemento che purtroppo non si puಠevincere dall'ascolto di un album: durante l'esibizione dal vivo le idee e i suoni degli Invisibles prendono forma con la massima naturalezza ed espressività  e il riscontro del publico ne è una prova più che soddisfacente.

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In caso sussistano ancora dubbi sul fatto che i Blur rappresentino una delle più creative bands provenienti dal regno di Sua Maestà  tra gli Ottanta e i Novanta, è vivamente consigliato l'ascolto dell'opera omonima del 1997, in genere poco celebrata ma imbevuta di variegate innovazioni che la distaccano dalla massa informe dei gruppi indie-rock dell'epoca.
E'un piacevolissimo viaggio in un genere più colto, più maturo da parte dei quattro trentenni, evidentemente stufi dell'idolatria da teenager, sempre inversamente proporzionata alla considerazione degli addetti ai lavori, per quanto potesse importar loro.

 

Si apre con il middle rock di Beetle Bum, che va oltre il risaputo omaggio ai fab four, creando una melodia coprente e affascinante che non avrebbe ad esempio sfigurato tra i solchi del White Album. Il trash metal di Song 2, la cui sequenza d'accordi ricalca tortuosi sentieri garage punk, e della gemella Chinese bombs, è un gancio sul muso a chi definisce Coxon e soci come i fratellini gentili degli Oasis. In verità , la crescita versatile dei ragazzi, l' ampliamento della ricerca tecnica, è in quest' opera lampante. MOR strizza l'occhio al glam epocale di vent'anni prima senza perdersi in vani scimmiottamenti. E dato che dalla casa discografica avranno fatto notare che per campare ci vuole l'hit single, il gruppo sforna l'allegro tricorde di On Your Own, con quel fare goliardico che trasforma il brano in inno nel refrain. Ironicamente sarà  Song 2 ad avere più successo.

 

Il genio spesso sottostimato di Graham Coxon s'esprime nei 218 secondi di You're So Great, ballata acustico-distorta interpretata in modo sinistramente anticonvenzionale dal chitarrista. Pare che lo stesso sia stato il più acceso promotore di un progresso stilistico non più rimandabile e questo suo pezzo ne rappresenta brillante prototipo. Per il resto, le caratteristiche melodiche insite nel complesso sono presenti in toto. Vedi la colorata fantasia degli arrangiamenti, la dissonanza delle armonie, talvolta agli antipodi delle basi melodiche del brano eppure sempre magistralmente funzionali, vedi la «spazialità » aggiunta al piccolo blues di Country Sad Ballad Man, o la macchina del tempo di Theme From Retro arricchita di un Hammond profumato di psichedelia, o i tocchi trip-hop e la fuzz guitar della malinconia ipnotica di Death Of A Party. Ancora, la dilatazione della pacata Strange News From Another Star, trasportata su un'altra dimensione da un tappeto d' effetti sonori repentinamente disarmonici, che lascia campo al rock caustico di I'm Just A Killer For Your Love, con wah-wah, distorsioni e riffs gracchianti, cesellati insieme in una sorta di caos organizzato.

 

Look inside America rischia uno stridente auto plagio tramite una strofa troppo ammiccante a Country House, prima di virare su un inciso di tutt'altro spessore musicale, corroborato da una piacente parte di piano e arpa nel bridge. Il finale è tutto nel rock elettrico di Movin on. E naturalmente nell'ossessiva Essex Dogs, che riduce a brandelli l'immagine della popband sorridente e inutile con una mini picture soundtrack in minore, che se aspettavano tre anni potevano chiedere ai Radiohead d'inserirla in Kid A, con tanto di ghost track finale.

 

L'eclettismo della band permette ai quattro di evadere dal golden pop corner in cui lo stesso successo di Great Escape li aveva confinati e di assumere finalmente la meritata dimensione internazionale, a livello di critica intendo, perché di pubblico ce l'avevano già  da un decennio ormai, che meritavano. E il meglio doveva ancora venire, anche se sarebbe durato poco.

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