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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Giovedì Aprile 18, 2024
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Uno dei gruppi più longevi del punk rock italiano porta al Phenomenon la sua folgorante miscela di punk e patchanka

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Quando una persona decide d’ascoltare un cd, un vinile o persino una musicassetta, novanta su cento decide di ascoltare I brani in fila, senza funzione random. Trovatomi chissà come tra le mani questo quarto album dei Green Day, Insomniac, ho fatto lo stesso, ed al termine del quarto pezzo camminavo sulle acque. La sequenza iniziale di Insomniac è, senza tema di smentite, da manuale del punk. Otto minuti d’irridente potenza introdotti dalla grinta di Armatage Shanks, che sciorina sguscianti passaggi di quarta, proseguiti dagli stacchi selvaggi di Brat, ove Billie Joe confessa il suo incubo uxoricida a scopo di lucro, integrati dalla spensieratezza apparente di Stuck With Me, la cui tematica riecheggia (trent’anni dopo Help!) il disagio di costituire una gallina dalle uova d’oro, conclusi dalla crudezza autolesiva di Geek Stink Breath, La comune peculiarità di queste canzoni è una coprente immediatezza. Il talento più riconosciuto dei tre ragazzi di Berkeley è, fin dai tempi del loro esordio giovanissimi a fine anni ’80 proprio questo. A ciò vada aggiunta, e non è cosa da poco, la stupefacente capacità di cucire armonie differenti (i cosidetti “cantati”) su scheletri di brani basati praticamente sempre sugli stessi accordi. Le prime quattro tracce di Insomniac ne sono esempio notevole, e parevano schiudere la strada verso un album brillante. Purtroppo, nel prosieguo l’anima caliente dell’eroe del punk si raffredda leggermente, anzi sensibilmente.



Nel resto di Insomniac troviamo infatti espressioni di rock ordinate, quasi “professionali” (No Pride86), inni tanto divertenti quanto leggeri (Walking Contradiction), ameni esercizi in controtempo semplici come una passeggiata in bici.(Bab’s Uvula Who?)



Il fatto è che non appena cale la tensione emotiva, i suoni tendono a macchiarsi qua e là d’un sinistro deja-vu. La sensazione è quella di un prematuro appagamento, come una di ricerca stilistica stagnante, frenata dai comodi guanciali su cui i nostri forse iniziavano ad indugiare, forniti dalla major ove erano approdati con Dookie. Certo, i testi mantengono quel “sense of darkness” che contraddistingue la proposta poetica dei Green Day, ma anche in questo campo sarebbe magari lecito attendersi qualcosa di nuovo.



Tutto sommato il grande lavoro diventa con lo scorrere delle tracks un lavoro poco più che ordinario, rivalutato per fortuna verso lo scadere del minutaggio da un’altra perla nascosta. Il micidiale medley Brain Stew/Jaded è un numero d’alta (in) digeribilità, nel quale l’heavy incontra il garage punk e Billie Bad Boy può finalmente vestire dell’atmosfera più consona le più allettanti espressioni del suo delirio professionale. Sarà un eroe maledetto costruito a tavolino, ma almeno qui sentirlo blaterare “Passed the point of delirium” piuttosto che “We're gonna die! Blessed into our extinction” suona appena meno artefatto. Il disco aveva appena riacquistato un po’ di vitalità con Stuart And The Ave, passando attraverso il delirio claustrofobico di Panic Song, con il testo a cura di Mike Dirnt, che concepisce ed esegue anche una vibrante, prolungata introduzione in stile gothic, ed è quasi un peccato il tutto debba concludersi con riempitivi come Tight Wad Hill o Westbound Sign, tutto materiale ampiamente già suonato. Anche la spartana, totale assenza di arrangiamenti contribuisce all’impiattimento della proposta musicale. Senza nemmeno l’ausilio d’un assolo o d’un differente apporto melodico, molti brani appaiono all’ascolto simili tra loro; il sound distintivo dell’elettrica riproposto invariabilmente in ogni track, alla lunga risulta ridondante, monotono. Un attimo di distrazione e non sai più che canzone stavi ascoltando. Impressione ribadita anche dai risultati ottenuti nelle charts, di gran lunga inferiori a quelli di Dookie. Dieci minuti di grande musica, altrettanti di noia e qualche buono spunto: troppo poco. Non che i ragazzi, probabilmente, non se ne siano resi conto: in futuro arriveranno acustiche, pianoforti e concept albums.

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La domanda è: i Clash erano un gruppo punk? Risposta: Lo erano se si considera la stagione del suddetto punk circoscritta ai suoi anni fondamentali, ossia dal 1976 al 1978, in cui bands tanto geniali (Damned), quanto provocatorie (Sex Pistols) che oscure e decadenti (Siouxsie and the Banshees), mitragliavano le proprie vibranti adesioni al movimento. Il problema semmai era che con l’avvento del 1979 il genere non pareva aver più granchè da dire. Gli ambiti del punk erano per propria natura tanto violenti e nichilisti quanto ristretti, e furono proprio i Clash a rinnovarne i canoni ed ampliarne i confini, con una ricerca stilistica che, attraverso i due vinili di London Calling e ancora maggiormente i tre di Sandinista, li consegna ai posteri forse anche più segnatamente dei genuini The Clash o Give ‘em Enough Rope.


In quest’album trovate rock, rock’n’ roll, rhythm’n’blues, pop, soul, ska, reggae solo per citarne gli ingredienti fondamentali, oltre a finezze impensabili fino a pochi mesi prima quali il calypso di Revolution Rock o il bebop di Jimmy Jazz. Naturalmente, nessuna abdicazione alla denuncia sociale, anzi, la band rilancia: nella opener London Calling, ove i timbri battenti del basso di Simonon accompagnano un infuriato Strummer che punta il dito contro il nucleare (sfruttando anche l’onda emozionale causata dall’ incidente del marzo dello stesso anno in Pennsylvania), ma anche contro conflitti razziali e disoccupazione. Per potenza e coinvolgimento vi si può accostare Spanish Bombs, che accompagna con tenui melodie tropicali la guerra civile spagnola, oppure la martellante Guns Of Brixton, prima fatica del bassista Paul Simonon ed interpretata dallo stesso, storie d’ordinaria violenza urbana.



La palma della track più discussa viene però assegnata al secondo singolo Clampdown, e le dichiarazioni di Strummer non aiuteranno a far luce sul caso, i cui versi potrebbero indifferentemente essere interpretati come attacchi al fascismo, al nazismo, al capitalismo. Summa di un intero manifesto generazionale in meno di quattro minuti, la canzone non riscosse però il successo che ci si sarebbe attesi; il pubblico si lascia forse sedurre più volentieri dallo jamaican sound di Wrong ‘em Boyo, in realtà una delle più irresistibili covers mai realizzate dai quattro, o dalla fulminea Koka Kola.



Temi più personali nella grintosissima ed accattivante Death Or Glory, che avrebbe probabilmente meritato anche un singolo per la sua immediatezza e scandaglia le difficoltà del riuscire a gestire la vita da “grandi”, come se il gruppo riconoscesse in maniera implicita di dover superare la propria fase ideologicamente “giovane e spensierata” per assumersi nuove e più profonde responsabilità. E senza soluzione di continuità, il senso di alienazione e confusione nella crescita sono trattati in Lost In The Supermarket o anche in Rudie Can’t Fail.


Doveroso spazio a parte per Train In Vain, principalmente opera di Mick, alla quale spetta il primato di prima hit della band a gravitare intorno allo sconosciuto (per il gruppo) pianeta dei sentimenti. Amore, timore della solitudine e della perdizione, magari rancore verso chi lascia e tradisce. Anche un punk-rocker ha un cuore? Jones confermerà in un’intervista che si tratterà dell’unica lovesong mai scritta dalla band; senza entrare nel merito, il brano ed il suo testo sono davvero significativi per quanto riguarda la metamorfosi che i Clash stavano intraprendendo. E forse anche una canzone d’amore, sotto forma di grido di dolore, può essere definita The Card Cheat, rock bello e dolente, sull’abbandono del soldato forte ed orgoglioso (“all the men who have stood with no fear”) che muore solo, rimpiangendo non tanto la gloria ma l’umanità d’affetti che gli sono stati preclusi e non ritroverà.



Anche il pubblico pare apprezzare la svolta di Headon e compagni; sarà grazie a questo disco che l’America s’accorgerà finalmente di loro. Perderanno certamente qualche fan oltranzisticamente ottuso, ma ormai la via è tracciata: London Calling è un album completo, emozionante, sentito, ma non è un masterpiece. I ragazzi erano sì riusciti a coniugare la violenza nullista del punk con un suono ad ampio raggio aperto e critico sulla realtà quotidiana, ma il capolavoro arriverà non appena troveranno il coraggio di osare oltre il limite del consentito, di sperimentare, di irridere le convinzioni senza condizionamenti, come storicamente han fatto solo i musicisti veri, Beatles e pochi altri. Ossia con l’opera successiva.

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In bilico tra gli albori punk ed un evoluzione “in progress” decisamente più ammiccante all’ondata grunge che travolgeva da oltre oceano, questo Mantra, quinto disco dei Ritmo Tribale, è stato quello che maggiormente ha avvicinato i cinque rocker milanesi al “grande salto”, poi mancato.

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