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SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE Friedrich Nietzsche

Venerdì Marzo 29, 2024
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Martedì 4 luglio, ore 21. Si spengono puntuali le luci del Teatro degli Arcimboldi di Milano e si accendono quelle di scena: inizia lo spettacolo del menestrello più famoso e influente nella «storia della canzone moderna» trasformatosi - in occasione del tour che ha accompagnato l’ingresso nei suoi 80 anni - da cantastorie a talentuoso pianista, centro gravitazionale di una serata blues memorabile.

 

Attorno a Dylan, disposti e attratti come satelliti in un moto sospeso, i musicisti dell’ensemble danno vita ad un sound fuori dallo spazio e dal tempo: chitarra blues, elettrica e acustica sono affidate ai due strumentisti in prima linea, Bob Britt e Doug Lancio; la steel guitar (alternata all’occorrenza a mandolino e violino) scivola sotto le sapienti dita di Donnie Herron, mentre il bassista elettrico e contrabbassista Tony Garnier veglia alle spalle di Dylan, coordinando la sezione ritmica, che forma insieme al giovane Charley Drayton. In questa atmosfera sonora, accarezzato da una luce fioca e calda, punteggiata dai faretti agganciati ai leggii, avvolto dai velluti rossi del teatro, Bob Dylan sembra decisamente a proprio agio, sereno, quasi di buon umore. È proprio vero «che le cose non sono più come prima».

 

La scaletta, ormai ampiamente sviscerata, prevede una serie di classici stravolti, come da tradizione, fin quasi all’irriconoscibilità, alternati a brani dell’album Rough and Rowdy Ways (2020). Cultura alta e bassa, amare riflessioni sulla condizione umana e sui tempi che viviamo, sono al centro della ricerca dell’ultimo Dylan, portata in scena con modi tutt’altro che «rozzi e turbolenti» in una chiave blues cupa, ipnotica a tratti ossessiva, non priva, tuttavia, di momenti brillanti e scherzosi, vissuti a colpi di note ben piazzate, botta e risposta decisi tra sei corde e pianoforte.

 

Watching the River Flow apre il concerto mentre Dylan prende le misure seduto al pianoforte; è sulle note di Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine che si alza in piedi (lo farà durante tutto il concerto, pur tenendo le mani ben ancorate ai tasti bianchi e neri, sempre inibiti alla vista della platea) quasi a voler cercare un contatto col pubblico. Sarà forse l’evidenza anagrafica ad aver smussato gli angoli di uno degli interpreti più incompresi dai suoi stessi fan, ma sentir uscire dalle sue labbra «Grazie, grazie, vi ringrazio» in modo così spontaneo e cortese, è stato estremamente toccante.

 

I Contain Multitudes riporta alla riflessione, la pacatezza dell’esecuzione rapisce gli astanti, grazie anche ad una performance vocale irreprensibile. Attacco honky-tonk per il blues nostalgico della nuova False Prophet, prima di tornare agli anni ‘70 di When i Paint my Masterpiece.

I brani in scaletta scivolano tra rhythm and blues e accenni rock-n’-roll, arpeggi e riff che si intrecciano, scontrano e poi procedono all’unisono, assoli di chitarra blues e steel, da cui emergono, dirompenti e a tratti dissonanti, le note del pianoforte. A momenti trascendenti, quasi mistici, si alternano siparietti in cui l’imprevedibilità di Dylan è sottolineata dall'atteggiamento dei musicisti intenti, nei passaggi più concitati, a scrutarne l'imperscrutabilità, per interpretare correttamente uno stacco trascinato o la chiusura del brano.

 

Di una cosa sicuramente saremo tutti grati al severo e intransigente Zimmerman: averci evitato il supplizio dei telefonini alzati, degli schermi luminosi, delle distrazioni che ci impediscono di godere in modo autentico dei momenti straordinari. Costringendoci ad ascoltare Dylan ci ha fatto il più regalo più bello, imprimendo indelebilmente questa esperienza nelle nostre memorie (non in quelle sintetiche e caduche dei dispositivi elettronici “usa e dimentica”).

 

Every Grain of Sand chiude l’esibizione, facendo esplodere il pubblico sulle note di armonica dell’assolo finale: sentire il respiro di Dylan che attraversa le lamelle è qualcosa che immancabilmente fa vibrare un fan nel profondo.

Ecco che tra gli applausi si alza e, non senza fatica, si porta alla destra del pianoforte per un saluto al pubblico. Subito dopo, le luci accese e il gran affaccendarsi degli attrezzisti sono un chiaro segnale: Bob Dylan non concederà alcun bis e ci dovremo “accontentare” di quanto concesso fino a quel momento, il privilegio di un accesso riservato, di un viaggio nel tempo e nell'intimità del suo universo sonoro.

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Interessante programma musicale quello con cui il neonato jazz Club Milano si appresta ad arricchire il giugno meneghino. Si parte questa sera con un omaggio a Bruno De Filippi affidato all'armonica di Max De Aloe, affiancato per l'occasione da Giampiero Spina, Massimo Minardi, Marco Ricci e Vittorio Sicbaldi.

 

Si prosegue sabato 15 con il duo Mario Rusca (Piano) e Riccardo Fioravanti (Contrabbasso) e mercoledì 19 con Sandro Gibellini Guitar Jaz Quartet (Alfredo Ferrario: Clarino; Roberto Piccolo: Contrabbasso, Vittorio Sicbaldi: Batteria).

 

Sabato 22 sarà un elegante trio dalle atmosfere distese ed espressive a calpcare il palco del MJC: il Claudio Ottaviano Trio, il cui repertorio presenta sia composizioni originali tratte dall'album Notturno sia composizioni inedite.

 

A chiudere il programma di giugno è il concerto di Luca Mannutza (Pianoforte) Marco Ricci (Contrabbasso), Tullio Ricci: Sax Tenore e Soprano) e Vittorio Sicbaldi (Batteria).

 

Per ulteriori informazioni e per diventare soci del club:

 

Jazz Club Milano
Via Spoleto 4 . MM1 Rovereto
Milano

Tel.: 373.8334451 
www.jazzclubmilano.org
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Tutti conoscono Bob Dylan come musicista, ma non molti sanno che il poeta della canzone è da sempre anche un artista visivo. A Palazzo Reale, prima assoluta in Italia, saranno esposti 22 dipinti della serie "New Orleans" creati recentemente dall'artista. La mostra è un'opportunità unica in Europa per scoprire Dylan come artista visivo dopo la sua prima personale del 2007 al Kunstsammlungen di Chemnitz, dove ha presentato acquarelli e gouaches frutto del suo diario di viaggio, e la mostra al National Museum a Copenhagen nel 2010, che ha ospitato  la serie di dipinti "The Brazil".

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Correvano gli anni Novanta, Kurt Cobain ci aveva lasciato da poco, in Europa si affermavano nuovi fenomeni pop destinati, nelle loro diverse declinazioni, a prendersi la scena, mentre a Seattle si continuava a suonare, ma il movimento grunge si era già lasciato alle spalle il suo periodo d’oro.

Più a sud, a Los Angeles, una ragazza canadese poco più che ventenne provava a emergere in quel mondo che frequentava già da un po’, ma che non le aveva ancora regalato grandi soddisfazioni. E’ in questo contesto che nel 1995 viene pubblicato Jagged Little Pill, primo album di successo di Alanis Morissette, che conquista rapidamente il favore del pubblico e dà il via alla scalata dell’artista dal ruolo di semisconosciuta a quello di rockstar. Un timbro riconoscibile, testi espliciti, sonorità trasmissibili anche dalle radio, un uso sapiente dei videoclip e tanta grinta ne favoriscono l’ascesa, e la aiutano a ritagliarsi il suo spazio in un decennio povero di grandi personalità femminili.

Diciassette anni dopo sono tra gli spettatori all’Ippodromo di San Siro, dove la Morissette si ripropone ai milanesi a quattro anni di distanza dall’ultima apparizione italiana, con qualche settimana d’anticipo rispetto all’uscita del suo nuovo lavoro Havoc and Bright Lights.

Le luci si spengono con tre quarti d’ora di ritardo, ma una signora val bene l’attesa, soprattutto se l’oscurità può essere funzionale allo spettacolo (non sarà così). La band prende posizione e inizia a suonare l’intro di I Remain, quando arriva la voce da dietro le quinte. E’ solo un assaggio, il brano si interrompe, i riflettori esplodono e con lo stesso fragore, sulle note di Woman Down, fa il suo ingresso Alanis: sorriso sulle labbra, pantaloni glitterati, canottiera bianca e gilet nero.

Inizia a macinare chilometri, da un lato all’altro del palco, con lo sguardo sempre rivolto al pubblico, come i bravi attori. La mia attenzione, come sempre all’inizio di un concerto, è più sul quadro generale e sulle movenze dell’artista che sulla performance canora. Il flusso musicale è continuo, sicuro, senza sussulti, non sento niente di strano, ed è proprio questa mancanza di alti e bassi che già alla terza canzone insinua nella mia mente un dubbio che si fa subito insistente, ma che al momento tento di reprimere.

Continuo a pormi le stesse domande durante You Learn e il nuovo singolo Guardian, per il quale la ragazza di Ottawa imbraccia una chitarra elettrica. La voce c’è, è precisa, quasi perfetta, il volume è costante, perfino quando scosta la bocca dal microfono per cambiare accordo non c’è mai un calo. Anche i cori sovrapposti sono altrettanto impeccabili (non ci sono altri vocalist). Potrei anche aver assistito a un’esibizione ineccepibile, nonché al lavoro altrettanto magistrale di un tecnico del suono capace di aggiungere e togliere effetti in tempo reale senza la minima sbavatura, ma il sospetto che in realtà i meriti siano da attribuire quanto meno a un piccolo aiuto registrato mi resta.

Seguono Flinch, Forgiven ed Hands Clean, prima della seconda parte di I Remain. In generale lo show non si contraddistingue per originalità, la protagonista ripete sempre lo stesso movimento, cammina da destra a sinistra, da sinistra a destra, sorride, e ogni tanto concede alla platea un “thank you so much”, niente di più. I musicisti alle sue spalle provano a dare un po’ di movimento: da citare le scrollate di capo del tastierista Michael Farrell e le piroette del bassista Cedryc Lemoyne, che oltre a svolgere il suo compito, mi accorgo, riscuote consensi tra il pubblico femminile.

La svolta arriva con Ironic, quando finalmente riesco a interrompere i miei tentativi un po’ maliziosi di cogliere ogni minima asincronia per avvalorare la mia tesi. Adesso finalmente c’è l’interpretazione, non solo l’esecuzione, ci sono variazioni melodiche, e la grande partecipazione della folla quando Alanis gira il microfono verso di noi. Posso rilassarmi e godermi la musica, che da questo punto in poi cambia e diventa più umana, in linea con quello che ci si aspetta da un live. Dopo è la volta di un’altra novità, Havoc, prima di

Head Over Feet, 21 Things I Want in a Lover e di una nuova ondata d’entusiasmo scatenata da You Oughta Know.

Chiude la scaletta, prima dei bis, Numb, che culmina in un headbanging che per un breve istante mostra quel lato indisciplinato della Morissette che colpiva all’inizio della sua carriera, e del quale ora è rimasto poco. A volte l’esuberanza giovanile si trasforma in carisma e autorevolezza, altre più semplicemente svanisce per lasciare solo il ricordo.

Dopo i finti saluti due bis: Hand In My Pocket e Uninvited, un’altra breve pausa e la conclusione con Thank You, ringraziamento finale dopo un’ora e mezza fin troppo ordinaria.

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AH-UM jazz festival 2012 - X edizioneDal 14 al 20 maggio il jazz invade le strade e i locali del Quartiere Isola di Milano con numerosi concerti, mostre e laboratori per i più piccoli. Anche la precedente edizione, tenutasi in luoghi diversi del Quartiere Isola nel maggio 2011, ha confermato AH-UM Milano Jazz Festival come una delle più importanti iniziative dedicate al jazz nazionale.  Il festival è organizzato dall'Associazione Culturale Colettivo Jam, attraverso una messa in opera di una ricca rete di scambi, collaborazioni e sinergie tra realtà istituzionali (associazioni di quartiere), culturali (gallerie d'arte, spazi polifunzionali) e commerciali (locali per pubblico spettacolo, pub, negozi, artigiani) al fine di creare un momento spettacolare e ricreativo di alto profilo e di ampio respiro.

Per ulteriori informazioni
www.ahumjazzfestival.com

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